Una traduzione mancante: la Muqaddima di Ibn Khaldūn

di Paolo Branca

1.

Con sempre maggiore e approfondito senso critico le traduzioni vengono studiate e valutate, non soltanto dai linguisti ma anche da esperti delle influenze culturali che si sono prodotte e continuano a prodursi quando un testo particolarmente significativo di una civiltà viene trasposto in altri idiomi e quindi messo a disposizione di lettori che hanno un retroterra differente rispetto ai suoi originari destinatari. Il problema dunque della scelta di quali testi tradurre, anche se meno dibattuto rispetto agli aspetti per così dire più tecnici della traduzione, torna a proporsi. Grandi “classici” hanno avuto spesso la precedenza, ma non bisogna dimenticare la quantità di opere che invece sono state prescelte principalmente per la loro utilità pratica, come quelle di astronomia, medicina e matematica, oppure annali che riportavano le grandi imprese di antichi sovrani alla cui esperienza si desiderava attingere, soprattutto per tentare di eguagliarne la gloria. In tal senso gli arabi, com’è noto, furono estremamente ricettivi nei primi secoli del Califfato rispetto alle culture limitrofe. Pochi decenni dopo la scomparsa del Profeta, nacque addirittura la cosiddetta prosa di adab (o d’educazione, termine che oggi vuol dire anche “letteratura”) con opere che fiorirono per accompagnare il loro passaggio da nomadi del deserto a sovrani di un impero. Accanto alle scienze religiose, a quelle linguistiche e filologiche, occorreva infatti che i giovani principi e i figli delle classi dirigenti acquisissero una cultura raffinata, un’educazione nel senso più ampio del termine, che li introducesse ai compiti delicati e complessi che li attendevano. Il loro modo di esprimersi, di muoversi, di abbigliarsi e di stare a tavola dovevano rifletterne l’estrazione sociale e sostenerne il ruolo. Molte opere si premurarono di fornire loro le regole del perfetto gentiluomo, specializzandosi secondo le diverse funzioni: sotto forma di risàla (cioè epistola o trattato) si raccoglievano consigli e ammonimenti destinati agli eredi al trono, ai segretari, ai letterati…, sul modo di intrattenere gli ospiti, di bere e mangiare coi commensali, di svolgere determinate mansioni, spesso attingendo esempi e aneddoti anche da altre culture, specialmente quella persiana e bizantina. Trovandosi a capo di un impero in formazione – narra il cronista ʿAlī al-Masʿūdī (897-957) – già il primo califfo omayyade di Damasco, Yazīd ibn Mu’āwiya (che regnò dal 661 al 680) avrebbe sentito il bisogno di istruirsi allo scopo:

For the first third of the night, Mu’awiya would occupy himself with the history and the Ayyam of the Arabs . . . retire to sleep for the second third then rise and settle down, order that the volumes containing the lives and histories of kings and their wars and stratagems be brought to him and have them read to him by servants specially assigned to do so and entrusted to memorize and recite them. Thus, each night, he would listen to a series of reports, life histories, tales of the past and all kinds of political precepts (Mas’udi 1966-79, III, 222).

Per comodità del lettore innanzitutto, ma anche per la difficoltà di accedere agli originali arabi in tempi di covid 19, cito dalla versione inglese offerta da Khalidi 1994, 84 – pur consapevole delle insidie che ciò comporta. Altrettanto farò per le successive citazioni da scrittori arabi di cui non si dispone di versioni in italiano, accompagnandole di volta in volta da una mia traduzione di servizio in italiano. Ecco dunque questa prima:

Per il primo terzo della notte, si sarebbe occupato della storia delle Giornate campali degli antichi arabi […] poi dormiva per il secondo terzo, per quindi alzarsi e sistemarsi, ordinare che volumi contenenti le vite e le storie dei re e le loro guerre e stratagemmi gli venissero portati e fatti leggere da servi appositamente incaricati di farlo, così come di memorizzarli e recitarli. Quindi, ogni notte, avrebbe ascoltato una serie di rapporti, storie di vita, storie del passato e tutti i tipi di precedenti politici.

La preferenza accordata a funzionari locali anche di altra fede fu ben giustificata nello stesso periodo di grande espansione territoriale: il governatore omayyade dell’Iraq, ‘Ubaydullàh ibn Ziyàd (m. 686) affermava, secondo lo storico al-Balādhurī (m. 892):

If I employed an Arab as tax collector and he embezzled the land-tax and I punished him, I risked antagonizing his tribe. If I fined him, deducting the fine from the pension of his clan, I did them harm. If I dropped the matter I would be wasting God’s money […] I found therefore that the dihqans [Persian gentry] were more knowledgeable about tax collection, more honest with their trust and easier for me to call to account (al-Balādhurī 1938, 472 e 109, in Khalidi 1994, 89).

Se avessi assunto un arabo come esattore delle tasse e lui avesse sottratto l’imposta fondiaria, punendolo avrei rischiato di vedermela con la sua tribù. Se l’avessi multato, detraendo l’ammenda dalla pensione del suo clan, li avrei danneggiati. Se avessi lasciato cadere la questione però avrei peccato contro Dio […] Ho scoperto quindi che i dihqàn [appartenenti alla nobiltà persiana] erano migliori, più informati sulla riscossione delle imposte, più onesti e più facilmente controllabili (citato in Khalidi 1994).

A queste considerazioni pragmatiche se ne accostavano altre di non minor conto e sempre ispirate a un deciso realismo: l’amministrazione di grandi civiltà “idrauliche” come la Valle del Nilo o la Mesopotamia richiedevano competenze che i nuovi conquistatori non possedevano. Se poi a corte si sentiva il bisogno di musici, danzatrici e maggiordomi, la scelta cadeva spesso su personale locale e in certi casi preferibilmente non arabo né convertito all’islam: un astrologo o un medico estraneo a conflitti tribali, cui presto si aggiunsero quelli dottrinali dovuti alla spaccatura fra sunniti e sciiti, davano infatti maggiori garanzie di lealtà e affidabilità.

Il kàtib, lo scrivano/segretario, doveva istruirsi in senso enciclopedico. Dice infatti Abd al-Hamìd, letterato dell’VIII secolo:

The katib needs himself to be, and is required by his master, who trusts him in important affairs, to be forbearing (halim) when appropriate, prudent when opin-ion is required, daring when need be but ready to retreat if necessary, chaste, just and fair by preference, a keeper of secrets, loyal in times of crisis, capable of predicting calamities, having a sense of the proportion of things. He should have examined every branch of knowledge and mastered it; if he cannot master it, he should acquire of it a measure sufficient for his needs. He should know by rational impulse, good education (adab) and a store of experience what will happen to him before it happens and what results his actions will produce before he acts, to the end that he readies for each affair its requisite stores and for each problem its proper form and usage (Abd al-Hamìd, 1946, 222-223, in Khalidi 1994, 90).

Il kàtib ha bisogno di essere, ed è richiesto dal suo padrone che si fida di lui per affari importanti, tollerante quando appropriato, prudente quando è necessaria l’opinione, osare quando è necessario ma pronto a ritirarsi se è il caso, casto, custode di segreti, fedele in tempi di crisi, capace di prevedere le calamità e avere un senso della proporzione delle cose. Dovrebbe avere conoscenza di ogni branca del sapere e padroneggiarle; se non riesce a dominarle, dovrebbe almeno acquisirne una misura sufficiente per le sue esigenze. Dovrebbe farlo per razionale impulso, buona educazione (adab) e possedere un archivio di esperienze che gli consenta di sapere cosa gli succederà prima che accada e quali risultati produrranno le sue azioni prima che agisca, al fine di gestire ogni affare e risolvere correttamente tutti i problemi (citato in Khalidi 1994, ).

Avvertiva però il suo contemporaneo Ibn al-Muqaffa‘ che le narrazioni tradizionali andavano vagliate con cura:

Next, examine reports of marvels and treat them with caution, for human nature covets tales, especially marvels. Most men narrate what they hear but care not from whom they heard it. This perverts truth and belittles reason. If you can report nothing except what you believe in, and your belief is bolstered with proof, do so. Do not repeat what fools say: I merely report what I heard. For most of what you hear is false (Ibn al-Muqaffa‘ 1946, 94-95, citato in Khalidi 1994, 95).

Esamina i rapporti sulle meraviglie e trattali con cautela, perché la natura umana brama storie, in particolare meraviglie. La maggior parte degli uomini racconta ciò che ascolta ma non importa da chi l’hanno sentito. Questo perverte la verità e sminuisce la ragione. Se non puoi segnalare nulla tranne quello in cui credi e la tua convinzione è rafforzata con la prova, fallo. Non ripetere ciò che dicono gli sciocchi: semplicemente riferisco ciò che han sentito. Per la maggior parte ciò che senti è falso.

Anche perché – precisava Sallām al-Jumaḥī (756-847) – in alcuni casi le false attribuzioni prosperarono:

When the Arabs began to review the recitation of poetry and the historical record of battle-days and glories, some tribes found that their tribal poets had produced little verse and that their exploits had gone unrecorded. Thus a group of such tribes with few exploits and little verse, wishing to catch up with other tribes with a richer heritage, forged verse and ascribed it to their poets. Then came professional reciters who added to the verse. But experts are not normally deceived by such accretions nor by modern forgeries, although some doubt arises in cases of verse recited by a poet who is a nomad and a descendant of poets (Jumahi 1913, 14, citato in Khalidi 1994, 102).

Quando gli arabi iniziarono a riconsiderare la poesia e la documentazione storica delle loro Giornate campali e glorie, alcune tribù scoprirono che i loro poeti non avevano registrati i loro vanti. Quindi un gruppo di tribù che avevano poco materiale e desideravano raggiungere altre tribù con un patrimonio più ricco, attribuirono ai loro poeti versi falsi. Alcuni si specializzarono in tale opera, ma gli esperti di solito non ne vengono ingannati, sebbene sorgano alcuni dubbi in caso di versi riportati da un poeta nomade e discendente di poeti.

2.

E’ accaduto, e non di rado, che libri comparativamente di minor valore letterario o artistico nell’originale abbiano conosciuto invece maggior fortuna nelle loro trasposizioni in altre lingue.

Il primo prosatore dell’era islamica, Ibn al-Muqaffa‘ (m. 757), trasferì dall’antico persiano in arabo una raccolta di fiabe indiane (dette Pañcatantra) che intitolò Kalīla wa Dimna, e che in italiano è stato tradotto Il libro di Kalìla e Dimna (Borruso, Cassarino 1991). Si tratta della storia di due sciacalli alla corte del leone, l’uno astuto e intrigante, l’altro mite e impotente spettatore delle imprudenze dell’amico che si espone a ogni sorta di pericolo. E’ evidente che, dietro le avventure dei due animali, sono rappresentate le vicende umane in un ambiente come la corte del sovrano, per molti aspetti non meno insidioso di una giungla. Del resto lo stesso autore partecipò attivamente alle vicende del suo tempo: di origine iranica, sostenne il ruolo dei nuovi convertiti all’islam (mawàli, ossia clientes) all’interno dell’impero in formazione, facendo parte del movimento letterario al-Shuʿūbiyya che assegnava ai popoli (shuʿūb) recentemente acquisiti all’islam responsabilità almeno pari a quelle degli arabi, quando non superiori alle loro in forza delle antiche e prestigiose tradizioni culturali e statali da cui provenivano. La sua spregiudicatezza gli valse molte inimicizie e fu facile accusarlo di essere ancora legato all’antica fede manichea per condannarlo al patibolo. Quel che è certo è che le sue opere non si segnalano per alcun carattere specificamente islamico, ma tendono a porsi a livello di un’etica universale che trascende le specifiche appartenenze religiose.

In senso inverso il caso più noto è quello de Le mille e una notte, ciclo favolistico dell’epoca della decadenza destinato a rappresentare per secoli in forma “esotica” presso gli occidentali un Oriente ormai meno temuto come avversario politico-militare e quindi anche per questo favorito come luogo dell’ignoto, del fantastico e del “maraviglioso”. Lo sviluppo delle esplorazioni e le maggiori conoscenze e interconnessioni della modernità ci hanno costretto in seguito a spingere l’immaginazione negli spazi interstellari grazie alla fantascienza, poiché sulla terra andavano restringendosi le aree talmente incognite da poter fare da sfondo alle più ardite sperimentazioni narrative.

3.

Se nell’alto Medioevo e fino all’epoca umanistica la cultura araba fu pari se non superiore a quella occidentale, un profondo cambiamento si produsse nei secoli successivi. La riscoperta dei classici greci e latini (che avvenne anche grazie all’intermediazione araba) pose le basi per la fioritura del Rinascimento, mentre esplorazioni geografiche e scoperte scientifiche imprimevano una straordinaria accelerazione dello sviluppo dell’Europa, sia al suo interno sia anche relativamente alla sua collocazione rispetto agli altri continenti.

Furono soprattutto le nuove rotte e la scoperta dell’America a ridimensionare la centralità del Mediterraneo e a contribuire al sorgere di nuove potenze, assorbite quasi totalmente dalle inedite prospettive che si andavano aprendo (oltre che dalle loro reciproche rivalità). Il mondo islamico restava un partner commerciale (si pensi a Venezia e ai suoi rapporti coi turchi) e un avversario temibile che con gli Ottomani giunse a minacciare a più riprese la stessa Vienna, ma progressivamente la questione d’Oriente divenne un fronte secondario e quasi una seccatura marginale per gli europei, i quali andavano accumulando enormi fortune e si spingevano sempre più in là nel progresso tecnico e scientifico.

Non si trattava però di mero sviluppo materiale: nell’evoluzione europea che prese le mosse nel Cinquecento c’erano i germi della modernità. Una serie incredibile di eventi accelerò al massimo trasformazioni a ogni livello. La scienza sperimentale cominciò a mettere in discussione tutto quanto era stato trasmesso sull’autorità degli antichi, proponendo una radicale revisione di ogni sapere. La stessa concezione dell’universo si ribaltò, con il graduale e non facile successo di nuove teorie, come l’eliocentrismo, che ribaltava la classica visione di un universo imperniato sulla terra. I moti di quest’ultima, così come quelli degli altri astri, vennero definiti con sempre maggior precisione, contribuendo enormemente allo sviluppo delle tecniche di orientamento, specie nella navigazione. Alla rivoluzione copernicana corrispose qualcosa di diametralmente opposto dal punto di vista ideale: non più Dio, ma l’uomo fu considerato il centro della creazione ed esplose la fiducia nelle facoltà di quest’ultimo di comprendere e trasformare il mondo. Sulla filosofia dell’essere si impose gradualmente quella del divenire ed anche le arti subirono profondi mutamenti. La Riforma protestante colpì duramente il principio di tradizione promuovendo la Bibbia in lingua corrente, di modo che essa si diffuse con rapidità grazie alla stampa da poco inventata e contribuì all’alfabetizzazione delle classi popolari. Anche sul piano politico, l’affermazione degli stati nazionali sostituì progressivamente i grandi imperi tradizionali e i ceti medi ebbero un ruolo sempre crescente nelle dinamiche e negli equilibri sociali.

Nello stesso periodo, il mondo islamico subiva invece una trasformazione per molti aspetti inversa. Dopo i primi secoli di straordinaria fioritura, le divisioni interne da un lato e, dall’altro, il colpo fatale dell’invasione mongola, che nel 1258 distrusse Baghdad e sterminò la famiglia regnante, determinarono il definitivo tramonto di un impero musulmano almeno formalmente unitario. I pretoriani turchi, che già avevano posto da tempo sotto tutela il califfo, non trovarono più alcuna resistenza che impedisse loro di affermarsi con dinastie proprie. Queste ebbero senz’altro il merito di contenere l’ulteriore avanzata delle orde nomadi che minacciavano l’area mediterranea: furono proprio i Mamelucchi a fermare definitivamente i Mongoli che dilagavano verso Occidente. Inoltre, esse ereditarono la missione dei loro predecessori che da Damasco e da Baghdad avevano governato gran parte del mondo musulmano, ma l’universalismo dei secoli precedenti non risorse più qual era stato. La Persia e le regioni islamiche ancora più orientali cominciarono ad avere un’evoluzione tutta propria, svincolata dal resto dei territori dominati dalla stessa fede. Fu piuttosto verso l’Anatolia, i Balcani e l’Europa centrale che si concentrarono gli sforzi dei sultani ottomani, così come la pirateria turca interessò a lungo le coste del Mediterraneo. Oriente e Occidente si voltavano progressivamente le spalle, anche all’interno della compagine musulmana, con l’Asia decisamente più influenzata da elementi iranici e quindi sciiti (soprattutto dopo il Seicento) e l’area mediorientale e nordafricana sotto la tutela turco-sunnita. L’impoverimento delle metropoli e la crisi degli itinerari commerciali terrestri (la famosa “via della seta”) indebolì le classi medie, allargando il fossato che separava le esigue caste di privilegiati dalla gran massa degli indigenti. Gli insegnamenti si facevano più ripetitivi, meno originali e arditi, così come diventava più difficile per sapienti e artisti trovare chi ne valorizzasse l’ingegno. E’ vero che anche nei periodi più oscuri, come sotto lo stesso Tamerlano, gli artigiani furono risparmiati dalle stragi e inviati ad abbellirne la fiabesca capitale: Samarcanda, né mancano un po’ dappertutto straordinarie opere d’arte che risalgono proprio a questo periodo forse troppo sbrigativamente definito di decadenza. Ma la strada del declino era stata chiaramente imboccata. Mentre la Roma post-barbarica o la Parigi dei Franchi non avrebbero retto il confronto con Baghdad o Cordoba, già dotate di illuminazione pubblica, biblioteche e ospedali quando l’Europa rialzava timidamente la testa nell’alto Medioevo, ora i rapporti di forza e i parametri della qualità della vita si erano comparativamente capovolti.

Mutò anche – conseguentemente – il modo in cui ciascuno dei due dirimpettai guardava all’altro. Non a caso proprio nel Cinquecento si ebbe la prima versione italiana del Corano (1547) uscita a Venezia: L’Alcorano di Macometto, nel qual si contiene la dottrina, la vita, i costumi, et le leggi sve. Tradotto nuovamente dall’Arabo in lingua Italiana, stampato da Andrea Arrivabene. Carlo De Frede (1967, 30) fa dipendere questa traduzione da quella latina, Lex Mahumet pseudoprophete, risalente al 1143 e stampata dal Bibliander a Zurigo nel 1543: i riscontri lo confermano ampiamente, mentre la sua ipotesi che possa essersi basata sulla «misteriosa edizione paganiniana», ora che quest’ultima è stata ritrovata, si può escludere (Borrmans 1990-1991); ma poi anche altre ipotesi sono seguite. In questa versione i vari capitoli non corrispondono alle sure coraniche ma, sembra, a una divisione dei temi trattati secondo una logica che il traduttore ha creduto di trovarvi. Ad ogni modo il testo sacro dell’islam, ancora considerato in Europa somma eresia, cessava di essere fornito prevalentemente a ecclesiastici in latino al solo scopo di confutarlo.

4.

E’ avvenuto e continua ad accadere tuttavia anche il contrario. Opere forse non subito divenute dei “classici” nel loro stesso ambiente originario, ma successivamente assurte a grande notorietà, ancora attendono di essere tradotte. Ci occuperemo qui di Ibn Khaldūn (m. 1406), grande storico maghrebino, notevole per la novità della sua impostazione e l’originalità dei suoi giudizi. A proposito di quanto queste caratteristiche del suo pensiero siano state apprezzate in epoca recente, al momento del moderno Rinascimento arabo (nahda), ci sembra interessante riportare questa testimonianza, contenuta in una lettera, datata 20 dicembre 1830, del console di Sua Maestà imperialregia asburgica in Egitto Giuseppe Acerbi (1773-1846) e pubblicata nel 1831 nella «Biblioteca Italiana», la rivista milanese da lui stesso diretta dalla fondazione, nel 1816, fino al 1825, quando era riuscito a riprendere la carriera diplomatica che era stato costretto a interrompere con la caduta di Napoleone. La lettera era indirizzata all’abate Robustiano Gironi (1796-1838), archeologo e bibliografo, già segretario del ministro dell’Interno della Repubblica Italiana e dal 1817 alla morte direttore della Biblioteca imperialregia di Brera (la Braidense). Essa accompagnava uno dei «codici arabi portati d’Egitto e trasmessi in dono alla Biblioteca suddetta ed alla Biblioteca Imperiale di Vienna», che è attualmente reperibile come Braidense AG.XI.6. Scriveva Acerbi:

Eccole, stimatissimo signor Consigliere bibliotecario, il codice ch’ebbi l’onore di annunziarle fino dal 25 dello scorso giugno. Esso è scritto in arabo, e contiene una copia della famosa opera di Ebn Khaldun […]. Ella troverà alquanto strano che ne’ frequenti colloquj che il mio soggiorno in Alessandria e nel Cairo mi ha procurati col Bascià Mehemet-Aly vicere d’Egitto, siasi parlato anche di libri e di letterature; ma strabiglierà forse per maraviglia all’intendere che il Bascià d’Egitto si è fatto fare a bella posta per sé una traduzione in turco del Principe del Machiavelli, bramoso di conoscere di che mai trattisi in un libro del quale aveva inteso parlare da qualche europeo con istraordinaria ammirazione.
Ebbene in una delle nostre famigliari conversazioni nelle quali non entravan punto di mezzo gli affari d’ufficio, egli si espresse meco a un di presso nel modo seguente, come mi fu interpretato dal suo dragomanno. E ciò accadde al Cairo nell’anno 1828.
“Voi fate gran romore in Italia del vostro Machiavelli. Lo feci tradurre in turco per sapere che cosa mai vada egli dicendo; ma confesso che l’ho trovato al di sotto della aspettazione mia e della sua fama. Sono stato assai più preso da maraviglia nella lettura di un’opera scritta originalmente in arabo, ma pure anch’essa tradotta in turco; e quest’opera è quella della storia di Ebn-Khaldun. E’ uno scrittore molto più libero del vostro Machiavelli, ed a mio avviso molto più utile. Voi dite che il Machiavelli è proibito in varj Stati d’Europa; Ebn-Khaldun lo sarebbe assai più”.

L’autore della lettera sembra anch’egli apprezzare la modernità dell’opera di Ibn Khaldūn, ma non la ritiene paragonabile a quella del Machiavelli: «Od io m’inganno, o quest’opera pare disegnata e concepita in questo secolo: tanto e bella e giudiziosa e filosofica l’esposizione delle sue parti. Ma non so vedere quale analogia abbia quest’opera paragonata col Principe del Machiavelli» («Biblioteca italiana, vol. XLI, 1831, pp. 289-290).

Anche se saldamente inserito nella tradizione islamica, il grande storico maghrebino seppe passare dalle tradizionali raccolte annalistiche a un approccio più sistematico, una sorta di “filosofia della storia” in base alla quale non si accontentò di narrare i fatti, ma si interrogò sulle loro cause e notò come nel corso del tempo e ciclicamente alcuni fenomeni tornano a riproporsi, come ad esempio l’affermarsi di nuove dinastie provenienti da regioni aride, in grado di scalzare in forza del loro spirito di corpo (ʿaṣabiyya), della loro tempra e delle più sviluppate capacità belliche i loro pur potenti predecessori, infiacchiti dai lussi e divisi dalle contese degli ambienti urbani.

Lo stesso significato del termine arabo Muqaddima, titolo della parte più notevole della sua opera, è del resto emblematico: vuol dire infatti “premessa”, “introduzione” o “prolegomeni”. Di qui la sua rilevanza dal punto di vista metodologico. Prima cioè di elencare dei fatti, l’autore si sofferma su considerazioni generali relative ai climi, all’economia, alle stratificazioni sociali…, permettendosi anche di vagliare con buon senso quanto tramandato dalle cronache precedenti, trovando ad esempio chiaramente esagerate cifre con tutta evidenza gonfiate per compiacere i committenti o stupire i lettori.

Il suo straordinario realismo (Nassar 1967) e il suo spiccato spirito pratico sono riconducibili non soltanto al suo genio, ma anche ai travagliati periodi che la comunità islamica aveva attraversato negli ultimi secoli, oltre che dei presupposti tipici del pensiero musulmano (Gibb 1962). Consapevole dei condizionamenti esercitati dai molteplici fattori che agiscono sulla scena politica e curioso indagatore delle leggi che ne regolano il funzionamento, Ibn Khaldūn rifiutò ogni astratta teorizzazione a proposito del molto dibattuto tema della “legittimità del potere”, dopo la fine del Califfato, determinata dalle invasioni mongole e dai nuovi assetti politici che vedevano ormai l’elemento turco imporsi prepotentemente.

Le sue considerazioni a proposito della gestione del potere sono d’altra parte abbastanza eloquenti, come quelle a proposito del comportamento del visir o ministro nei confronti del sovrano di diritto. Traduco dall’originale arabo che per problemi tecnici è qui impossibile riprodurre:

Costui dà l’impressione di essere solamente un tutore, ma in effetti esercita il potere di fatto e utilizza le circostanze per affermare la propria autorità. Mantiene infatti il giovane principe separato dal popolo, lo abitua al lusso e ai piaceri portandolo a disinteressarsi di tutto e così lo domina completamente. Lo induce a credere che la funzione di un monarca si riduca a stare sul trono, stringere mani, farsi chiamare “maestà” e starsene con le donne del proprio harem. Il principe si convince che sta al suo visir di esercitare il potere reale come ispezionare l’esercito, le finanze e occuparsi della difesa. Per tutto questo fa riferimento a lui che finisce con l’assumere le prerogative di reggente effettivo” (Ibn Khaldūn s.d.)

A proposito della possibilità di cambiare questo stato di cose le sue considerazioni sono molto pratiche e basate sull’esperienza più che su principi teorici:

Può darsi che un principe messo sotto tutela e privato dell’autorità si renda conto della sua situazione e cerchi di sottrarvisi. In tal caso egli può restituire alla propria famiglia il potere regale, destituendo o mettendo a morte il suo tutore. Ma il caso è estremamente raro. Quando una dinastia finisce nelle mani di visir e clienti vi rimane. Raramente è in grado di sfuggirvi poiché è abituata ai lussi e i giovani principi sono stati allevati negli agi. Essi hanno scordato la propria virilità. Abituati a nutrici e ancelle ne hanno assimilato il carattere e non si augurano neppure di regnare (Ibn Khaldūn, s.d., 205).

Non sono tuttavia assenti rilievi che si riallacciano alla questione della legittimità di un simile potere di fatto, ma anche in questo caso sembrano motivate essenzialmente da ragioni di opportunità:

Colui che riesce a prevalere sul sovrano […] non può attribuirsi prerogative regali. Anche se è il più forte, non cerca di assumere esplicitamente la carica di re, ma deve accontentarsi di esercitarla nei fatti […] Dà l’impressione di agire per conto del sovrano e di eseguire ordini da dietro le quinte. Si astiene con cura dall’assumere attributi, titoli e insegne regali. Anche se il suo potere è assoluto, evita di essere sospettato di qualcosa di simile (ibidem).

Il pensiero politico di Ibn Khaldūn non si riduce a queste brevi citazioni, ma esse testimoniano adeguatamente il senso di un’evoluzione che già si annunciava in alcuni autori precedenti e anticipa di tendenze storiografiche moderne.

5.

Ho personalmente proposto a grandi editori di pubblicare finalmente una traduzione della Muqaddima in italiano, ormai recuperabile da molte tesi di laurea o di dottorato che ne hanno trattato almeno una parte, ovviamente dopo un lavoro di revisione indispensabile, ma non troppo oneroso. Ho anche segnalato che davvero molte biblioteche del nostro paese dovrebbero essere interessate ad avere una copia di questo classico della storiografia araba, ma mi è stato risposto che ormai le biblioteche sono prive di fondi. Mestamente non posso che concludere constatando che i fondi per procurarsi libri di valore assai minore pare che invece siano disponibili.

Testi citati e altre indicazioni bibliografiche

Balādhurī 1938: ibn al-Balādhurī, Ansàb al-Ashrāf (Genealogia degli uomini illustri), vol. 4/2, ed. M. Schloessinger, Jerusalem

Borrmans 1990-1991: Maurice Borrmans, Présentation de la première édition imprimée du Coran à Venise, in «Quaderni di studi arabi», 8 (1990), pp. 3-12; Observations à propos de la première édition imprimée du Coran à Venise, «Quaderni di studi arabi», 9 (1991), pp. 93-126

Branca 2000: Paolo Branca, Potere di diritto e di fatto. Un antico problema del pensiero politico islamico, in «Aevum», 2/2000, pp. 511-531

De Frede 1967: Carlo De Frede, La prima traduzione italiana del Corano sullo sfondo dei rapporti tra Cristianità e Islam nel Cinquecento, Napoli

Gabrieli 1971: Manlio Gabrieli, Vita di Giuseppe Acerbi, Mantova, Citem

Gibb 1962: Hamilton Alexander Rosskeen Gibb, The Islamic Background of Ibn Khaldun’s Political Theory, in Hamilton Alexander Rosskeen Gibb, Studies on the Civilization of Islam, Princeton, Princeton University Press, pp. 166-175

Gualtierotti 1979: Piero Gualtierotti, Il Console Giuseppe Acerbi ed il viaggio nell’alto Egitto, Castel Goffredo, Vitam

Hamīd 1946: Abd al-Hamīd, Risāl’a ilā al-Kuttāb in Rasa’il al-Bulaghā’ (Epistola per i segretari), ed. by Muhammad Kurd ‘Alī, Il Cairo, 19463

Jumahi 1913: Muhammad ibn Sallàm Jumahi, Tabaqàt al-Shu’arā’ (Classificazione dei poeti), ed. J. Hell, Leiden

Khaldūn s.d.: ibn Khaldūn, Muqaddima, Beirut, Dār al-Jìl

Khalid 1994: Tarif Khalidi, Arabic Historical Thought in the Classical Period, Cambridge, Cambridge University Press 1994

Mas’udi 1966-1979: ‘Ali ibn al-Husayn al-Mas’ūdi, Murūj al-dhahab wa maʿādin al-jawāhir (Praterie d’oro e miniere di pietre preziose), ed. C. Pellat, Beirut, 1966-79

Muqaffa‘ 1946: ibn al-Muqaffa‘, al-Adab al-kabīr (Il grande libro dell’Adab), in Rasa’il al-Bulaghā’, ed. by Muhammad Kurd ‘Alī, Il Cairo, 19463

Muqaffa‘ 1991: ibn al-Muqaffa‘, Il libro di Kalila e Dimna, a cura di Andrea Borruso e Mirella Cassarino, Salerno, Roma

Nassar 1967: Nassif Nassar, La pensée réaliste d’Ibn Khaldûn, Puf, Paris, 1967

Tomassino 2014: Pier Mattia Tomassino, L’Alcorano di Macometto. Storia di un libro del Cinquecento europeo, Bologna, il Mulino