di Mario Marchetti
A proposito di: Giovanna Lombardo, Grazie per la traduzione. Leonardo Sciascia e Mario Fusco – lettere 1965-1989, Firenze, Olschki, 2019, pp. 111, € 18, 00
Il piacere del libro, innanzitutto: un oggetto elegante, curato, dalla splendida carta color avorio e dal nitido carattere tipografico. Corredato da un paio di fotografie che alludono a piaceri oggi, in tempi di coronavirus e di salutismo, interdetti: in copertina uno scatto del sodale Ferdinando Scianna che inquadra Sciascia in tranquillo colloquio con un amico davanti al bancone di un bar dagli anodini tratti anni sessanta e, nell’apparato promozionale in fondo al volume, una immagine di Carla De Gregorio che ci propone uno Sciascia meditativo immerso nella spirale di fumo di una sigaretta. E se pensiamo come il tesoro dei carteggi si faccia sempre più raro per gli uomini d’oggi, si profila un ulteriore elemento per apprezzare questo oggetto che si pone sulla soglia di una scomparsa.
Una prefazione di Ricciarda Ricorda, volta a illustrare il progetto del libro, e un’agile introduzione analitica di Giovanna Lombardo aprono il volume, che raccoglie lo scambio epistolare tra Sciascia e Fusco. Ma com’è possibile oggi pubblicare un libro simile, che evidentemente non possiede i crismi della facile commerciabilità? Il merito va all’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, associazione senza scopo di lucro che finanzia con contributi privati le sue attività. Tra queste: la rivista internazionale di studi sciasciani «Todomodo» di cadenza annuale, giunta ormai al suo nono numero; la collana «Sciascia scrittore europeo», della quale sono comparsi due volumi dedicati ai rapporti tra lo scrittore e, rispettivamente, la Svizzera e la Jugoslavia; la collana «Smara» ‒ insieme memoria e amore in sanscrito, titolo arcano scaturito da una suggestione di Giorgio Agamben ‒ che ospita materiali variegati provenienti dall’officina dello scrittore. A questa collana, come n. 2, appartiene il nostro libro (il n. 1, anch’esso del 2019, «E Sciascia che ne dice?». Il catalogo è questo, riunisce lettere, disegni, annotazioni concernenti il rapporto dello scrittore col “selvaggio” Mino Maccari). È davvero straordinaria, da una parte, l’ampiezza di interessi dell’uomo Sciascia che ne emerge e, dall’altra, l’ampiezza degli echi che la sua opera ha suscitato e continua a suscitare a livello globale. Insomma, un ottimo lavoro quello dell’Associazione, essa stessa ispirata, come si legge sul sito, a un vagheggiamento di Sciascia, il quale in un appunto del 1983 scriveva: «Si sa che in Francia è frequente l’aggregazione di lettori particolarmente fedeli al nome di un certo scrittore: associazioni che si dicono di amici: Amici di France, Amici di Giraudoux, Amici di Buzzati […]; associazioni che […] sono segni di una civiltà intellettuale a noi quasi ignota» (Appunto per un discorso sul mistero di Stendhal, Milano, Biblioteca Comunale, 1983; poi incluso in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Palermo, Sellerio, 1989; dal 2009 pubblicato da Adelphi). E così gli Amici di Leonardo Sciascia hanno in qualche modo ottemperato a un suo desiderio, dandogli corpo e vita.
La curatrice del volume non è nuova a uno studioso interesse per Sciascia. Suo è infatti il saggio del 2008, uscito presso La Vita Felice, Il critico collaterale. Leonardo Sciascia e i suoi editori, in cui si indaga sul ruolo di prezioso suggeritore di politica culturale svolto dallo scrittore nei confronti di Einaudi, Bompiani, Adelphi e, soprattutto, di Sellerio ‒ ai tempi di Elvira ‒, che com’è ben noto, con molte delle sue collane («La civiltà perfezionata», «La memoria») si sviluppò grazie al significativo impulso di Sciascia. Ma anche questo tipo di funzione pare ormai, come i carteggi, in via di estinzione o, quanto meno, non si svolge più alla maniera di Sciascia. Altri sono, forse inevitabilmente, i criteri strategici che guidano l’editoria oggigiorno.
Mario Fusco (1930-2015), il corrispondente di Sciascia, è stato un importante italianista francese che ha insegnato in varie università, terminando la sua carriera a Paris III. Un bel tratto del suo profilo ‒ piuttosto raro tra gli accademici, almeno da noi ‒ è l’aver sempre accompagnato il suo lavoro di storico e critico (Tasso e Leopardi, ma soprattutto il Novecento, fin anche a Camilleri) a quello di traduttore, occupandosi, in questo campo, sempre di autori da lui amati: Svevo, Calvino, Landolfi, le prose di Montale, Maraini, Morante, Consolo, Balestrini. Ma certamente il suo più grande amore letterario, accanto a Svevo, è stato Sciascia. E di questo fanno fede, accanto al carteggio, le tante traduzioni: dai primi lavori dello scrittore ‒ Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia, Il giorno della civetta, Morte dell’inquisitore ‒ passando per La scomparsa di Majorana, I Pugnalatori, Il teatro della memoria, la Nota sulla manzoniana Storia della colonna infame, Cruciverba, La sentenza memorabile, fino ai suoi ultimissimi rapidi testi creativi ‒ Il cavaliere e la morte e Una storia semplice. Possiamo dunque parlare per Fusco di una lunga fedeltà nei confronti dell’opera di Sciascia, cosa che gli permette di fare le domande giuste (lessico, realia) all’autore e, soprattutto, di fare accurate e pertinenti osservazioni stilistiche, ma anche contenutistiche sui suoi testi. Colpisce immediatamente scorrendo le lettere (decisamente più numerose, soprattutto per gli ultimi anni, quelle del traduttore) il suo grande calore e la sua grande ammirazione per Sciascia, che si dimostra invece sicilianamente più contenuto, seppur ringrazi per le traduzioni. Certamente un fatto di temperamento, ma anche di cultura. Basti pensare ai tanti «Carissimo Leonardo» a cui corrispondono dei più misurati «Caro Mario». I due si scambiano consigli di lettura, si chiedono reciprocamente aiuto per le loro ricerche, segnalano all’altro testi interessanti, individuano nuovi territori verso cui indirizzare il lavoro editoriale, e tutto ciò non senza riverberi su di esso sia in Francia che in Italia. Sciascia, a suo modo, ha la possibilità di mostrare la sua grande affinità elettiva per la cultura francese, dopo una prima fase di fascinazioni ispaniche, che peraltro non verranno mai meno del tutto. Non ci si addentra mai particolarmente nel terreno politico o sociale, per quanto gli anni più densi del carteggio (dal 1968 agli anni ottanta) siano anni di grandi rivolgimenti. C’è un accenno all’interesse di Fusco per il nostro ’77 né vi è traccia de L’affaire Moro (1978), capolavoro del periodo dell’impegno politico diretto di Sciascia. A questo proposito, con grande finezza e con la massima levità, Fusco fa intendere come in tali anni il lavoro letterario di Sciascia, pur sempre apprezzabilissimo per il suo rigore, abbia perso un po’ del suo smalto, smalto che viene assolutamente recuperato nelle ultime opere. Di 1912 + 1 (1986) Fusco scrive alla moglie dello scrittore: «Il libro mi è piaciuto molto, l’ho trovato splendidamente scritto, meditato, uno dei suoi libri più eccitanti degli ultimi anni». E allo scrittore stesso, a proposito del successivo Porte aperte (1987): «[L]’ho letto più volte di seguito, con profonda, totale ammirazione. Mi sembra, anzi, sono convinto che come 1912 + 1, si tratti di una nuova fase della tua opera, non tanto per la tematica e per i problemi affrontati che sono in profonda coerenza con tutto quanto hai scritto prima, quanto piuttosto per la scrittura, che mi pare di sentire più sciolta, più libera, e talvolta con un plaisir d’écrire che mi ha colpito molto». E il 3 gennaio 1989, pochi mesi prima della morte dello scrittore che avverrà nel successivo novembre, Fusco, a proposito del Cavaliere e la morte verga parole che paiono costituire un suggello alla sua lunga fedeltà (tra l’altro, nel carteggio non compaiono, forse non sono mai state scritte, le risposte di Sciascia degli ultimi anni): «Col Cavaliere mi pare evidente che sei andato più avanti; oltre. Per questo c’è una tensione, un vibrato che, sebbene controllatissimo, non può lasciare indifferenti, in questa inchiesta che va appunto, oltre il suo pretesto, in una direzione che diventa sempre più larga mentre dà l’impressione di essere più personale, più individuale». E di questi mesi, ricordiamo, sarà l’affilato testamento narrativo di Sciascia, Una storia semplice, frutto di un’urgenza morale ormai priva di speranze sulla redimibilità della società italiana.
Un critico invisibile dunque Fusco (ne abbiamo dato qualche assaggio) come d’altronde ogni buon traduttore non può non essere. Il buon traduttore conosce opera per opera il suo autore, ma soprattutto lo conosce riga per riga, parola per parola: la sua traduzione è una sorta di critica interlineare del testo di cui si prende cura riversandolo in un’altra lingua. Non scrive saggi, fatica con la sua materia, sottraendosi alla presenza. È forse lui l’autentico critico?