Alto artigianato: un servizio necessario

CONVERSAZIONE CON CLAUDIA ZONGHETTI SU VITA E DESTINO

Claudia Zonghetti

di Giulia Baselica

Nell’autunno del 2008 Adelphi pubblica Vita e destino di Vasilij Grossman nella traduzione di Claudia Zonghetti. La versione precedente era uscita nel 1982, ma otto anni dopo sarebbe accaduto, in Russia, qualcosa che avrebbe reso necessaria una nuova traduzione del romanzo. Per quella stessa traduzione Claudia Zonghetti ha vinto nel 2009 il premio Vallombrosa Gregor von Rezzori.

Come nasce il progetto della traduzione di Vita e destino di Vasilij Grossman?

– L’impresa è nata in modo inaspettato. Un giorno del 2007 mi telefona Anna Raffetto, responsabile dell’area slava in Adelphi, e mi dice: «Sto per proporti qualcosa di importante – pausa di silenzio – Si sta pensando di ritradurre Vita e destino». La pausa successiva – mia, questa volta – è di basito, prolungato mutismo. Anna mi incalza, impaziente: «Claudia, non ti interessa?». Non mi interessa, figurarsi… Una nuova traduzione, tanto prossima alla precedente e affidata a me?! Vita e destino è un capolavoro, un classico, e non credevo certo di essere in cima alla lista dei nomi che ci si augurava lo traducessero. Il mio stupore era per la fiducia che mi veniva dimostrata, mista all’onore di essere la prescelta.

Tra l’altro, la versione precedente non era ancora da considerarsi datata; l’aveva pubblicata Jacabook nel 1982, nella traduzione di Cristina Bongiorno.

E nel 2005, se non sbaglio, era uscita una ristampa.

– Sì, infatti. I segnali di attenzione verso il romanzo erano diversi. In alcune trasmissioni televisive, per esempio, lo si era citato quale capolavoro introvabile e se ne era invocato il ritorno.

Tu, però, avevi già incontrato Grossman “in un’altra vita”…

– Il “nostro” primo incontro è del 1993, alla SETL, la Scuola di Traduzione Letteraria di Magda Olivetti. Traducemmo in gruppo, “in coro”, alcuni racconti che poi uscirono da Hefti (e mi pare di ricordare – strizzatina d’occhio all’intervistatrice – che ci fosse anche qualcun’altra, o no?). Scrissi anche una specie di postfazione in cui, caso curioso, intervallavo le “notizie” a brani di un altro autore poderoso che ho – poi – avuto la fortuna di tradurre: Varlam Šalamov.

Torniamo al 2008 e alla telefonata di Anna Raffetto.

– La proposta di quel nuovo incontro con Grossman solleticò un orgoglio misto a spavento. L’idea era che, come dicono i russi, «tret’emu ne byt‘», non ci sarebbe stata una terza traduzione per un bel po’ di tempo, e quindi, per un altro mezzo secolo almeno, Grossman avrebbe parlato con la mia voce. E sentivo tutto l’onere e la responsabilità dell’impresa.

Il tuo stupore, di fronte alla proposta di Adelphi, era in parte determinato dal fatto che una traduzione italiana già esisteva, e forse non era ancora del tutto invecchiata.

– Esatto. La prima versione italiana di Vita e destino aveva avuto una storia diversa, un’urgenza – un’impellenza direi – differente. E nella storia di una traduzione venticinque anni possono – effettivamente – essere un’eternità. Il vero pretesto per la nuova traduzione fu, tuttavia, la comparsa in Russia nel 1990 di un’edizione integrale del romanzo, che riuniva le due copie esistenti e reintegrava alcuni tagli: il capitolo sull’antisemitismo, per esempio, e apprezzamenti espunti strada facendo.

Come si è presentata quella che tu, più che giustamente, continui a definire «un’impresa»?

– Si è rivelata da subito tale, è vero, proprio per la facilità di lettura, la fluidità, la semplicità della lingua di Grossman. Non ho difficoltà a tradurre linguaggi «sporchi», ridondanti, involuti, «fioriti», perché anche la mia lingua – il mio parlato e il mio scritto – ha un taglio simile. Grossman, invece, era un giornalista, un corrispondente di guerra, e la guerra ripulisce lo stile, lo scarnifica. Anzi no, scarnificare è troppo, nel caso di Grossman. Smagrisce, toglie il grasso in eccesso, asciuga. Un po’ come quando la madre di Štrum gli scrive per dirgli addio: «E dunque, Viktor caro, anch’io ho radunato le mie cose. Ho preso il cuscino, un po’ di biancheria, la tazza che mi avevi regalato tu, un cucchiaio, un coltello, due piatti. Si ha bisogno d’altro, forse?». Il cuscino, il cucchiaio… Si ha bisogno d’altro, forse? L’attenzione di Grossman per la parola è profonda, ma equilibrata. Grossman non cesella, riesce a dire tutto in prima battuta senza eccesso di fronde. La sua lingua porge senza compiacimenti. Un intento che risulta ancora più evidente ne L’inferno di Treblinka, data la ferocia dell’ambientazione.

Che hai tradotto tu, sempre per Adelphi.

– Sì, nel 2010. Quando Grossman arriva a Treblinka il campo non esiste più, ma le associazioni che comunque scatena sono tremende. Grossman, però, riesce a offrirle al lettore – come dirlo… – con parole non surriscaldate, a temperatura corporea, ecco. L’unica concessione alla tragedia, all’orrore, sono i grembi delle donne incinte che esplodono. Che, proprio per questo, squarciano anche gli occhi di chi legge. Altrimenti l’equilibrio fra cervello e cuore è sempre al limite della perfezione.

Lo stesso equilibrio è in Vita e destino.

– Vero. Grossman è testimone di anni tremendi per la storia della Russia e del mondo, ma non cede mai al pathos, alla tentazione di usare la parola come leva per i sentimenti. L’ho detto altre volte, ma mi ripeto perché credo davvero che così sia: le sue pagine danno l’impressione che il magma rovente dei fatti si sia rappreso subito, e il lettore lo raccoglie già freddo, pur se appena eiettato, quel magma. E la traduzione doveva rendere tutto questo.

Bella questa metafora! Potresti chiarire in che modo il traduttore raccoglie il magma freddo e lo offre al suo lettore, che lo raccoglie a sua volta?

– Non dimenticando mai che il lavoro del traduttore è – a mio parere – una forma di artigianato, e non di arte. L’arte è di chi scrive. Non voglio generalizzare, per carità, dunque parlo solo ed esclusivamente per me. Il mio io-artigiano, per esempio, ha seguito un percorso se vogliamo inverso rispetto alla norma, passando dall’esaltazione entusiasta dei primi passi, dalla convinzione di poter offrire “finalmente” la “giusta” traduzione (le senti, le virgolette, sì?) alla progressiva consapevo­lezza dell’imperfezione assoluta, fatale del mestiere. Sono condannata a essere uno dei plurali di un singolare, una copia pallida – la meno pallida possibile, magra consolazione! – dell’originale. Una consapevolezza che sempre più mi convince che il mio sia un mestiere a scadenza. Arriverò al punto – e lo so che sto per passare le unghie sulla lavagna – in cui deciderò che non sarò io a far impallidire tizio o caio, e alzerò le braccia.

Una consapevolezza che forse genera frustrazione…

– Fortissima! E aumenta con il passare degli anni. Se a venticinque anni traducevo il Maestro e Margherita convinta che la mia sarebbe stata la traduzione, ora sono convinta che di ogni opera la mia sarà una delle manomissioni del testo di partenza.

Perché fai questo mestiere?

– (ghignetto) Hai ragione. Parlo parlo, ma poi sono qua che traduco! Perché leggere è indispensabile. Sempre. Anzi, sempre di più. Ed è impensabile non poter godere di quanto è stato scritto in altre lingue. E perché cerco di ignorare la mia data di scadenza, finché posso.

Torniamo alle pagine di Vita e destino. Sei riuscita a rendere l’equilibrio della sua lingua in modo perfetto.

– I tempi editoriali sono stati strettissimi: nove mesi, da ottobre a giugno, per la consegna della traduzione. E fondamentale, indispensabile, è stata la mia redattrice, Giusi Drago, proprio perché riusciva a cogliere con grande sensibilità gli inevitabili stridori dovuti alla sferza della fretta e alla difficile ricerca dell’equilibrio di cui dicevamo sopra. Il suo ruolo di “non russista” è stato cruciale per cogliere i casi in cui la forma si impigriva o metteva, invece, le ali.

Come lavoravate?

– Per la prima volta da che ho cominciato a tradurre, ho dovuto accettare di consegnare il lavoro a tranche, ipotesi che solitamente rifiuto con tutte le mie forze. Abbiamo iniziato con un centinaio di pagine, per imparare a fidarci l’una delle competenze dell’altra, per calibrare lo stile, il registro, per entrare entrambe nell’uso che Grossman fa delle parole. La sua lingua, in traduzione, doveva essere asciutta ma non piatta, secca ma non banale. Il registro andava bloccato su “moderato”, senza concessioni all’aulico, al rifinito, al forbito. Giusi leggeva, segnalava e interveniva; io rileggevo per verificare che non ci fossero eccessivi allontanamenti dal testo di partenza, intervenivo di nuovo se era necessario, accettavo, rifiutavo o proponevo altre varianti. Il nostro lavoro si è velocizzato con il passare del tempo: lei entrava nella lingua dell’autore e io mi fidavo sempre di più dei suoi interventi.

Come potresti raccontare questa convivenza con il testo?

– È stata una convivenza vera, hai ragione! Ho vissuto davvero con Štrum e i suoi, davvero passavo le giornate con Novikov e i suoi carristi. Con conseguenze al limite del ridicolo. Arrivavo ai giardinetti con i bambini e annunciavo trionfante che avevo conquistato l’Ucraina. Oppure, quando Sof’ja e David muoiono nella camera a gas (ricordi? dopo quella danza tremenda di spirali intorno alla camera a gas, di pensieri che si accumulano, soavi e strazianti…«Sof’ja Osipovna Levinton sentì il corpo del ragazzo spegnersi fra le sue braccia. Li avevano separati di nuovo. […]. Sono diventata madre, pensò. Fu il suo ultimo pensiero. Ma il suo cuore era ancora vivo: una stretta dolorosa, pietà per voi, per i vivi e per i morti; poi un conato: Sof’ja Osipovna strinse a sé David, bambola senza vita, e morì, bambola senza vita anche lei», al parco – la vita reale – in diversi hanno notato lo sguardo perso e si sono informati sulla mia salute… Il metodo Stanislavskij vale anche per i traduttori. O per lo meno vale per me: più di una volta ho litigato con Štrum, in sogno.

Si può parlare di simbiosi tra vita e traduzione!

– Di interferenze, sicuramente. Vita e traduzione si contaminano a vicenda, nonostante la zavorra della vita reale. Nel mio caso la mimesi con i personaggi, con le voci di ciascuno, credo mi aiuti a rendere i modi del linguaggio. Se riesci a pensare come lui, riesci a rendere meglio ciò che dice. Il rischio, però, è sempre in agguato: il “mio” personaggio intendeva dire, il “mio” personaggio voleva fare… È necessario attenersi sempre a ciò che ha detto e ciò che ha fatto. Punto. Quindi: immedesimarsi, ma con la mano sul freno. Con una continua attenzione a un’interpretazione calibrata, trasparente e non individuale. In una parola: Mastroianni e non Carmelo Bene.

Prima hai detto che Vita e destino è un classico; credo che non alludessi soltanto alla sua diffusione e alla sua importanza, ma che ti riferissi alla gloriosa tradizione letteraria cui appartiene.

– Grossman si inscrive alla perfezione nella tradizione russa classica, nella democrazia letteraria čechoviana: i personaggi hanno tutti la stessa dignità e tutti sono pedoni sulla scacchiera del romanzo, senza re né regine. Perfino Hitler e Stalin sono rappresentati in situazioni difficili, scomode: Hitler nel bosco, smarrito; Stalin cogitabondo, senza la divisa da «generalissimo». La Storia è declinata in tante storie. Ecco, su questo punto Grossman dialoga con Tolstoj: entrambi sono autori di romanzi epici, ma nel primo è assente lo sguardo dell’eroe; manca l’idea tolstojana della Storia governata dal caso. Anzi, Grossman afferma ostinatamente che è l’uomo, il singolo uomo, l’artefice della Storia dell’umanità.

Che cos’è il “dopo Grossman”?

– Grossman mi manca e mi mancherà. L’epicità dell’impresa e la dignità del risultato sono sicuramente un’esperienza che racconterò ai nipoti. Mi scalda l’entusiasmo di chi legge e mi cerca per dirmi quanto ha amato il libro. Due ragazzi di Bologna, Marzia e Mattia, hanno letto Il bene sia con voi, una scelta di racconti di Grossman che Adelphi ha pubblicato quest’anno, hanno preso e sono partiti per l’Armenia. Ma per l’Armenia di Grossman! Sono stati a Cachkadzor, hanno cercato e trovato Ivan, lo hanno fotografato, hanno mangiato con lui! Hanno cercato i molokane, i settari, sono andati sul lago Sevan, e tutto senza conoscere una parola di russo o di armeno! Hanno dormito nella casa dello scrittore dove si era fermato Grossman; hanno cercato e trovato i discendenti dei suoi personaggi… Come si fa a non lasciarci una lacrima?

E tutto questo esclusivamente grazie alla tua traduzione!

– È questo a scacciare – no, è troppo: a rimandare – la paura di tradurre. E soprattutto, a farti dire che per quanto il servizio reso sia storpiato, è comunque un servizio necessario.

Che cosa ha cambiato Grossman nella tua vita?

– La mole di Vita e destino e l’impegno necessario per tradurlo hanno scosso la vita famigliare, che è stata letteralmente travolta, invasa, scardinata. Grossman mi ha sicuramente aggiunto emozioni, anzi, strati di emozioni. Dopo un lavoro così imponente e così importante ho avuto bisogno di rimettermi in equilibrio con la vita reale, di rimettere in fila le cose importanti. È servito a a far esplodere disagi latenti. È stato un detonatore, come può esserlo un viaggio, o una morte, o una nascita (adesso che ci penso, la traduzione è durata nove mesi…).

Per Vita e destino ti è stato assegnato il premio Vallombrosa Gregor von Rezzori, nel 2009.

Con una motivazione che rileggo nei momenti di grigio… E vorrei che la riportassi, sì. Non per lusingare o lucidare il mio ego (inesistente o quasi), ma perché è un’analisi calda e spietata delle fatiche del mestiere. Ma anche delle soddisfazioni commoventi (sì, è vero, le ho sempre in tasca, le lacrime…) che riesce a darti.

Ed eccola, quella motivazione, per la penna del presidente della giuria, Andrea Landolfi:

Vita e destino è un libro che non si lascia leggere, che prende alla gola, che cattura e insieme spinge alla fuga, perché la tensione, la cattiva coscienza di noi salvi, vivi, nutriti e liberi non riesce a trovare un solo punto di fuga, e fosse pure un acquietamento provvisorio, una piccola indulgenza alla nostra debolezza. E se è così arduo il nostro compito di semplici lettori partecipi, non sarà difficile figurarsi il peso immane, la responsabilità abnorme che grava su chi a un’opera del genere è chiamato a dar voce in un’altra lingua. Provo a immaginare i mesi che Claudia Zonghetti ha vissuto accanto ai fantasmi di queste 827 pagine, alla sua lotta quotidiana e silenziosa, alla fatica che deve esserle costato non abbassare mai il tono, non concedere mai nulla ai riposi, alle astuzie anche innocenti con cui noi traduttori ogni tanto “mettiamo” e “leviamo”, per rendere una formulazione o un concetto più familiari ai nostri lettori, certo, ma anche per noi stessi, per rendere meno ingrata quell’operazione pietosa ed eroica di ricomposizione di una trama altrui, che pure diviene, a mano a mano che ci addentriamo in essa, anche così profondamente nostra.

È molto raro oggi leggere una traduzione senza avvertire mai quella che Franco Fortini chiamava «la nostalgia dell’originale», la voce sommessa che richiama continuamente alla coscienza del lettore l’eco di qualcosa che nel passaggio dall’una all’altra lingua si sarebbe irrimediabilmente perduto. Nella versione di Claudia Zonghetti non vi è una sola formulazione, un solo aggettivo che non siano giusti e necessari, che non arrivino al fondo oscuro del significato, quello che va anche al di là delle parole che lo dicono. Noi crediamo che Vasilij Grossman e il suo universo dolente e grandioso abbiano trovato, qui in Italia, una voce degna di loro.