di Francesco Fava
A proposito di: Poeti traducono poeti, a cura di Pietro Taravacci, Università degli studi di Trento, Dipartimento di Lettere e Filosofia, 2015, pp. 184, € 12.00
Ormai una dozzina di anni fa, la pubblicazione quasi simultanea di due imponenti volumi collettanei fissava le coordinate della riflessione critica italiana sulla traduzione di poesia, tracciando al contempo il solco di due ben marcate linee di indagine. La traduzione del testo poetico, raccolta di saggi curata da Franco Buffoni, si concentrava infatti innanzitutto sullo specifico dell’atto traduttivo di opere in versi, esaminato dall’interno e nelle sue implicazioni teoriche (Buffoni 2004, che amplia e completa il precedente Buffoni 1989); Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, coordinato da Anna Dolfi, dedicava invece al tema un’attenzione preminentemente comparatistica, inquadrando attraverso la traduzione poetica dinamiche culturali, scambi, influenze e linee di trasmissione dello spazio letterario europeo (Dolfi 2004). Questi due filoni di indagine sono entrambi rappresentati, e si coniugano armoniosamente, nel volume recentemente pubblicato a cura dell’ispanista Pietro Taravacci, a partire dal più circoscritto focus delle traduzioni “d’autore”. Il libro permette in effetti di penetrare nella “stanza”, o se si preferisce nell’officina, di alcuni illustri poeti-traduttori, ma al tempo stesso di uscirne per osservare i diversi fattori storico-culturali che a vario titolo entrano in gioco quando un poeta decide di tradurre un altro poeta.
Oltre a caratterizzarsi per questa meritoria duplicità di prospettiva, Poeti traducono poeti abbraccia anche un’interessante varietà di ambiti linguistici e geografici, spaziando dalla traduzione del palestinese Mahmud Darwish da parte di due diversi poeti anglofoni (nel saggio di Lisa Marchi), alla poesia russa trapiantata nella lingua e nella poetica di Tommaso Landolfi, Giovanni Giudici, Michele Colucci (nel contributo di Danilo Cavaion), fino alle riflessioni all’ombra dell’altra lingua di Antonio Prete, che aprono in realtà il volume e si muovono con agile eleganza – ed estrema densità – fra traduzioni proprie e altrui, tra Char e Caproni, tra Valéry e Leopardi. Il cuore del volume è tuttavia ispanistico, dato che quattro dei nove saggi che lo compongono sono dedicati ai transiti poetici, in entrambe le direzioni, tra la nostra penisola e quella iberica. Si rende in essi merito alla rilevanza storica delle più note, e in parte già studiate, figure di poeti/traduttori/critici dell’ispanismo italiano (Bodini, Tentori e Macrì, evocati da Valerio Nardoni), ma si ragiona anche su casi meno esplorati, esaminando alcune fortunate versioni in lingua spagnola di Eugenio Montale (nel contributo di Taravacci) e Mario Luzi (in quello di Jesús Díaz Armas) o alcune, tra loro complementari, traduzioni d’autore della Commedia (commentate da José María Micó, che arricchisce il saggio con le sue pregevoli proposte traduttive di selezionati passi danteschi).
Nonostante l’ampio spettro dei contributi, e la loro parziale eterogeneità, il libro nel suo insieme palesa una riconoscibile coerenza d’intento, di cui in certa misura il già menzionato saggio di Antonio Prete detta implicitamente la linea. L’incontro tra voci poetiche nella pratica della traduzione, infatti, è sintetizzato da Prete mediante figure a lui storicamente care (cfr. Prete 2011), che trasmettono bene lo spirito che anima l’intero libro: la traduzione come ospitalità, come corrispondenza, come camera oscura. Metafore riuscite (a quanto pare, nessun campo dell’umano sapere si presta meglio della traduzione a una sconfinata varietà di efficaci metaforizzazioni…), che rafforzano quanto già il curatore, nell’introduzione, aveva precisato esplicitando il taglio critico privilegiato dal volume: collocare la traduzione tra poeti nella dinamica di un «poiein in cui creare e tradurre appaiono come due aspetti fortemente legati e appartenenti a una vasta “comunità di traduttori” e a una medesima attività di scrittura poetica» (p. 8). Un inquadramento critico che la traduttologia italiana, da Anceschi a Mattioli a Buffoni, può ormai considerare come solida acquisizione.
Lo stesso Franco Buffoni contribuisce al volume con un bel saggio sul suo Seamus Heaney, in parte riprendendo considerazioni già sviluppate altrove (Buffoni 2007). Buffoni si sofferma, tra le altre cose, su uno degli aspetti meglio approfonditi in Poeti traducono poeti: l’incontro con il poeta-tradotto quale stimolo decisivo per la ricerca stilistica del poeta-traduttore, spesso in contrasto con le tendenze prevalenti del contesto letterario nazionale di quest’ultimo. La scoperta dell’opera di Heaney viene infatti ricordata in questi termini: «Heaney fu per me una boccata di ossigeno: si poteva parlare in poesia di uomini e di donne, di storia, anche di politica – e d’amore, riuscendo a tutti leggibili senza scadere nel sentimentalismo, nella retorica o nelle rime facili» (p. 44). Una rivelazione dagli accenti simili a quella sperimentata qualche decennio prima da Fernanda Pivano, quando il contatto con la letteratura statunitense le faceva scoprire l’esistenza di libri in cui la casa veniva chiamata «casa», e non «dimora». O assimilabile, anche, al valore che assunse per Ungaretti il confronto con Góngora, come segnala Valerio Nardoni: «attraverso la lettura di Góngora, Ungaretti metteva in atto l’impulso che spingeva la poesia europea più avanzata della sua epoca alla riscoperta dei grandi ingegni barocchi, saggiando nel frattempo le proprie corde poetiche profonde» (p. 150). Che le storie di traduzioni e traduttori – a maggior ragione, ma non esclusivamente, quando questi ultimi sono così illustri – costituiscano un tassello importante per la ricostruzione della storia letteraria nazionale, è un’altra delle acquisizioni critiche sulla traduzione che Poeti traducono poeti ha il pregio di avvalorare tramite i vividi accenti di alcuni casi esemplari.
Tra i temi che si richiamano a distanza e si consolidano a vicenda da un contributo all’altro del volume, andrà indicata anche l’idea dell’attività traduttiva come atto ermeneutico. La declina con particolare nettezza José María Micó, che in forma di aforisma apre il suo saggio sentenziando che la traducción es la filología máxima (p. 129: la traduzione è la massima forma di filologia). A distanza di alcune pagine, citata da Jesús Díaz Armas, gli fa eco la voce di Mario Luzi, con la sua definizione del tradurre come «atto critico per eccellenza» (p. 167). Un ultimo rilancio di Micó, di nuovo aforistico, trasporta i termini della relazione tra critica, letteratura e traduzione su un piano ulteriore, con echi borgesiani e calviniani: un clásico es igual a la suma de sus traducciones (p. 129: un classico equivale alla somma delle sue traduzioni).
Se questi sono alcuni degli spunti generali più rilevanti del volume, credo valga la pena segnalare anche come i vari contributi che compongono Poeti traducono poeti si concentrino di volta in volta su momenti distinti dell’atto traduttivo, andando quasi a scandire in sequenza i successivi passaggi che si determinano quando due poeti si incontrano tra le pagine di una traduzione.
Il prima è rievocato, per esempio, nell’intensa testimonianza di Nico Naldini, che ricordando la propria scoperta della poesia e della traduzione grazie all’incontro con Pasolini e la Academiuta di lenga furlana, pone l’accento sul movente intimo e sulle risonanze memoriali, biografiche, persino paesaggistiche, che sono dentro alla genesi di una traduzione poetica. Anche Franco Buffoni fa nel suo intervento qualche accenno all’interrelazione tra vissuto e traduzione, alle implicazioni personali che muovono verso un autore o un testo in particolare. Il suo saggio tuttavia si concentra, più che sul prima, sul durante: il work in progress del laboratorio del traduttore. Un processo che, in questo caso, consente al lettore di scoprire le successive redazioni tanto del testo originale (le sei diverse stesure di uno tra i più riusciti componimenti di Seamus Heaney, North) quanto della sua traduzione (di cui lo stesso Buffoni si trovò a realizzare a distanza di qualche anno due autonome versioni). Un duplice e parallelo “movimento del linguaggio” che, come in una continiana critica delle varianti sdoppiata in forma di dialogo, risulta illuminante per cogliere più a fondo il testo e la sua poetica (poetica dell’autore tradotto, certo, ma anche del poeta-traduttore).
Ultimo angolo visuale proposto da Poeti traducono poeti è quello del dopo, vale a dire lo sguardo a posteriori del critico, per il quale i quaderni di traduzione di un poeta divengono strumenti quanto mai preziosi per rintracciare processi di osmosi lessicale, per tracciare periodizzazioni, per individuare svolte espressive. Dà ottimo esempio di questa prospettiva il saggio di Pietro Taravacci su José Ángel Valente traduttore di Montale. Traduzioni che ci dicono molto del poeta spagnolo appartenente alla cosiddetta Generación del 50: della sua tensione verso una poesía de conocimiento e della sua «avversione a un linguaggio nutrito di retorica e sentimentalismo» (p. 69), che trovano in Montale (nel Montale di Diario del ’71 e del ’72, in particolare) un modello stilistico. Le scelte traduttive delle liriche, che Taravacci analizza puntualmente, rendono evidente testimonianza di questa ricerca della propria voce attraverso lo scavo in quella altrui.
La traduzione in versi, d’autore, si riconferma dunque come osservatorio privilegiato per la comprensione della poetica del traduttore. Ma non solo. Attraverso l’incontro con José Ángel Valente, è anche Montale ad apparirci almeno in parte sotto una nuova luce, quella luce che il dialogo con l’autore spagnolo pone maggiormente in evidenza. Quasi a chiudere il cerchio, il poeta-traduttore si rivela oltretutto anche poeta-critico. Nel breve saggio che Valente dedicò alla poesia di Montale, essa viene acutamente definita come una violenta contemplación, nella quale el objeto poético […] es la realidad puesta en sitio, cercada para ser poseída, para revelar su evidencia (p. 67). Tra il Valente poeta e il Valente critico, punto di sintesi è il tradurre: la «contemplazione» della poetica di Montale si fa “attiva”, e si concretizza a pieno, proprio nei versi della traduzione.
Il cerchio si chiude allora per davvero – e le prospettive del prima, del durante e del dopo confluiscono in un ininterrotto corpo a corpo con la poesia – se rileggiamo le parole di José Ángel Valente e, traducendole, le attribuiamo non più alla scrittura di Eugenio Montale, ma alla stessa attività traduttiva: «la realtà [poetica] posta sotto assedio, accerchiata per essere posseduta, perché riveli la propria evidenza». Poeti traducono poeti è una utile e buona compagnia, nelle lunghe ore dell’assedio.
Riferimenti bibliografici
Buffoni 1989: La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Milano, Guerini, 1989
– 2004: La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2004
– 2007: Franco Buffoni, Ritraducendo Seamus Heaney, in Id., Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e l’essere tradotti, Novara, Interlinea, 2007, pp. 147-163.
Contini 1970: Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970
Dolfi 2004: Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2004.
Montale 1973: Eugenio Montale, Diario del ’71 e del ’72, Milano, Mondadori, 1973
Prete 2011: Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.
Valente 2002: José Ángel Valente, Versión y glosa de Eugenio Montale, in Id., Cuaderno de versiones, ed. C. Rodríguez Fer, Barcelona, Galaxia Gutenberg/Círculo de Lectores, 2002, pp. 105-108