ANGELA ALBANESE PUBBLICA LE RIFLESSIONI DI OLTRE QUARANTA AUTORI DEL NOVECENTO, CON UN’INTRODUZIONE DI FRANCO NASI
di «tradurre»
Nell’ormai consolidato paradigma dei Translation Studies in ambito internazionale e anche italiano e nelle antologie che ne stabiliscono le fondamenta è ben raro trovare qualsiasi riferimento a un autore italiano che abbia contribuito significativamente alla riflessione sulla traduzione e sul tradurre. Eppure ce ne sarebbero, anzi ce ne sono! Non ci si aspetta certo di trovare riferimenti al primo trattato sulla traduzione in lingua italiana scritto da Fausto da Longiano nel 1556. Ma sorprende che non siano mai neppure citati autori italiani di un altro momento particolarmente vivace del dibattito sul tradurre come fu quello preromantico e romantico: si pensi solo a Cesarotti, Foscolo, Berchet, Leopardi, Tommaseo, autori che hanno dato prova di saper intendere quali siano i problemi chiave della traduzione letteraria, coniugando in modo eccellente la pratica della traduzione e la riflessione su di essa.
Diversi argomenti topici dei Translation Studies, come la sostituzione di un approccio normativo con uno descrittivo, la considerazione culturale e non solo linguistica dell’atto del tradurre, l’importanza di studiare la tradizione della traduzione per cercare di comprendere meglio le fluttuanti definizioni di questa attività, l’impossibilità di pensare alla traduzione in termini di duplicazione, la centralità dell’atto traduttivo in ogni momento comunicativo sia esso intra o interlinguistico, o la sua valenza etica ed esistenziale, sono affrontati, spesso con grande acume, anche da autori italiani ben prima degli anni Settanta del Novecento.
Tutto quanto si è detto fin qui non è, come rivela quest’ultima citazione, farina del nostro sacco. Lo abbiamo preso tal quale dall’ampia introduzione che Franco Nasi, dopo averne anticipato il senso in un articolo uscito sul n. 50 di «Testo a fronte» pochi mesi fa, premette, sotto il titolo Per una sistematica della traduttologia in Italia: linee di una ricerca, alla importante antologia di scritti sulla traduzione di autori italiani del Novecento che uscirà prossimamente presso l’editore Longo di Ravenna a cura di Angela Albanese e dello stesso Nasi. L’antologia prende in prestito il suo titolo, L’artefice aggiunto, da uno degli autori antologizzati, il grande slavista Renato Poggioli, cui si affiancano oltre quaranta altre firme, che non ci peritiamo di elencare qui puntualmente nell’ordine, cronologico, in cui compariranno:
Remigio Sabbadini, Benedetto Croce, Luigi Pirandello, Ettore Romagnoli, Giovanni Gentile, Piero Gobetti, Mario Praz, Alfredo Polledro, Emilio Cecchi, Giuseppe A. Borgese, Ettore Fabietti, Nazareno Padellaro, Salvatore Quasimodo, Luciano Anceschi, Gianfranco Contini, Beniamino Dal Fabbro, Sergio Solmi, Franco Fortini, Vincenzo Errante, Luigi Pareyson, Diego Valeri, Roberto Fertonani, Benvenuto Terracini, Manara Valgimigli, Francesco Flora, Ervino Pocar, Galvano Della Volpe, Pier Paolo Pasolini, Luciano Bianciardi, Natalia Ginzburg, Gabriele Baldini,Italo Calvino, Mario Fubini, Raffaele Simone, Emilio Mattioli, Carlo Izzo, Giacomo Devoto, Gianfranco Folena, Elio Chinol, Fernanda Pivano.
Come si vede, c’è di tutto: filosofi, filologi, linguisti, poeti, critici militanti, traduttori-traduttori, traduttori-narratori…
L’editore e i curatori, che ringraziamo sentitamente, hanno voluto offrire ai lettori di «tradurre» un’anticipazione del contenuto dell’antologia, permettendo la pubblicazione della scheda introduttiva, di Angela Albanese, e del testo dello scritto di Borgese, tratto dalla postfazione al primo volume (La Certosa di Parma, nella traduzione di Ferdinando Martini, anno 1930) della collana mondadoriana «Biblioteca romantica», da lui ideata e diretta. Scelta felice, anche a prescindere dall’importanza del contenuto, perché, per la sua stessa natura, ribadisce lo stretto legame esistente fra il lavoro del traduttore e l’attività editoriale e i vincoli che ciò comporta e su cui non ci stanchiamo di richiamare l’attenzione.
Capolavori stranieri in veste italiana: Giuseppe Antonio Borgese e la «Biblioteca romantica»
di Angela Albanese
Figura di spicco nel panorama culturale, non solo italiano, della prima metà del Novecento, Giuseppe Antonio Borgese, nato a Polizzi Generosa (Palermo) nel 1882 e morto a Fiesole (Firenze) nel 1952, è stato critico letterario, autore di saggistica, narrativa, testi teatrali e poesia, traduttore, docente di letteratura tedesca, di estetica e storia della critica, fondatore delle riviste «Hermes» (1904) e «La nuova cultura» (1913, derivazione della rivista «La Cultura» diretta da Ruggiero Bonghi e Cesare De Lollis e da lui successivamente ridenominata «Il Conciliatore»), giornalista caporedattore della «Stampa», del «Mattino» di Napoli e collaboratore del «Corriere della Sera».
Al nome di Borgese è legata anche la fondazione e la direzione di una delle collane più prestigiose della casa editrice Mondadori durante gli anni trenta, la «Biblioteca Romantica», destinata ad accogliere le traduzioni di cinquanta capolavori rappresentativi della letteratura mondiale.
Il progetto della collezione era stato elaborato da Borgese già nel 1926, come si legge in una sua lettera ad Arnoldo Mondadori del 18 febbraio di quello stesso anno in cui ribadisce la necessità di «dare all’Italia un corpus di grandi autori stranieri dal Medio Evo ad oggi, ma con risoluta prevalenza dei più moderni: in traduzioni dirette, complete, esattamente controllate, con introduzioni e notizie e, dove occorrono, note» (Decleva 2007, 89-90). Ma per i primi, eleganti volumi della collana, inaugurata da La Certosa di Parma di Stendhal nella versione di Ferdinando Martini e completata nel 1942 con i due tomi di Guerra e pace di Tolstoj tradotti da Erme Cadei, si deve aspettare il maggio 1930, e del suo lancio sul mercato editoriale si fa carico direttamente Mondadori parlando, dalle pagine del «Corriere della sera», di «opere d’arte aggiunte a opere d’arte» e riassumendo nello slogan «I grandi scrittori romantici stranieri divengono scrittori classici italiani» la novità letteraria dell’iniziativa, ossia la realizzazione di traduzioni d’autore, tanto o ancora più preziose degli originali (Mondadori 1930). Oltre all’intento promozionale, è evidente anche la volontà dell’imprenditore Mondadori di difendere la collana da prevedibili veti del regime nei confronti di libri stranieri, e a questo stesso scopo sembrano mirare le rassicurazioni che qualche mese dopo egli invia per lettera a Mussolini, garantendogli che il suo personale obiettivo rimane quello di «conquistare alla letteratura italiana i capolavori delle letterature straniere» (Diafani 2007, XV). Eppure il Mondadori pienamente allineato alla politica del regime non esita ad affidare la direzione della sua collana più prestigiosa a Borgese, intellettuale antifascista, che potrà seguirne le pubblicazioni fino al 1931 per poi trasferirsi negli Stati uniti, dapprima deliberatamente e per un breve periodo di docenza, e poi forzatamente sino alla fine della guerra, per il rifiuto opposto all’ingiunzione di prestare il giuramento fascista. Il nome di Borgese resterà sul frontespizio della collana fino al numero 46 pubblicato nel 1938.
Ma ciò che soprattutto resta di Borgese è la sua importante postfazione al primo volume, vero e proprio documento programmatico dell’intera collezione. In quelle pagine, di cui si presentano, con qualche salto, le prime dieci pagine, oltre a darsi spiegazione dell’etichetta «romantica», usata dal critico come sinonimo di «narrativa» per esprimere la predilezione della collana per il romanzo, «genere più felice» ed «eccellente» «delle letterature cristiane e moderne», si trovano importanti riflessioni sulla traduzione e, soprattutto, una profonda coscienza del problema del tradurre, che culmina nella definizione di un dettagliato elenco di criteri traduttivi capaci di garantire omogeneità al lavoro dei cinquanta scrittori-traduttori scelti per la collana.
Bibliografia
Borgese 1930: Giuseppe Antonio Borgese, Postfazione a La certosa di Parma, Milano, Mondadori, pp. 671–692
Calvino 1981: Italo Calvino, La Romantica, in «Nuova Antologia», n. 2138, pp. 195-202 (poi in Editoria e cultura a Milano tra le due guerre (1920-1940), Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 1983, pp. 172-178)
Decleva 1993: Enrico Decleva, Arnoldo Mondadori, Utet, Torino
Diafani 2007: Laura Diafani, Introduzione, in Arnoldo e Alberto Mondadori – Aldo Palazzeschi, Carteggio. 1938-1974, a cura di Laura Diafani, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, pp. IX-XXIII
Mondadori 1930: Arnoldo Mondadori, «Biblioteca Romantica» diretta da G.A. Borgese, in «Il Corriere della sera», 1 giugno 1930
Vitiello 1990: Pippo Vitiello, Lettura del traduttore, lettura della traduzione. La Certosa di Parma e il progetto della «Biblioteca Romantica Mondadori», in «Esperienze letterarie», XV, 3, pp. 43-78
Costruire, per accordi di idiomi, la lingua universale dei capolavori
di Giuseppe Antonio Borgese
Con la Chartreuse de Parme, il più italiano fra i romanzi di Henri Beyle-Stendhal, portato in lingua nostra da Ferdinando Martini, che molti celebrarono come il «miglior fabbro del parlar materno», s’inizia questa Biblioteca Romantica ch’io dirigo presso Mondadori col proposito di farne una raccolta di capolavori romantici e stranieri in veste italiana e classica.
Cominciamo con l’annunciarne, e pubblicarne, una serie di cinquanta volumi. Cinquanta capolavori in traduzioni esemplari! come chi dicesse capolavori foderati di capolavori. Se con questa parola s’intende un’opera in tutti i sensi definitiva, perfetta, incensurabile, allora, nonché il numero cinquanta, anche il numero due, o uno solo, sarebbe esagerato; perché il capolavoro assoluto è un mito estetico, e non è mai esistito. Se invece s’intende un’opera profondamente interessante e significativa, cinquanta, per le letterature moderne, sono ben poca cosa; una collezione di mille volumi si potrebbe facilmente concepire senza lasciar posto a opere mediocri.
Fra l’uno e l’altro estremo ci atteniamo alla nostra cifra; che è quella che ci si può ragionevolmente prefiggere per un tempo ragionevole, se la promessa editoriale non dev’essere vanteria clamorosa, ma l’enunciazione di un programma davvero preparato, l’elenco di precisi e formali impegni; com’è nel caso nostro. Se il favore del pubblico sarà quale speriamo, proseguiremo; lieti intanto d’aver dato questa prima serie, anche se le perfezioni ideali, a cose fatte, si dovranno piegare, come avviene in questo mondo, a termini più sobri: cinquanta cose belle tradotte bene.
Per opere romantiche intendiamo, storicamente, opere delle letterature cristiane e moderne; romantico, come dice il nome stesso, è ciò ch’è nato sull’eredità di Roma. In queste letterature il genere più felice, il genere eccellente, è l’epica in prosa: il romanzo. Esso ebbe di buon’ora sul genere lirico il vantaggio della maggiore traducibilità, della più agevole trasferibilità di lingua in lingua; sicché, per opera sua, si sentì meno rigida l’angustia dei limiti che la Babele delle lingue poneva a ogni genio nazionale, e chiunque, coi romanzi, come con la filosofia e la musica, poteva pur senza smarrirsi in Cosmopoli vivere universalmente. In questo senso trionfarono, per esempio, i russi: universali quant’altri mai, senza né rinunziare alla loro indole né aver bisogno che la loro lingua si diffondesse, come il francese o l’inglese, fra gli stranieri.
Sul genere drammatico il romanzo ebbe il vantaggio della maggiore durata in popolarità, della più fortunata resistenza al mutare delle mode e dei tempi. Non v’è opera di teatro così gloriosa e viva come l’Amleto; eppure anch’essa, per oscurità o intrinseche al testo o sopravvenute come una patina, e per ben note difficoltà d’attuazione scenica, è meno accostabile dal comune lettore che non sia, p.e., il Don Chisciotte.
Perciò, volendo cominciare dalle cose più necessarie, o almeno massimamente desiderate, cominciamo da una scelta di romanzi. Li abbiamo presi in parecchie nazioni, in Spagna e in Russia, in Francia e in America, in Inghilterra e in Germania e in Scandinavia; e in tre secoli interi, ponendo come termine iniziale l’inizio del secolo XVII, quando per la prima volta l’epica in prosa raggiunse vera maturità d’arte, e come termine finale la fine del secolo scorso, oltre il quale la fama è ancora spesso vacillante e nessun romantico può ancora pretendere a classica autorità. Il più antico dei nostri testi è il Don Chisciotte (1604-14), i più recenti la Tess dei d’Urbervilles di Thomas Hardy (1891) e Tre anni di Cecof (1895).
Sono quasi tutti racconti ampi e continui, romanzi veri e propri, anche se si varia dalle snelle proporzioni di Candide alla magnificenza di Guerra e Pace. Di regola abbiamo escluso le novelle; tanto che dello stesso Maupassant abbiamo preferito Une Vie. Ma alcune eccezioni si son dovute fare, specie per la letteratura tedesca, la quale sarebbe molto imperfettamente rappresentata se non si tenesse conto del tipo narrativo in cui essa ha fatto forse le sue prove migliori e che sta a mezza strada fra la novella lunga e il romanzo breve, di quelle sue soavissime storie d’un’ora come il Mozart di Mörike o il Vagabondo di Eichendorff. Perciò abbiamo inserito nella raccolta anche un volume di Hoffmann, e un volume di Heine. Infine, da una raccolta di narratori moderni non era possibile escludere i brevi, ma fondamentali, Racconti Straordinari del Poe.
Non intendiamo così minimamente affermare che i nostri cinquanta libri, i nostri cinquanta autori, siano in graduatoria i primi libri e i primi autori del mondo moderno; che tutto quello che non è incluso in questa serie della Biblioteca Romantica ne sia escluso per ragioni di merito, perché giudicato relativamente inferiore. Invece, abbiamo dovuto molte volte tener conto di circostanze esterne, di criteri d’opportunità. Per esempio: perché non sono inclusi fra gl’inglesi né Scott né Thackeray? perché di Defoe è data Lady Roxana e non Robinson Crusoe? perché di Dostoievski non figurano i Karamazof? Alcune volte parve difficile trovare chi sapesse ripetere il ritmo di uno stile antiquato; altre volte fummo esitanti davanti a differenze di gusto che hanno ormai fatto scialba per noi l’immaginazione di scrittori al loro tempo popolari e famosi; ed altre volte, a parità d’interesse, abbiamo preferito un’opera meno nota ad altra già divulgata in Italia; ed altre infine l’affinità elettiva fra il traduttore e l’opera, la speranza di una traduzione egregia, ci ha fatto adottare l’opera a cui andavano le simpatie del desiderato traduttore. Perché di Goethe abbiamo scelto la Missione teatrale di Guglielmo Meister, lasciando fuori il classico e monumentale Meister di cui la Missione teatrale non è che il primo getto giovanile? Perché il Meister monumentale non ha molte attrattive per molti lettori, è un libro da poeti e sapienti; e d’altronde non mancava in Italia la possibilità di leggerlo in una versione soddisfacente; mentre il libro di gioventù, ignoto a chi non s’occupa di questi studi, contiene in più limitata ampiezza, in più accessibile sviluppo, quasi tutta la fragranza che il comune lettore sa trovare nel poema degli anni maturi e senili. Perché, poi, di Flaubert la Tentazione di Sant’Antonio e non Madame Bovary? Perché non avemmo fortuna con quelli che invitammo a provarsi con Madame Bovary. Perché questo libro parve inespugnabile allo stesso Ferdinando Martini, quando gli proposero di tradurlo.
Dunque la nostra raccolta non è l’adunata dei Cinquanta Immortali; ci sono altri immortali oltre i nostri cinquanta; e le nostre cinquanta opere non sono tutte le opere supreme della letteratura universale. Ma sono, nella nostra Biblioteca, cinquanta grandi scrittori, cinquanta cose belle.
Tradotte bene?
Cinquanta autori. Cinquanta opere. Cinquanta traduttori.
Chi sono essi?
Prima di tutto nominiamo i due antichi e gloriosi morti che abbiamo voluto, per auspicio, nella compagnia: Ugo Foscolo e Giovanni Berchet, il maggior poeta italiano di spiriti classici al principio dell’Ottocento e l’araldo del romanticismo lombardo.
Raccogliamo e ripubblichiamo in un solo volume la celebre e splendida traduzione foscoliana del Viaggio sentimentale di Yorick, anche se il libriccino di Lorenzo Sterne non è propriamente un romanzo, e la traduzione che Giovanni Berchet fece del Visionario di Schiller: di gran lunga meno famosa, anzi quasi ignota, e meno meritevole di gloria, ma ben degna per parecchi motivi di uscire dalla penombra.
L’incentivo occasionale alla polemica romantica venne in Italia dallo scritto di Madame de Staël sull’utilità delle traduzioni. Esse parevano invece, peggio che inutili, nocive ad alcuni zelatori della purezza e della tradizione.
È interessante che la più bella traduzione che si sia mai fatta in Italia da lingua moderna sia opera non già di un qualunque romantico Grisostomo, ma del più fiero e combattivo classicista, di Ugo Foscolo. Noi la includiamo nella nostra raccolta, come insegna e modello.
D’altra parte il Berchet, propagandista delle letterature straniere e specialmente della tedesca in Italia, fu il Tirteo della rivolta nazionale italiana, e questa fu specialmente antitedesca.
I loro due ritratti stanno, simmetrici, sulla stessa parete nel Museo del Risorgimento a Milano. Così noi, si licet parva, li collochiamo l’uno accanto all’altro in questa nostra galleria.
Oggi sarebbe da menti anguste e sprovvedute discutere ancora dell’utilità o meno del tradurre: è questione ormai di mero interesse archeologico.
Scrisse il Panzini, nostro collaboratore (Corriere della Sera, 7 marzo ’28): «Ugo Foscolo con la sua perfetta versione fece quasi opera italiana del Viaggio sentimentale».
E spiegava in quel medesimo punto che cosa sia secondo lui l’eccellente tradurre: «La parola di un linguaggio ha una sua anima intraducibile: bisogna sostituirla con altra equivalente parola, perciò il traduttore deve essere un dotto e insieme un artista, e non basta: conviene disponga di moltissima pazienza, come, ad esempio, usò Ugo Foscolo…».
Un po’ prima, Ettore Romagnoli, oggi il nostro maggior traduttore di classici, aveva scritto (Secolo, 4 agosto ’26): «Mancano tuttora raccolte sistematiche di buone versioni da scrittori stranieri. Ottima quella iniziata dal Manacorda; ma come sussidio alla lettura dei testi. Le raccolte che dico io dovrebbero sostituire i testi per chi non ne conosce la lingua; e dovrebbero perciò essere condotte con criteri prevalentemente artistici».
Si può dire che in questo criterio siamo tutti d’accordo: che far traduzioni e pubblicarne non è soltanto un diritto, è un dovere di civiltà e cultura, ma che sarebbe bene diminuirne la strabocchevole quantità per migliorarne qualità e modi.
Gli scambi sono indispensabili alla vita spirituale: quanto più energici e attivi, tanto più giovano. C’è bisogno di ripetere cosiffatti truismi? di ricordare ancora una volta che la letteratura latina non sarebbe mai sorta quale sorse senza le letture greche, le traduzioni dal greco, e che la letteratura italiana non nacque soltanto da sé e dal retaggio classico ma dalla popolarità delle poesie d’oc c d’oil? Queste nutrizioni poi mutano di specie, rimanendo però necessarie in tutti gli sviluppi delle singole letterature nazionali.
Forse, dopo il Foscolo, il più conservatore dei nostri poeti fu il Leopardi. Pure nulla gli piacque più che l’opera prima della sovversione romantica, il Werther; e da nessuna dedusse tanta materia e sentimento quanto da essa.
Ma i rapporti fra la letteratura italiana e le moderne straniere furono spesso difettosi e malsani. O se ne conobbe troppo poco, o s’imitò e si tradusse a vanvera. Ci furono decenni d’inedia, e decenni di baldoria; durante i quali si giunse più facilmente all’indigestione, alla sazietà, che a un’assimilazione superatrice.
Oggi è forse un momento di eccesso. Questa nostra raccolta vuole contribuire a un orientamento più consapevole, a una più severa scelta.
Il nostro proposito è di arricchire la letteratura italiana con doni che siano doni di autentica ricchezza.
Dopo Foscolo e Berchet, i due antichi e gloriosi morti, ricordiamo fra i nostri collaboratori i due morti illustri e recenti, Ferdinando Martini e Guido Biagi.
Le loro traduzioni sono diversamente pregevoli e saranno diversamente pregiate; ma sono anch’esse – in modo analogo a quelle del Foscolo e del Berchet – esemplari: sia perché tutti e due toscani e letterariamente ortodossi e devoti al buon passato italiano e classico (il Biagi fu anche bibliotecario della venerabile Laurenziana) misero tanto amore a voltare in lingua nostra spregiudicatissime cose romantiche; sia perché tutti e due si studiarono di raggiungere, e variamente raggiunsero nelle loro traduzioni, la naturalezza del buono e limpido parlar comune.
Gli altri quarantasei traduttori sono – e lungamente rimangano – viventi. Li abbiamo scelti meglio che abbiamo potuto; cercando per ogni opera chi a parer nostro la potesse rendere più vivamente; e spesse volte, per questo o quello scrittore italiano particolarmente ammirabile o stimabile, cercando l’opera straniera ch’egli potesse più affettuosamente sentire e più volentieri rivivere. Abbiamo messo insieme una lista di nomi alti ed egregi, onoratissimi nelle nostre lettere d’oggi; ma non col proposito di una vana mostra, sibbene con la speranza e la certezza che essi facessero opera degna del nome. E naturalmente non ci siamo ristretti a questa categoria; che sarebbe stato accademismo pedante; e ci avrebbe impedito di offrire ai lettori parecchi grandi libri di cui abbiamo affidato la traduzione a scrittori giovani e non celebri ancora, ma perfettamente capaci di condurla con buon metodo e chiaro gusto.
S’intende che i buoni ed eccellenti traduttori sono in Italia più che quarantasei, e che altri avremmo potuto invitare. Ma non potemmo trasgredire il limite di cinquanta volumi; e speriamo che sia provvisorio.
In complesso, sarà lecito dire che un insieme di forze letterarie come quelle che abbiamo avuto la fortuna di adunare intorno a questa impresa, non s’è visto di frequente né da noi né altrove.
Stabilito dacché mondo è mondo che la perfezione non è di questo mondo, possiamo dire – senza pretendere alla perfezione in tutti e cinquanta i volumi e neanche in uno solo di essi – in che cosa dovrebbe consistere, secondo noi e secondo tutti, una perfetta traduzione.
Essa dovrebbe essere fedele e bella; dovrebbe seguire, pensiero per pensiero, frase per frase, il testo originale, eppure dovrebbe, per virtù della sua naturalezza, sembrar spontanea e nuova, originale essa stessa.
Nessuno, tranne il traduttore, dev’essere costretto ad accorgersi ch’egli segue qualcuno. Egli illumina il suo modello con una lanterna cieca.
Non prediligiamo le traduzioni che si chiamavano barbare: quelle che fanno desiderare il testo. Una buona traduzione dovrebbe far dimenticare il testo.
Tutto ciò non è molto facile. Riesce o non riesce, secondo la fortuna del genio e l’esercizio della disciplina. Ma è molto più facile uniformarsi ai seguenti dettami obiettivi, dei quali abbiamo chiesto l’osservanza ai collaboratori.
Si deve tradurre direttamente dal testo, adottando la migliore edizione.
Si deve tradurre integralmente, senza tagli ed arbitrii.
Perché la traduzione sia durevole, occorre ch’essa sia scritta in piana lingua italiana corrente, senza sfoggi arcaici o vernacolari, tranne i casi in cui particolari accentuazioni servano a imitare certi caratteri del testo.
Per i nostri collaboratori sarebbe stata superflua questa altra norma (che i lettori comuni non possono comprendere; ma gli editori e i letterati sì):
la traduzione dev’essere sinceramente sotto la responsabilità di chi la firma, non affidata a un giovane amico o a una persona di famiglia e poi convalidata con l’autorità di un chiaro nome.
Invece li abbiamo pregati espressamente di non intromettersi fra l’opera tradotta e i suoi lettori, di non invadere il campo col loro ingegno critico, di non vincolare la fortuna del libro a quella della loro interpretazione. Certo, ci è rincresciuto di rinunziare ad alcuni bellissimi saggi che avremmo potuto avere; ma ci è parso necessario seguire un criterio costante.
Perciò, di regola, non abbiamo voluto note; essendo raro ch’esse risultino realmente indispensabili all’intelligenza di un romanzo moderno.
E abbiamo escluso le presentazioni, limitandoci a una nota informativa, non più lunga di cinque pagine, che abbiamo relegata in fondo al volume; il quale appare, cosi, mondo e leggero.
Questa ch’io sto scrivendo eccede la misura prescritta. Ma poiché contiene anche il programma della raccolta, non può passare per un’eccezione. […]
Il cominciare con la Certosa di Parma ci offre la più desiderabile occasione per chiarire quest’altro criterio che ci ha guidati: l’ammissione di libri tradotti dal francese.
Ma come sarebbe possibile dare un’idea del romanzo moderno, pubblicare una raccolta di romanzi con una qualunque pretesa di ritmo, di organicità, di proporzioni rappresentative, escludendo la letteratura di cui fecero parte Balzac e Flaubert?
Dopo di che, tutto quello che può dirsi a rincalzo non è che secondario, poco più che pleonastico.
Si sostiene ch’è inutile tradurre libri dal francese perché tutti gli italiani sanno il francese.
Ma non è punto vero che tutti gli italiani sappiano il francese.
Molti poi, che più o meno esattamente lo capiscono a senso, ne storpiano la pronunzia a tal punto da perdere, leggendo un libro che abbia valore d’arte, gran parte del suo segreto valore; e s’immaginano di leggere la prosa di Chateaubriand come lo strimpellatore s’immagina di eseguire Chopin. Il buon traduttore li affranca da questo equivoco.
A ciò si deve aggiungere che noi volevamo intorno a noi non solo alcuni fra i migliori scrittori d’Italia, ma anche quanti più si potesse fra i migliori e maggiori, fra i letterati d’alta fama. Volevamo da essi, nella nostra raccolta, il decoro dei nomi e la bellezza delle opere. Ma i letterati italiani d’alta fama seppero tradizionalmente il latino, a cui ebbero e hanno il costume d’aggiungere, o qualche volta di sostituire, il francese; mentre di altre lingue moderne furono e sono, di solito, mediocremente esperti. Volendoli collaboratori dovemmo in molti casi proporre o accettare un romanzo di lingua francese; e questa circostanza, o convenienza casuale, rafforzò le ragioni intrinseche per cui fin da principio avevamo creduto necessaria un’adeguata rappresentanza della letteratura francese.
Infine – ma questo che stiamo per dire non è affatto pleonastico quanto all’idea che ci facciamo del tradurre in genere e della traduzione di F. Martini in specie – esiste dentro di noi una virtualità universale del linguaggio, una musicalità senza suoni, una verbalità senza parole, l’impeto dell’intuizione, il ritmo dell’emozione, l’ineffabile che vuole incarnarsi. Esso s’incarna poi nel suono d’uno strumento, nella frase di una lingua; diventa musica o poesia. Ma ogni espressione singola di quell’universale ch’era in fondo a noi, ogni «picciol verso» che ricorda con rimpianto la «nota del poema eterno» da cui sa d’essere sorto, tende a propagarsi, a attuarsi in tutti i suoi modi, a estendersi di nuovo verso l’assolutezza universale che lo generò. Questo è, in parte, il significato del coro, del contrappunto, dell’orchestra; la «frase pura», inafferrabile in sé, cerca di raggiungersi sperimentandosi in quante più voci, in quante più tonalità, in quanti più timbri può; donde quasi il bisogno, quanto più cresce la spiritualità del mondo, di orchestre perfin materialmente sempre più estese. E tale è pure il significato ideale del tradurre.
Non paragoneremo, con secentesca violenza di metafore, la lingua italiana al violino, la francese al flauto, la russa al violoncello, o, che so io, l’inglese al pianoforte. Ma tradurre è questo: trascrivere un poema dalla chiave di un linguaggio nella chiave di un altro, sicché si costruisce via via, per accordi di idiomi, la lingua universale in cui un capolavoro esiste nella pienezza delle sue espressioni, nella sfera delle sue possibilità; come una statua contemplata da tutte le prospettive.
Insomma, l’artista che traduce in una lingua diversa dall’originale la Certosa di Parma non si limita a cercare equivalenze approssimative di un significato morto, non «impaglia i raggi di sole». Il suo lavoro non è il materiale trasporto di un’opera da un vocabolario in un altro; tradurre, volgere, sono parole che alludono a un’operazione più spirituale e profonda. Egli non s’indirizza soltanto a quelli che per mera ignoranza linguistica non possono leggere la Chartreuse de Parme; ma anzi! a quelli che l’hanno letta e delicatamente gustata; ma anzi! a Stendhal stesso.
La Certosa di Parma, se essa è quale dev’essere, non ripete inferiormente la Chartreuse; la esplora, l’accresce, la sveglia, la pone in metamorfosi, attua uno dei modi in cui avrebbe potuto essere ed è.
Stendhal stesso idealmente la legge, e vi scopre sostanze che nel suo testo erano represse ed occulte. […]