di Simone Barillari
… what cause/ mov’d our Grand Parents, in that happy State,/
[…] to fall off/ from their Creator, and transgress his Will,/ for one restraint?
John Milton, Paradise Lost (I, 28-32)
Che cos’è rimasto dell’Uomo dopo la morte di Dio, si chiede Conrad alle soglie del Novecento, e al centro esatto del suo capolavoro incastona una ferrea riflessione sul concetto di restraint – il ritegno, la capacità di trattenersi – come se fosse la chiave per aprire l’intero libro.
Sul battello diretto verso Kurtz e la sua Stazione Interna, il capitano Marlow è insieme al Direttore della Compagnia, a «tre o quattro» agenti e a «venti cannibali» imbarcati per i lavori di fatica. Si rende conto, parlando con il loro capo, che non mangiano quasi niente da oltre un mese: la carne di ippopotamo che avevano con sé è andata a male; e si chiede all’improvviso perché quei cannibali, più numerosi e più robusti dei bianchi, non abbiano assalito e mangiato lui e gli altri per placare il digrignante «demone della fame», per porre fine alle sue «esasperanti torture» (la traduzione di brani ed espressioni da Cuore di tenebra è sempre mia).
And I saw that something restraining, one of those human secrets that baffle probability, had come into play there, «Capii allora che era entrato in gioco qualcosa che li aveva frenati, uno di quei segreti della natura umana che sfidano le leggi della probabilità» (Conrad 2010).
Cosa li ha trattenuti? Quale sconosciuta forza dell’animo umano ha potuto avere la meglio sul primo e più potente impulso del corpo, quello di mangiare per sopravvivere – di fare anche carne della carne altrui pur di sfamare la propria fame? Restraint! What possible restraint? Was it superstition, disgust, patience, fear – or some kind of primitive honour? «Qualcosa li frenava! Ma cosa poteva essere a frenare quegli uomini? La superstizione, il disgusto, la pazienza, la paura – o una sorta di primitivo senso dell’onore?» (Conrad 2010).
Non sono stati i princìpi morali e le credenze religiose, il «senso dell’onore» e la «superstizione», perché «quelli che voi chiamereste principi», dice Marlow, «sono meno che pula spazzata dal vento», e non sono stati nemmeno altri impulsi primordiali come la paura: «non c’è paura che tenga di fronte alla fame»; o il disgusto: «il disgusto semplicemente non esiste dove c’è la fame». Non è stato niente di quello che ha nominato e forse niente che abbia un nome, eppure qualcosa – qualcosa – ha trattenuto quei cannibali.
Restraint! I would just as soon have expected restraint from a hyena prowling amongst the corpses of a battle-field. «Qualcosa li frenava! Ma è come aspettarsi che qualcosa possa frenare una iena mentre si aggira tra i cadaveri su un campo di battaglia» (Conrad 2010).
Qualsiasi cosa li abbia trattenuti, quelli che ha davanti non sono animali, e Marlow li guarda per la prima volta «con una certa curiosità per i loro impulsi e le loro motivazioni, le loro capacità e le loro debolezze»: un uomo dell’Occidente guarda per la prima volta i cannibali dell’Africa «come si guardano degli uomini».
Non sa dire cosa sia il restraint se non chiamandolo vagamente «una forza innata», «la capacità di rimanere fedeli a qualcosa», ma il suo sguardo sbalordito davanti a un branco di animali che diventa un gruppo di uomini spiega che il restraint, la capacità di tenere a freno gli istinti animaleschi, è ciò che rende l’uomo un animale diverso dagli altri animali – un animale che non vuole esserlo.
Il restraint (dal latino re–stringere, stringere qualcosa tirando indietro) è una forza che tira in direzione contraria a un’altra forza – perché l’uomo è l’unico animale che ha addomesticato se stesso – una forza innata quanto la forza che contrasta: an inborn strength, an innate strength, ripete Conrad, una specie di istinto non di natura, eppure naturale nell’uomo quanto gli altri istinti, una sorta di istinto contronatura. È quella strenua e stremante resistenza di sé a se stessi che è quel che di più umano ha l’uomo, di più tragico, e di più fatale nel rapporto tra sé e il resto dei viventi, tra sé e tutto ciò che vive senza avere un sé; è la difficile dote non di dominare ma di domare i propri impulsi animaleschi, perché avere restraint vuol dire trattenere ma non reprimere, limitare ma non delimitare, come spiega il principale dizionario dell’epoca: that which we restrain we keep within limits; that which we restrict we keep within certain definite limits; that which we repress we try to put out of existence (Whitney e Smith 1902), e se l’essenza dell’uomo è nel limite, come dicevano gli antichi, quel limite non è mai definito, ricordano i moderni, ma dev’essere sempre ridefinito – da un uomo a un altro uomo e da un popolo a un altro popolo, di giorno in giorno e di secolo in secolo – perché l’uomo è l’animale che dev’essere continuamente ciò che non è, e che solo essendo ciò che non è può continuare a essere uomo.
I venti cannibali che resistono per giorni e giorni alla fame senza assalire i bianchi dimostrano che il restraint è all’origine della società umana: se gli uomini si mangiassero tra loro, l’uomo diventerebbe, in senso non più figurato, homini lupus e smetterebbe di essere lo ζῷον πολιτικόν, l’animale politico che descrive Aristotele. Ma è altrettanto significativo che i cannibali, che non attaccano quei bianchi, vogliano attaccare e «mangiare» gli indigeni nascosti nella foresta. È lecito pensare che i cannibali non mangiano quei bianchi perché sono – letteralmente – sulla stessa barca, e condividono con loro il lavoro e il viaggio: il restraint viene rafforzato da quella stessa società che genera – quasi che la resistenza alla fame aumentasse a mano a mano che risalgono il fiume – perché gli uomini «rimangono fedeli a qualcosa», a un accordo che diventa un’abitudine, a una destinazione che diventa un destino. Il restraint è davvero capacity for faithfulness, è credere a un’Idea, a una Rappresentazione (Vorstellung), contro la stessa Volontà di vivere (Will), è «la determinazione a dedicarsi anima e corpo non a se stessi, ma a un oscuro compito che ti spacca la schiena» – perché è solo rinunciando a sé che l’Uomo è diventato uomo; ed è solo rinunciando a sé, nella fatica e nel lavoro, che ogni uomo diventa se stesso.
A partire da questi pensieri sul restraint Marlow mette alla prova quell’idea negli uomini che incontra, e, sempre attraverso quell’idea, mette alla prova gli uomini – e i loro impulsi – come se lui, lo scettico dell’Illuminismo, volesse vedere in atto la legge morale che l’uomo ha dentro di sé quando, sopra di sé, non ha il cielo stellato, ma la foresta più nera.
Il primo di quegli uomini è il Direttore, che è mosso dall’impulso di morte: il Direttore non uccide, lascia morire, come una iena con un senso del pudore. Ha ritardato più volte la partenza del battello che doveva soccorrere Kurtz, ma a bordo si finge preoccupato di non arrivare in tempo. He was just the kind of man who would wish to preserve appearances. That was his restraint. «Era esattamente il tipo d’uomo che vuole innanzitutto salvare le apparenze. Era questo che lo frenava» (Conrad 2010).
La salvaguardia delle apparenze spiega che l’unica cosa imperdonabile di un omicidio sono le mani sporche di sangue; e quelle del Direttore sono senza macchia – sono bianche come il suo omicidio. Il Direttore ha restraint, a suo modo.
La sua morale borghese giudica un uomo non per quello che fa – «si può fare tutto, in questo paese!» – ma per come lo fa, per i suoi «metodi», che devono essere «adeguati». Lo giudica solo per quello che commette e non per quello che omette. Al contrario la morale aristocratica – che Kurtz, «dotato di principi morali», ha dentro di sé ma non riesce a praticare, tanto che l’antico motto romano «vivere rettamente, morire nobilmente» si spegne sulle sue labbra – giudica ogni uomo per quello che è rispetto a quello che dovrebbe essere – e non fare quello che si deve è grave quanto fare quello che non si deve.
Anche Kurtz è mosso dall’impulso di morte, ma non fa nulla per controllarlo o anche solo dissimularlo, e anzi lo ostenta: ha piantato intorno alla sua capanna una fila di pali con sopra i teschi dei nemici uccisi. They only showed that Mr Kurtz lacked restraint in the gratification of his various lusts. «Dimostravano solo che Kurz non aveva freni quando si abbandonava alle sue pulsioni» (Conrad 2010).
Non c’è più niente «al di sopra o al di sotto» di lui a cui «fare appello» per fermarlo, non c’è più niente in lui a impedire che ciò che è sia anche ciò che appare, che ciò che vuole sia anche ciò che fa, com’è prerogativa di un dio dell’Olimpo, o di uno dei demoni dell’Africa tra cui «ha preso posto»; «non c’è niente al mondo che possa impedirgli di uccidere qualcuno, se ne ha voglia» – ma non c’è nemmeno niente che possa impedirgli di uccidere se stesso.
I saw the inconceivable mystery of a soul that knew no restraint, no faith and no fear, yet struggling blindly with itself. «Vidi l’inconcepibile mistero di un’anima che non aveva nessun freno, nessuna fede e nessuna paura, eppure lottava ciecamente con se stessa» (Conrad 2010).
In quell’uomo l’impulso di morte si manifesta tanto nella distruzione quanto nell’autodistruzione, e non è con sé meno spietato che con gli altri. Kurtz è l’uomo immorale – perché solo chi crede nei principi morali può essere immorale – e non ha nessun restraint, proprio come la sua Stazione Interna non ha «nessun recinto, nessuno steccato», anche se «un tempo doveva essercene uno». il Direttore è l’uomo amorale, l’uomo banale come il Male del Novecento, che non ha restraint se non in presenza di altri – una sorta di restraint imposto dall’esterno – e non ha principi se non quelli di chi ha intorno a sé in quel momento. Ma il suo restraint è precario come il «recinto di giunchi tutto storto» e cadente della Stazione Centrale che dirige, e non resisterebbe se fosse messo alla prova. Quando non deve «salvare le apparenze», il Direttore dichiara di voler impiccare il giovane russo per «dare l’esempio». E non è forse quello che fa il barbaro Kurtz esponendo le teste dei nemici piantate sui pali? E gli occidentali, alla fine, non sono forse solo dei selvaggi che hanno un «metodo adeguato»?
Dopo aver saggiato la resistenza dell’uomo all’impulso della fame e della morte, Conrad chiama in causa altre due pulsioni primordiali come la paura e il desiderio.
Al timone del battello c’è «un negro» che «viene da una tribù della costa e ha imparato tutto quello che sa» da un comandante danese. Quando i selvaggi attaccano il battello, il negro cade in preda al terrore: si morde le labbra, schiuma dalla bocca, pesta i piedi «come un cavallo a cui tirano le redini», come un cavallo addestrato dalla civiltà occidentale, che cerca di calmarlo (to restrain a horse) quando si imbizzarrisce, ma non ci riesce. Il negro abbandona il timone, prende il fucile, apre il portellone e spara all’impazzata nella boscaglia. Ma dal portellone che ha aperto penetra la lancia che lo uccide.
Poor fool! If he had only left that shutter alone. He had no restraint – just like Kurtz – a tree swayed by the wind. «Povero pazzo! Se solo avesse lasciato stare quel portello. Ma non aveva freni – proprio come Kurz – un albero che ondeggia al vento» (Conrad 2010).
Il timoniere ha imparato a governare una nave ma non sé stesso. Governare viene dal greco κυβερνάω, timonare, perché chi ha in mano il timone conduce la nave e il suo equipaggio con la ragione e la calma che servono per condurre la propria vita e quella di altri – e mostra che la civiltà non può abituare al restraint chi non lo ha: il negro e Kurtz sono due «alberi agitati dal vento», e appartengono alla foresta selvaggia.
In quella foresta il giovane russo ha portato con sé un libro sul «punto di rottura delle catene e dei paranchi delle navi», ma lo perde fuggendo dagli indigeni, e quando Marlow glielo riconsegna il giovane si lascia prendere dall’entusiasmo. He made as though he would kiss me, but restrained himself. «Lui fece come per baciarmi, ma si tenne a freno» (Conrad 2010).
Chi è giovane ha ancora un’identità incerta, e diventa adulto solo dominando i propri desideri inconfessati, i propri slanci inappropriati. La linea d’ombra è il restraint della giovinezza.
Infine anche Marlow viene messo alla prova, non nella foresta ma nella città – come se avesse capito, andando nel cuore della tenebra, cose che hanno reso la città una foresta, che gli hanno reso familiari, quasi fraterni, quei selvaggi che hanno provato, al pensiero di perdere Kurtz, unrestrained grief, «sofferenza irrefrenabile», e gli hanno reso stranieri gli uomini della città «che si affrettano lungo le strade per andare a rubarsi un po’ di soldi l’un l’altro, a ingozzarsi del loro cibo infame, a ingurgitare la loro birra malsana e a sognare i loro sogni sciocchi e insignificanti».
I had no particular desire to enlighten them, but I had some difficulty in restraining myself from laughing in their faces so full of stupid importance. «Non provavo tutto questo desiderio di illuminarli, ma facevo veramente fatica a tenere a freno la voglia che avevo di ridergli in faccia, pieni com’erano della loro stupida spocchia» (Conrad 2010).
Quando è stato a lungo da solo, un uomo deve vincere il disgusto quasi fisico che gli danno gli altri uomini; quando ha rischiato la sua vita nella foresta per salvare quella di un altro, deve tenere a freno il disprezzo viscerale per tutti quelli che «camminano tranquilli lungo la strada passeggiando tra il macellaio e il poliziotto, nel sacro terrore dello scandalo, della forca, del manicomio», se non vuole che quelli, scandalizzati, lo condannino al manicomio o alla forca. Il restraint è il prezzo di sé che ogni uomo paga agli altri uomini, e una società è giusta solo se è giusto quel prezzo.
Si può allora dedurre dalla comparazione di questi avvenimenti una segreta legge enunciata in Cuore di tenebra: tutti quelli che hanno restraint (Marlow, il Direttore, il giovane russo, i cannibali) sopravvivono, tutti quelli che non hanno restraint (Kurtz, il timoniere) muoiono, come a dire che quegli impulsi, che sono necessari a vivere, portano alla morte chi non li controlla; ma anche che chi muore non riuscendo a controllarli ha vissuto più da uomo di chi vive controllandoli grazie ad altri.
Conrad costruisce l’intero arco del libro intorno a quell’idea portante posta al centro come una chiave di volta, come se la prima metà della storia fosse un’unica, imponente domanda, «Restraint? What possible restraint?» e la seconda metà fosse un tentativo tenace di capire che cosa rende uomini, di definire quell’indefinibile something restraining, di chiarire, attraverso una serie di esempi fatti quasi a sé stesso, quella forza oscura dell’agire umano, senza mai giungere a una risposta che non sia nell’intero arco del ragionamento. Il termine restraint, nel testo, è come la voce di un dizionario spiegata solo attraverso esempi d’uso, e prende a poco a poco una nuova accezione rispetto a quella originaria: il restraint dell’Inghilterra puritana parla solo di «ritegno», di «pudore», di «vergogna», il restraint di Conrad, nel 1899, profetizza quello che Freud chiamerà, 27 anni dopo, «freno inibitore» (Hemmung), ed è come se in Cuore di tenebra, in questo «estenuante pellegrinaggio tra presagi di incubi» scritto negli stessi giorni dell’Interpretazione dei sogni, in questo Pilgrim’s Progress for our pessimistic and psychologizing age, «un Pilgrim’s Progress per la nostra epoca pessimista e psicologizzante» (Guerard 1958), l’uomo fosse sceso per l’ultima volta negli sconosciuti e tormentati inferi della sua anima prima che quella sterminata terra incognita fosse esplorata dai padri della psicanalisi, prima che la Stazione Esterna, la Stazione Centrale e la Stazione Interna fossero rinominate, come città occupate, SuperIo, Io ed Es, prima che le parole gridate dal viandante lungo il viaggio, i various lusts di Kurtz, il suo appellativo di Shadow, diventassero i termini di una nuova scienza: il Lust di Freud, l’Ombra di Jung.
Se questo è vero, se il significato di restraint è qualcosa che si fa più preciso a ogni nuova occorrenza, allora la traduzione di restraint non può che ricorrere a un unico termine (nel mio caso «freno») che si ripeta sotto forma di sostantivo con restraint, di verbo con to restrain e di aggettivo con unrestrained, perché la ripetizione scolpisce il senso del termine. E se la parola restraint ha questa forza esplicativa, questa sorta di capacità aperitiva del testo come se ne fosse la chiave, allora si dovrà sottolinearne l’importanza stabilendo una corrispondenza biunivoca tra quel termine e il termine con cui è tradotto: non solo ogni volta che nel testo compare restraint ci dovrà essere in traduzione il termine scelto, ma ogni volta che quel termine compare in traduzione ci dovrà essere restraint nel testo, e non si potrà tradurre Marlow che dice «I held my tongue», per esempio, con «tenni a freno la lingua», come pure verrebbe naturale.
Intorno a restraint altri termini tra cui heart, dark, know, monster, invade si dipanano come fili di senso del tessuto testuale, e devono essere seguiti a uno a uno e intrecciati con altri, fino a lasciar intravedere, sotto la trama romanzesca, l’ordito filosofico, perché si può fare filosofia, disse una volta Malraux parlando di Shakespeare, non solo costruendo un sistema ma anche mostrando un mondo, e una traduzione, allora, deve avere qualcosa di un mappamondo con nomi e meridiani.
Tradurre un’opera mondo, rispetto a tradurre un’opera, significa tentare di rappresentare non solo una prosa ma un pensiero, non solo una finzione ma una filosofia. Non si può forse riprodurre pienamente, nel mappamondo della traduzione, uno dei pensieri sismici di questo testo, generato dall’accostamento di knowledge e darkness – perché la conoscenza non porta la luce: porta le tenebre, sia per chi cerca invano di conoscere, sia per coloro a cui cerca di comunicare quel che credeva di conoscere – ma si può almeno restituire know e dark con due corrispondenze quasi univoche nelle pagine finali, in cui Marlow parla di Kurtz alla Promessa Sposa, e far sentire, attraverso il cupo rimbombare di quei due termini, come aumentino insieme la conoscenza e la tenebra in quella stanza al crepuscolo, come le parole offuschino proprio quei pensieri che dovrebbero chiarire. Si dovrebbe sempre tentare di inscrivere nel testo tradotto ogni significato che vediamo – che crediamo di vedere – nel testo originario, di miniare quelli che, almeno per noi, sono segni e simboli. Nella Stazione Interna, per esempio, in questo luogo quasi fisico dell’Inconscio dell’uomo, Marlow incontra tre personaggi: uno è Kurtz, naturalmente, e vedendolo Marlow dice: I saw […] the eyes of that apparition shining darkly, «vidi […] gli occhi di quell’apparizione brillare cupi»; un altro è la Regina Africana: along the lighted shore moved a wild and gorgeous apparition of a woman, «lungo la riva illuminata si muoveva, simile a un’apparizione, una donna splendida e selvaggia.»; il terzo è il giovane Arlecchino: sometimes I ask myself whether I had ever really seen him – whether it was possible to meet such a phenomenon!, «a volte mi chiedo se l’ho visto davvero – se è mai possibile che io abbia incontrato un fenomeno simile!» (Conrad 2010); e dunque le tre figure dell’Inconscio, quando compaiono per la prima volta, nel caso di Kurtz e della Regina Africana, o quando scompaiono per sempre, in quello dell’Arlecchino, sono chiamate «apparizioni» («phenomenon», nella sua radice greca, significa appunto questo), come a dire che siamo davvero «fatti della materia di cui sono fatti i sogni», anche se quella materia impalpabile sanguina come carne viva («apparition» e «phenomenon» sono termini che ricorrono unicamente qui, e se questa interpretazione è significativa, se ne dovrebbe tenere conto in traduzione).
Avviene in Conrad e in ogni grande scrittore quello che avviene in ogni grande filosofo: alcune parole acquistano una specifica accezione, una particolare risonanza, una sconosciuta profondità, un vasto senso traslato, perché lo scrittore, come il filosofo, vuole non solo creare ma ricreare il linguaggio, far dire alle vecchie parole cose nuove, inventare parole nel senso originario di trovarle e riadattarle. Lo scrittore muove dal mondo per ripensare il linguaggio, il filosofo muove dal linguaggio per ripensare il mondo; ma l’uno e l’altro pensano con le stesse tecniche, tanto che quello che avviene con la parola restraint e con altre del romanzo – un termine del linguaggio comune che diventa un termine tecnico dell’autore attraverso una progressiva ridefinizione – avviene anche nei dialoghi platonici. Nel Gorgia e nel Sofista, per esempio, una parola ordinaria come ἐπιστήμη diventa lentamente, attraverso il cosiddetto trascinamento semantico, l’idea platonica della conoscenza. Leopardi, che forse più di chiunque altro fu poeta perché filosofo, e filosofo perché poeta, ha scritto:
A far progressi notabili nella filosofia non bastano sottilità d’ingegno, e facoltà grande di ragionare, ma si ricerca eziandio molta forza immaginativa; e […] il Descartes, Galileo, il Leibniz, il Newton, il Vico, in quanto all’innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti; e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi. (Leopardi 1845: XIII, cap. VII)
Ogni grande scrittore, per certi versi, trascina il linguaggio del suo tempo a dire quello che non riusciva a dire, a ricomprendere quella realtà che si era estesa oltre i confini del dicibile – e ogni traduttore ha il dovere di riconoscere e ripetere questo scarto in avanti del linguaggio, che copre uno scarto del mondo.
Lo scrittore nomina le cose, il traduttore nomina i nomi – perché la prosa è un genere della poesia, la traduzione un genere della lessicografia – e quanto più il prosatore è in grado di essere poeta nella sua capacità di produrre la lingua in cui scrive più di quanto ne sia prodotto – di essere un fingitore nel senso etimologico di facitore – tanto più il traduttore di quel testo dev’essere il suo personale lessicografo, il Samuel Johnson del suo Shakespeare, il filologo della sua ispirazione. Che nessun poeta tranne Dante abbia avuto sulla propria lingua l’influenza che Shakespeare ha avuto sull’inglese è dimostrato in modo affascinante dal fatto che Johnson, suo curatore e critico, fu anche il compilatore del primo dizionario della lingua inglese; e questo, a sua volta, dimostra che tutti i dizionari e tutte le traduzioni sono stati scritti in calce ai grandi testi letterari, come un monumentale corpus di note.
Il traduttore deve non solo servirsi dei dizionari esistenti, ma scriverne uno di nuovo e suo, una sorta di «dizionario implicito», che contenga i lemmi della lingua personale dell’autore e i corrispondenti lemmi della lingua del traduttore; deve decifrare quella «specie di lingua straniera» in cui, diceva Proust, è scritto ogni grande libro, deve rinunciare ai dizionari esistenti a mano a mano che avanza nella traduzione e dedurre le parole straniere dal contesto del libro, dalle varie occorrenze, dal rapporto con le altre parole. Dovrebbe tradurre il testo, se solo fosse possibile, conoscendolo a memoria, perché l’intero testo fosse presente in ogni parola scelta, e quasi la dettasse al traduttore; deve individuare le parole principali attraverso cui passa il pensiero dello scrittore e segnalarle con segni impercettibili, deve decidere se valga la pena istituire una corrispondenza univoca o biunivoca o forse spostare leggermente una parola nella frase per darle maggiore centralità, deve fare segretamente tutto questo e molto altro, perché una traduzione è un’esegesi crittografata; e deve portare a termine insieme alla traduzione l’unico dizionario che può tradurla, il difficile dizionario della lingua di un solo uomo, decine e decine di termini che hanno una o molte traduzioni, che rimandano continuamente l’uno all’altro, che compaiono in citazioni tratte sempre dallo stesso libro; deve costruire l’opera insieme allo strumento per costruirla, sapendo che solo quando sarà finita l’opera sarà pronto lo strumento, e che, a quel punto, lo strumento sarà inutile, e l’opera sembrerà senza fine.
Riferimenti bibliografici
Conrad 2010: Joseph Conrad, Youth, Heart of Darkness, The End of the Tether, in The Cambridge Edition of the Works of Joseph Conrad, a cura di Owen Knowles, Cambridge University Press 2010.
Guerard 1958: Albert Joseph Guerard, Conrad the Novelist, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1958.
Leopardi 1845: Giacomo Leopardi, Operette morali, in Opere di Giacomo Leopardi, vol. I, edizione accresciuta, ordinata e corretta, secondo l’ultimo intendimento dell’autore, da Antonio Ranieri, Le Monnier, Firenze 1845.
Whitney e Smith 1902: William Dwight Whitney, Benjamin Eli Smith, The Century Dictionary and Cyclopedia: a Work of Universal Reference in all Departments of Knowledge, with a New Atlas of the World, Century Co, New York 1902.