LA NASCITA DELLA WORLD HISTORY E LA STORIOGRAFIA ITALIANA
di Silvia M. Pizzetti
Inattualità e attualità di Arnold J. Toynbee
«Uno zio imbarazzante a una festa in famiglia» (an embarrassing uncle at a house party): questa, almeno secondo Michael Lang, la considerazione di cui oggi Toynbee godrebbe tra i praticanti della World History (Lang 2011, 747). Dove è interessante il contrasto tra la «festa», che simboleggia l’odierna fortuna degli approcci globali alla storia (variamente motivati dalle emergenze finanziarie, economiche, politiche, financo terroristiche e sanitarie del mondo contemporaneo), e l’eredità ingombrante e scabrosa di un indiscutibile nume tutelare e fondante della materia, come appunto lo storico inglese.
Sono molti i motivi che possono concorrere a spiegare l’imbarazzo: il forte coinvolgimento politico militante del Nostro nelle attività del Foreign Office, il peso di un apparato concettuale religioso utilizzato come chiave esplicativa tendenzialmente assoluta dello sviluppo delle civiltà, la rigidità e l’ambizione di uno schema universale senza limiti di spazio e di tempo, le stesse dimensioni monumentali di un’opera che qualsiasi editore dei giorni nostri guarderebbe senz’altro con terrore. A ben vedere, sono motivi non molto diversi da quelli condensati ormai quarant’anni fa nell’icastica e liquidatoria definizione coniata da James Joll per il monumentale A Study of History: un eschatological sermon (Joll 1985, 102).
Eppure anche William McNeill – lo storico canadese dell’antichità (punto d’origine disciplinare condiviso con Toynbee) che è difficile non collocare alle origini della moderna World History – ha sentito il bisogno di confrontarsi con la biografia di Toynbee (McNeill 1989). Possiamo anche fare finta di nulla, ma Toynbee incombe alle spalle di chiunque sia interessato a una dimensione storiografica non meramente locale o nazionale. Come nota lo stesso McNeill, la sua fama internazionale surclassa quella di autori, a lui apparentabili, come Oswald Spengler (Spengler 1957) o H.G. Wells, e l’organicità del suo progetto rappresenta tuttora una sfida irrisolta per un campo di studi che si è rapidamente frammentato secondo diversi ambiti metodici (storia economica, storia culturale, storia ambientale, storia geopolitica…) e diversi contesti spazio-temporali (Manning 2003). Fedele a una coerente idiosincrasia per le discussioni teoriche, McNeill non entra in polemica critica nei confronti di Toynbee: la sua è una rigorosa biografia in senso stretto, ostinatamente refrattaria al piano interpretativo, che non per caso conduce a una definizione di Toynbee come «artista» (paragonabile a Dante e Milton) (McNeill 1989, 286).
Con umiltà e senza alcuna pretesa di ricerca della «pietra filosofale» capace di spiegare apogeo e declino delle civiltà, McNeill ha ricostruito diverse chiavi di accesso alla World History – dalle epidemie e relative trasformazioni degli apparati immunitari umani (McNeill 1976 e 1993) alla tecnologia militare (McNeill 1982), fino alle reti della conoscenza scientifica – muovendo però da un pregiudiziale abbandono del piano sistematico universale di Toynbee.
Non si tratta soltanto di una accezione della storia universale più empirica e «laica», delimitata da una semplice dimensione spaziale anziché da modelli sintetici generali. Si tratta anche del riflesso di un clima culturale per molti aspetti diametralmente opposto a quello in cui Toynbee ha operato. L’età compresa tra le due guerre mondiali appare contrassegnata da una globalizzazione delle ideologie antidemocratiche (ma soprattutto di quelle fasciste) e da una de-globalizzazione economica e commerciale provocata da protezionismi e rivalità successivi alla crisi del 1929. L’ipotesi che domina la scena intellettuale e con la quale Toynbee è chiamato a confrontarsi è quella di un «tramonto dell’Occidente», emblematizzato dalla catastrofe della “grande guerra” e dalle crescenti difficoltà egemoniche dell’impero britannico. L’Europa ferita e divisa che si trova davanti rispecchia la hybris delle città-stato greche incapaci di coalizzarsi contro il nemico che viene da Oriente (Perry 1996, 10). McNeill invece lavora negli anni sessanta, nel quadro della decolonizzazione e della fiducia (condivisa da entrambe le superpotenze) nella capacità della grande industria «fordista» di assicurare il progresso. Della orgogliosa proposta di un modello di società fondato sulla diffusione dei consumi di massa – un modello capace anche di unire l’Europa occidentale – il «manifesto non comunista» tracciato negli stessi anni da Walt Rostow (voce militante della development economics e già collaboratore alla gestione del piano Marshall) rappresenta un documento saliente (Rostow 1962).
Quella di McNeill è quindi una World History interamente secolarizzata, entro la quale il problema dominante è un’ascesa dell’Occidente motivata non già da fattori religiosi, bensì dal soddisfacimento dei bisogni materiali e dallo sviluppo di competenze militari, biologiche e scientifico-tecnologiche in lunghi secoli di guerre, invasioni, conquiste, commistioni di popoli e culture. L’età classica come incubatore di perduranti identità a sfondo religioso (ricostruita da Toynbee) perde terreno a tutto vantaggio del Rinascimento e dell’Illuminismo, delle scoperte geografiche e del dominio europeo degli oceani e degli scambi commerciali.
Per lungo tempo, oserei dire per tutta la parte restante del ventesimo secolo, la centralità globale del capitalismo occidentale rimane il dato cruciale e il tema dominante della World History: si pensi, per fare solo un esempio, alla scuola post-braudeliana di Immanuel Wallerstein e alla sua categoria di economia-mondo. Modernizzazione e modernità (occidentali) diventano categorie-chiave trasversali per l’insieme delle scienze sociali. Di questa stagione di studi forse il frutto estremo e più significativo in campo storiografico può essere individuato nell’ultima grande opera di David Landes (Landes 2000), perché vi torna a trasparire (implicitamente) un impianto concettuale e di metodo tipicamente toynbiano. Non solo per la dichiarata ambizione di sintesi (a partire dal titolo che echeggia Adam Smith), ma anche e soprattutto perché la «vittoria» occidentale viene ricondotta a fattori culturali endogeni: la tradizione giudeo-cristiana di sottomissione umana della natura (in contrapposizione all’animismo e all’idea di armonia naturale delle altre confessioni), lo spirito di libertà personale e di spinta attivistica della Riforma protestante, ma anche la tolleranza cattolica nei confronti dello schiavismo (condizione indispensabile per lo sfruttamento delle colonie americane). E per spiegare quello che lui giudica il sostanziale fallimento delle politiche di industrializzazione nei paesi dell’Africa subsahariana, Landes recupera – in aggiunta all’assenza di quei «prerequisiti» culturali – proprio la dimensione ambientale e «climatica» di Toynbee: caldo proibitivo e schiavitù marciano di pari passo nell’annullare ogni stimolo innovativo.
Accomuna quindi Toynbee e Landes una visione delle civiltà come frutto di uno sviluppo introverso e separato, che procede per deduzione e concatenazione da un nucleo originario di tipo culturale e religioso. E’ il rapporto «ideologico» con l’ambiente naturale, in altre parole, a fornire un imprinting decisivo, destinato a rimanere fondante e operativo nel lunghissimo periodo.
Molte sono naturalmente le critiche mosse a questa visione e a Landes in particolare: gli schiavi c’erano anche ad Atene e a Roma, l’approccio culturalista non riesce a spiegare le datazioni diverse e la diffusione ineguale del processo di industrializzazione in Occidente, mentre il confucianesimo viene indifferentemente chiamato in causa per motivare sia il ritardo plurisecolare sia l’accelerazione odierna della Cina moderna e contemporanea. Ma la critica più importante è stata espressa proprio dalle ricerche di McNeill: il motore del progresso non discende da un presunto nucleo originario, bensì procede in modo non deterministico dall’interscambio tra civiltà diverse. E’ l’incontro con il «diverso» nelle sue forme buone e cattive (commercio, investimenti, guerre, migrazioni, innovazioni tecniche e scientifiche, epidemie, piante, animali) a porre una sfida che può essere subita, contrastata violentemente oppure raccolta, ma che comunque mette sotto pressione gli equilibri tradizionali e li spinge al cambiamento. E spesso sono gli uomini di frontiera (viaggiatori, mercanti, missionari, migranti), che si muovono attraverso i confini delle civiltà, ad incarnare i messaggeri dell’interazione e del progresso. Come si vede, è un approccio che implica un corollario di assoluto valore politico: il superamento di ogni ideologia nazionalista, razzista o integralista che affida alla purezza separata la migliore garanzia di conservazione. Regola aurea e condivisa delle grandi religioni dell’età assiale – McNeill lo ricorda spesso – è l’accoglienza e la reciprocità di trattamento nei confronti dello straniero. Ciò che per Toynbee era in fondo il nemico assoluto – il nazionalismo, vero responsabile della morte di gran parte delle civiltà umane (14 su 21, per l’esattezza) – contro il quale soltanto la religione poteva ergersi a bastione morale universalistico, per McNeill (e non solo per lui, naturalmente) diventa un artefatto: uno strumento politico consapevolmente adoperato dalle élite ma sconfessato dalle acquisizioni della World History. Si tocca qui il nodo problematico più aperto e vitale dell’intera opera toynbiana: quello dei contatti tra civiltà, che figura al cuore della sua più specifica interpretazione del Novecento e che forse racchiude il «segreto» del quindicennale arresto temporaneo di A Study of History tra 1939 e 1954 (Tagliaferri 2002, 93 sgg). Qui, alla considerazione dei conflitti economici e militari scatenati dall’ascesa dell’Occidente si giustappone la constatazione del nucleo trans-rationalist comune a tutte le confessioni religiose. E che non casualmente corrisponde alla transizione cronologica dalla tempesta dei conflitti mondiali alla «età dell’oro» dello sviluppo postbellico. E’ però difficile negare che la prospettiva aperta da McNeill si muova lungo una traiettoria quasi antitetica a quella sviluppata da Toynbee: ecco la ragione vera e profonda dell’imbarazzo lamentato da Michael Lang. Le civiltà non replicano in tempi diversi la medesima parabola deterministica, proprio perché non vivono separate le une dalle altre: anziché confrontarsi nei momenti di svolta dello sviluppo storico, vivono di uno scambio permanente. Più che di imbarazzo, bisogna quindi parlare di opposizione concettuale e metodologica.
È probabile che al fondo di tale opposizione risieda una visione diversa della natura umana: negativa per Toynbee, secondo un tratto di ascendenza dostoievskjiana (without religion everything is allowed: senza la religione tutto è permesso) che si traduce in una lettura funzionalista unificante e normativa della realtà sociale, per fortuna disciplinata dalla fede metafisica. Mentre McNeill muove da una fiducia di fondo nell’uomo e nella sua innata curiosità: la virtù non necessariamente religiosa – Ulisse Dante lo mette pur sempre all’Inferno – che continua a spingerlo oltre i limiti, le regole, le uniformi, per trovare la conoscenza, l’innovazione, il potere.
Schematizzando davvero molto, l’evoluzione più recente della «storia mondiale» (adopero questo termine nella sua accezione più ampia e accogliente) può essere suddivisa in due fasi. La prima si raccoglie attorno alla fondazione del «Journal of World History» nel 1990, che sviluppa l’impostazione di McNeill soprattutto nel senso di un “paradigma antropologico” che rifiuta ogni eurocentrismo e teorizza l’esistenza di “modernità multiple”, ampliando il campo di indagine della storia in direzioni “esotiche” e solo raramente scegliendo la via di una comparazione diretta con il passato dell’Occidente. La seconda fase mette invece capo all’emergere della California School – legata tra gli altri al nome di Ken Pomeranz (Pomeranz 2004) e alla pubblicazione del «Journal of Global History» dal 2006 – e appare maggiormente legata a un «paradigma diffusionista», che sottolinea i flussi anziché i territori, le interazioni anziché le linee di confine, i fenomeni trasversali (commerci, scienza e tecnologia, migrazioni) anziché le identità e le appartenenze (Beonio Brocchieri 2007).
La World History dei nostri giorni eredita da Toynbee una ferma aderenza al valore empirico dei fatti e, salvo eccezioni, muove da un pregiudiziale scetticismo nei confronti di ogni prospettiva post-modernista o decostruzionista di riduzione del contesto oggettivo a testo soggettivo (Abu-Lughod 1995). E’ semmai interessata a restituire autonomia, dignità e spessore storico alle culture subalterne extraoccidentali e alla loro capacità di condizionare la vita quotidiana, i meccanismi economici, le relazioni di potere: secondo una direzione di ricerca non molto diversa da quella perseguita dagli studi post-coloniali (Chakrabarty 2004). L’attenzione alla differenza e alla pluralità ridimensiona tuttavia l’importanza di un punto che invece per Toynbee suonava come discriminante: l’unità del genere umano. Le scoperte della genetica storica (con il rilevamento dello stesso ceppo di Dna negli scheletri dei nostri progenitori riportati alla luce nei diversi continenti della Terra) hanno tolto rilevanza problematica alla questione, confortando l’opinione espressa da Toynbee, ma senza per questo cancellare dalla cronaca fenomeni di razzismo sempre risorgenti (Cavalli Sforza 1997). Di fatto però oggi si è più attenti alla diversità che non alla somiglianza: l’interazione tra ambienti naturali e gruppi umani – punto di partenza analitico per Toynbee – nel corso del tempo sedimenta evoluzioni culturali in grado di condizionare (e quindi diversificare) i comportamenti. Argomento su cui spesso insiste Pomeranz, la comparazione tra civiltà deve svolgersi necessariamente «a doppio senso di marcia» (a two-way traffic), senza presupporre regole ed eccezioni, modelli dominanti e deviazioni o ritardi. Rinunciando, in altre parole, ad assumere la modernità occidentale come criterio per giudicare gli altri.
È evidente che tale tendenza al riequilibrio trae alimento dal nostro presente: dalla prepotente crescita industriale di paesi asiatici che seguono traiettorie di sviluppo economico e civile diverse da quelle di Europa e nord America, così come dalla conseguente crescita delle conoscenze relative al loro passato. Può sembrare un’ironia della storia, ma oggi sembra tornare d’attualità un’atmosfera culturale da declino dell’Occidente (almeno allo stadio di ipotesi circa il futuro manifatturiero prossimo venturo) assai diversa da quella che influenzava gli esordi di McNeill e più vicina a quella che condizionava il lavoro di Toynbee.
Categorie indifferenziate nello spazio e nel tempo – come quella di «dispotismo orientale», a suo tempo coniata da Wittfogel (Wittfogel 1968) e largamente debitrice a Toynbee – vengono progressivamente sostituite da indagini dettagliate che svelano differenze (Goldstone 2010, 146).
La restituzione di complessità al mondo orientale rappresenta solo una delle evoluzioni della World History. E’ infatti interessante notare come a distanza di tempo – un tempo che riflette l’affermarsi della storia sociale negli ambiti più generali delle scienze storiche – McNeill critichi l’idea di civiltà da lui stesso utilizzata nel suo testo più celebre, The Rise of the West (McNeill 1983), in quanto eccessivamente centrata sui manufatti monumentali e sugli stili architettonici (e quindi eccessivamente omogenea). Postulare le civiltà come attori unitari e coerenti significa eludere la questione di fondo su cosa consenta a un villaggio rurale di identificarsi con la civiltà entro la quale gli storici sono abituati a incasellarlo. In opere successive McNeill fornisce a tale domanda risposte diverse, anche se complementari, mutuate da altri ambiti delle scienze sociali (in primo luogo antropologia e sociologia): da un lato, la condivisione dal basso di significati e di comportamenti individuali e collettivi racchiusa in pratiche anche precedenti al linguaggio, come la danza, dall’altro l’adesione indotta dall’alto a un insieme di norme morali contenute in testi più o meno sacri e sedimentate in istituzioni capaci di imporre e suscitare obbedienza (McNeill 1995). Sarebbe eccessivo e scorretto sostenere che nel secondo McNeill la ritualità e la religione (e Toynbee, con esse) cacciate dalla porta, rientrino dalla finestra. L’accezione di esse utilizzata è infatti essenzialmente antropologica piuttosto che etica: nasce dal dentro degli individui e dal basso delle collettività umane legandosi a contesti locali specifici, anziché discendere da principi universali, prodotti intellettuali di élite creative. Il punto (ribadito) è che le civiltà non possono essere considerate stili di vita uniformi: sono complessi «confusi e contraddittori» (confused and contradictory) e proprio il principio della loro comunicazione reciproca – che McNeill pone alla base del suo approccio alla storia universale – genera conseguenze che non sono mai uguali e che quindi non possono mai configurare delle leggi di carattere evolutivo (McNeill 1998).
Tuttavia c’è sempre un però. E in questo caso si chiama Samuel P. Huntington. Nel coro di entusiasti che accompagna il collasso del comunismo sovietico e la presunta nuova ascesa dell’Occidente destinata a succedergli, la voce preveggente del politologo americano si leva isolata a mettere in guardia dal pericolo che le religioni prendano il posto delle ideologie novecentesche (fascismo, comunismo …) supplendone il ruolo di corazze identitarie assolute ed esclusive (Huntington 1997). Ecco che Toynbee torna ad incombere su di noi. Non più nei panni pittoreschi dello zio imbarazzante ma in quelli ben più inquietanti del profeta di sventure. La religione, che la modernità secolarizzata dell’Occidente vincitore della guerra fredda aveva pensato di relegare per sempre nella soffitta della storia, riemerge a dettare nuove linee di faglia dello scacchiere geopolitico. E’ chiaro a tutti che gli eventi successivi all’allarme di Huntington hanno dato ampiamente ragione a lui e motivi di rivincita (di cui sarebbe però molto preoccupato, c’è da scommetterci) a Toynbee. Altro che dodo (l’uccello estinto delle isole Mauritius) cui lo aveva paragonato tempo addietro in modo sprezzante e sbagliato (come purtroppo non di rado gli capita) Trevor Roper (Trevor Roper 1989)!
Toynbee dunque non si estingue e anzi rimane una presenza «imbarazzante» (nel senso positivo e provocatorio del termine) nel dibattito delle scienze sociali. Per due motivi: il primo è che la sua lettura delle religioni come collante identitario mette in discussione visioni troppo rigide e deterministiche del processo di modernizzazione come automatica «eclissi del sacro». In ogni società occidentale sopravvive una religiosità diffusa, variamente e debolmente affiliata a istituzioni ecclesiastiche ma comunque espressione e canale di spinte morali altruistiche – si pensi anche alla parallela espansione del volontariato no-profit – non pienamente rappresentate da movimenti e organizzazioni politiche.
Il secondo motivo è strettamente legato al primo: una lettura dell’identità religiosa come fattore perdurante ma non esclusivo né direttamente pubblico vale anche fuori del mondo occidentale. Come gli svolgimenti successivi alle primavere arabe del 2011 dovrebbero aver reso più chiaro, gli attacchi terroristici di matrice islamista hanno aperto, piuttosto che uno scontro di civiltà, una feroce battaglia interna al mondo musulmano tra appartenenze settarie (sciti e sunniti), leadership laiche, gioventù urbana istruita, masse rurali. E’ un conflitto che difficilmente potrebbe rientrare nella categoria toynbiana di «proletariato interno» (internal proletariat), proprio perché la religione non è appannaggio esclusivo di una fazione – nessuno degli oppositori dei Fratelli Musulmani si dichiara ateo o non credente – e molte delle resistenze all’egemonia del progetto islamista nascono da questa rivendicazione di libertà religiosa piuttosto che da una adesione secolarizzata alla cultura occidentale. Come mostra Laura Di Fiore, l’analisi toynbiana del mondo islamico restituisce comunque tale complessità e appare ancora di grande attualità nel focalizzare l’opposizione irrisolta tra «zeloti» ed «erodiani» (che oggi forse definiremmo «fondamentalisti» e «modernizzatori») (Di Fiore 2010).
Per concludere è difficile che i World historians di oggi possano condividere l’auspicio toynbiano di «un’unica società mondiale e […] una cultura mondiale uniforme che prenderà forma dapprima all’interno di una cornice occidentale» (a single world society and a uniform world culture that will first take shape within a Western framework – Toynbee 1954-1955, II/3, 348). Il futuro prossimo appare piuttosto sotto una forma assai più multipla ed eterogenea, entro la quale la modernità occidentale rappresenta solo uno degli attori in gioco: mai dominante sul piano demografico e religioso, da poco detronizzato sul piano manifatturiero, ma ancora prevalente sul piano scientifico e tecnologico.
Paradossalmente – ma non più di tanto, se si prende sul serio l’invito alla comparazione reciproca che viene dalla World History – il medesimo ordine di considerazioni potrebbe applicarsi al processo di unificazione europea. Anche in questo caso occorre rendere giustizia a Toynbee: se non allo storico, almeno al moralista politico che auspicava la mediazione tra liberalismo e socialismo, l’Europa riunificata dalla religione cristiana, il governo mondiale (Toynbee 1949, 45). Stigmatizzate fino a non molto tempo fa come, appunto, eschatological sermon, quelle nobili petizioni di principio hanno acquisito rapidamente carattere di urgenza e necessità: ferme restando ovviamente le enormi difficoltà di applicazione concreta. Anche soltanto per governare fenomeni globali come l’inquinamento o la finanza, diventa indispensabile pensare ad autorità più grandi degli stati nazionali. E tuttavia una tale autorità più grande non appare come il frutto ipotetico di una convergenza culturale (sul tipo di quella immaginata da Toynbee) bensì come la frontiera tuttora inesplorata di una nuova politica globale, ancora tutta da costruire.
Non per caso, qualche anno fa il dibattito sull’inclusione o meno delle «radici cristiane» nella costituzione dell’Unione Europea ha visto nuovamente in campo gli argomenti (contrari) delle divisioni non di rado sanguinose che hanno travagliato i diversi cristiani del vecchio continente così come della natura privata e non immediatamente pubblica del fatto religioso. La parte di mondo che in modo più continuo e devastante si è combattuta nel corso dei millenni, acquisendo per tale strada una specializzazione militare che le è valsa a lungo il dominio coloniale del pianeta, cerca di costruire un modello di convivenza pacifica contro il proprio stesso passato. Una federazione che, per la prima volta, non passi dal predominio violento di una parte sulle altre ma si fondi sull’inclusione regolata e democratica delle differenze. La World History (e tutta la storia in generale) nega che questo sia possibile. Sia finora stato possibile. Forse l’eredità migliore (più utile ed attuale) di Toynbee risiede proprio in questo scarto: tra lo studioso e il politico, tra il passato e il futuro, tra la conoscenza scientifica e il suo impiego utopico. Tra l’analisi di ciò che è stato e l’immaginazione di ciò che potrebbe essere (Rich 2000).
Toynbee, McNeill e la storiografia italiana
Dopo queste considerazioni generali, eccoci alla seconda parte delle nostre riflessioni. Quale è stata la fortuna di Toynbee, di Mc Neill, della prima World History in Italia?
La risposta sembrerebbe relativamente facile: fino a tempi molto recenti (la svolta del millennio) di fortuna non si può proprio parlare.
Partiamo da Toynbee. Durissima fu l’accoglienza riservata nel 1947 ai primi volumi della sua monumentale A Study of History da Benedetto Croce: «questo libro del Toynbee (contrariamente alle parole del titolo) non è un libro di storia, ma uno dei tanti prodotti sociologici, una “sociologia delle civiltà”, con la pretesa di offrire le leggi del loro nascere, crescere e morire». E’ dunque una pseudostoria, dalla cui lettura «par ci sia da apprendere poco» (Croce 1947, ma più in generale Croce 1943). Croce echeggiava la liquidazione che delle riflessioni toynbiane aveva fatto qualche anno prima Lucien Febvre (1936). Con estrema durezza Febvre aveva parlato di ascension d’un nouveau prophète («ascesa di un nuovo profeta» – Vivanti 1966, come le seguenti traduzioni di questa recensione) e aveva incitato a résister à la séduction du magicien («resistere alla seduzione del mago»), per concludere: rien là pour nous; rien qui ait rapport avec notre travail, rapport avec nos préoccupations et nos méthodes… Ce que A Study of History nous apport de louable n’a pas grand chose de neuf pour nous et ce qui nous apporte de neuf ne vaut pas grand chose pour nous («non c’è niente per noi, nulla che abbia a che fare con il nostro lavoro, le nostre preoccupazioni, i nostri metodi… Ciò che A Study of History ci reca di buono non ha molto di nuovo per noi; e ciò che ci porta di nuovo non vale un granché per noi».
Come non prevedere che simili accoglienze avrebbero pesantemente condizionato la circolazione dell’opera toynbiana entro la cultura italiana (ed europea…)?
E infatti poche, pochissime – e spesso poco più che descrittive – saranno le recensioni dei volumi toynbiani nelle riviste storiche italiane del dopoguerra. Certo, c’è qualche – pur significativa – eccezione, ma solo se guardiamo all’ambito filosofico: netta sin dall’inizio l’attenzione e l’apprezzamento per la filosofia della storia toynbiana da parte di Pietro Rossi, cui si doveva una documentata prefazione a Panorami della storia (Toynbee 1954/I, IX-XXIV), preceduta da un’attenta analisi dei primi volumi della History (Rossi 1952). Un interesse, quello di Rossi per Toynbee, che l’accompagnerà per tutta la sua lunga carriera di studioso (vedi Rossi 2012).
Che dal mondo dei filosofi e non degli storici sarebbe venuto per un lungo periodo l’interesse per l’opera toynbiana lo conferma una lettera (inedita) conservata presso gli archivi della Bodleian Library di Oxford: Enzo Paci (docente a Milano di filosofia teoretica) scriveva il 6 giugno 1968 a Toynbee comunicandogli che la casa editrice Il Saggiatore era interessata a ripubblicare Panorami della storia (traduzione del primo volume della History, edito nel 1954-55 da Mondadori), per poi procedere alla traduzione integrale dei successivi volumi di A Study of History (Paci 1968). Toynbee accolse molto favorevolmente la proposta, che però non si realizzò.
Ma che i filosofi milanesi guardassero con grande interesse all’opera toynbiana è confermato nel 1977 dal coinvolgimento di Davide Bigalli (docente di storia della filosofia) nella traduzione di Mankind and Mother Earth (Toynbee 1977) e dalla pubblicazione alla fine degli anni ottanta da parte di Maria Vittoria Predaval Magrini (docente a Milano di storia della storiografia filosofica) di due importanti saggi sul metodo comparativo toynbiano (Predaval Magrini 1979 e 1980).
E tuttavia – a guardare alle edizioni italiane, ai curatori, ai traduttori della opere toynbiane – la situazione è forse meno negativa di quanto non paia. Certo, i dodici volumi di A Study of History attendono ancora oggi una traduzione integrale, ma sin dal 1949 (due anni dopo la stroncatura crociana) Bompiani, Einaudi e Mondadori avviavano la circolazione italiana dell’opera di Toynbee.
Anche la scelta dei traduttori la dice lunga – non solo sulle difficoltà che allora e poi incontreranno tutti coloro che si avvicineranno alla complessa scrittura toynbiana (Camassa 1981, XV)– ma anche sul valore che il mondo dell’editoria riconosceva a Toynbee e alla sua indagine sulle civiltà. Cesare Pavese e Charis Cortese De Bosis traducevano per Einaudi Le civiltà nella storia, Giuseppe Paganelli e Amina Pandolfi Civiltà al paragone per Bompiani e Glauco Cambon elaborava – oltre alla tempestiva traduzione di The World and the West, libro destinato a durevole fortuna (Toynbee 1956) – l’unica versione italiana ad oggi esistente del primo volume di A History.
Nel febbraio 1947 Pavese scriveva ad Antonio Giolitti a proposito di Toynbee: «Ricchissimo repertorio di metodologia interpretativa della storia – qualcosa come le Weltgeschichtliche Betrachtungen di Burckhardt […] Non mancano vertiginosi accostamenti […] È un libro che si raccomanda caldamente. Serve a svecchiare il sonno idealistico degli storici italiani» (Pavese 1966, 115). Einaudi doveva, secondo Pavese, farsene carico.
Anche Delio Cantimori (consulente per la storia della casa editrice torinese) sembrava all’inizio d’accordo: «È sempre un gran bel libro. Se non c’è altri, e se il traduttore è valente, la prefazione la faccio io», salvo progressivamente farsi più critico ed arrivare a parlare di «schemi pesudoscientifici» (Mangoni 1999, 458 e 652). Ma Pavese alla fine la spuntava e sua era la traduzione delle prime 400 pagine di Le civiltà nella storia, edito da Einaudi nel 1950. Veniva affiancato nel lungo lavoro di traduzione da Charis Cortese De Bosis (figlia di Adolfo De Bosis e di Lilian Vernon, sorella di Lauro De Bosis, protagonista nel 1931 del “volo su Roma” e madre dell’ambasciatore Alessandro Cortese De Bosis), assai attiva traduttrice di opere filosofiche e storiche (cfr. Rostovtzeff 1971).
A Glauco Cambon (1921-1988), uno dei maggiori esperti dell’opera e della poetica di Eugenio Montale, professore di italiano alla Rutgers University (1961-1969) e all’Università del Connecticut (1969-1988), traduttore in inglese di Dante, Foscolo, Vico, Montale, si deve la prima (e unica) traduzione italiana del volume introduttivo della History toynbiana.
Bompiani batteva sul tempo Einaudi e Mondadori pubblicando nel 1949 la traduzione di Civilization on Trial (Civiltà al paragone) grazie a Giuseppe Paganelli (1893-1973), antifascista, saggista e traduttore, meglio noto con lo pseudonimo di Giuseppe Aventi, e di Amina Lezuo Pandolfi (morta il 24 aprile 2007), attivissima traduttrice dal tedesco e dall’inglese per Mondadori (soprattutto), Garzanti, Longanesi, Rusconi.
E tuttavia, dopo queste prime impegnative traduzioni – che passavano purtroppo largamente sotto silenzio nella storiografia italiana (come ricordato, poche o nulle le recensioni, nessuna discussione nel merito delle proposte interpretative dello studioso inglese), bisognava attendere gli anni settanta e ottanta per assistere alla scoperta – questa volta – del Toynbee antichista, cui nessuno si sognò di negare la qualifica di storico tout court. Il mondo ellenico, L’eredità di Annibale, Costantino Porfirogenito e il suo mondo trovarono questa volta estimatori (e recensori) del calibro di Arnaldo Momigliano e di Emilio Gabba, di Mario Attilio Levi e di Santo Mazzarino (Segenni 2016).
I traduttori furono cercati questa volta fra i “tecnici”: Ugo Fantasia, Giorgio Camassa e Mario Lombardo (tutti docenti di storia greca, rispettivamente a Parma, Udine e Lecce) per la traduzione di Hannibal’s legacy; Mario Stefanoni, curatore e traduttore per Garzanti di classici latini per la scuola, per Constantine Porphyrogenitus and his World.
Solo con gli anni novanta e la ripubblicazione, nel 1993, di Il mondo e l’Occidente (con l’importante introduzione di Luciano Canfora) gli storici italiani cominciarono ad interessarsi seriamente a Toynbee: nel 1993 Gianpasquale Santomassimo dedicava al volume un ampio (e assai critico) saggio, a dimostrazione che il ritorno di interesse non equivaleva all’apprezzamento dell’opera (Santomassimo 1993). Due anni prima lo stesso Santomassimo aveva recensito non benevolmente la biografia toynbiana di McNeill (Santomassimo 1991).
Ma con il nuovo secolo la situazione subiva un radicale cambiamento. L’interesse crescente per la World History e per gli orientamenti storiografici ad essa connessi, spingeva anche gli storici italiani a confrontarsi – questa volta con ampiezza di prospettive e risultati – con Toynbee e la storiografia di impianto mondialista.
Toynbee e con lui William McNeill trovano così finalmente anche nella storiografia italiana ascoltatori ed interpreti attenti ed originali. Fra gli altri, Luca Castellin (Castellin 2010, 2011), Teodoro Tagliaferri (Tagliaferri 2002, 2003, 2005, 2012), Federico Leonardi (Leonardi 2014), Laura Di Fiore (Di Fiore 2010, 2015), Luca Maggioni (Maggioni 2013) con le loro monografie dedicate a Toynbee e – più limitatamente – a McNeill, se non favoriscono nuove traduzioni né – salvo rari casi – riedizioni di testi già tradotti, creano un terreno favorevole alla circolazione soprattutto di alcune delle opere pionieristiche di McNeill (Leonardi, Maggioni 2015).
Ma anche in questo caso le fortune editoriali sono incerte: della trentina di opere storiografiche di ampio respiro che Mc Neill è venuto pubblicando dagli anni cinquanta alla morte (2016), solo cinque hanno conosciuto una traduzione italiana (e non sempre presso grandi editori), dando quindi all’opera di McNeill una visibilità anche più limitata di quella di toynbee. Mai tradotta ad esempio l’opera più famosa e discussa di McNeill: The Rise of the West. A History of the Human Community (McNeill 1963). A conferma di una presenza ancora poco significativa di McNeill nel dibattito storiografico italiano, nessuna recensione di un qualche spessore è comparsa nelle maggiori riviste storiche degli anni settanta-novanta delle sue opere in originale e/o in traduzione. Anche la scomparsa del fondatore della Chicago School e del «Journal of World History» è passata sotto silenzio nella stampa italiana (non molto diversamente da quanto capitato a Toynbee nel 1983, peraltro).
Le traduzioni delle opere di McNeill vengono volta a volta affidate a traduttori esperti in ambito storico (è il caso di Raffaele Petrillo [Petrillo 2012], di Susanna Delfino e di Laura Montixi Comoglio), ma anche a traduttori più a loro agio nell’ambito della letteratura contemporanea (Guido Lagomarsino e Laura Dalla Rosa).
Concludendo, anche queste limitate considerazioni sulla circolazione editoriale in traduzione di fondamentali contributi della prima World History in Italia, ci rivelano quanto sia stato problematico l’avvicinamento alle nuove correnti storiografiche da parte del mondo della ricerca storica italiana (Di Fiore, Meriggi 2011).
La World History tende ad articolare la dimensione comparativa in chiave intercontinentale, attorno a temi la cui irradiazione non si arresta, evidentemente, ai confini della penisola italiana, e neanche dell’Occidente, offrendo l’occasione di confrontarsi a fondo con strumentari concettuali diversi da quelli invalsi nel proprio circoscritto orticello nazionale; e, in particolare a chi si occupa di storia europea (la “culla” dell’etnocentrismo eurocentrico), impone di riflettere sulla natura storicamente determinata degli apparati categoriali che – pur ovviamente nel contesto di una permanente metamorfosi dei loro usi – accompagnano l’avventura intellettuale della storiografia occidentale sin dal momento iniziale della sua consacrazione scientifica.
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1954-1955: Panorami della storia, pref. di Pietro Rossi (pp. IX-XXII), Milano, Mondadori «Biblioteca contemporanea Mondadori», 1954 (vol. I e II/1)-1955 (vol. II/2 e II/3) (tr. it. di Glauco Cambon da A Study of History, vol. I, London, Oxford University Press, 1934 [II ed. 1935]. Questa edizione traduce in effetti solo il primo volume di A Study of History, così ripartendolo: vol. I: Introduzione (ed. or. Introduction. The Genesis of Civilizations); vol. II/1: Genesi delle civiltà (ed. or. The Genesis of Civilizations); vol. II/2: Genesi delle civiltà (ed. or. The Genesis of Civilizations); vol. II/3: Genesi delle civiltà (ed. or. The Growth of Civilizations)
1956: Il mondo e l’Occidente, nota introduttiva e unica traduzione autorizzata di Glauco Cambon, Milano, Aldo Martello, da The World and the West, Six talks broadcast on the B.B.C. originally published in «Listener», 20 November to 25 December 1952, London, Oxford University Press, 1953 (traduzione ripubblicata nel 1993 da Sellerio editore, Palermo, con introduzione di Luciano Canfora)
1964: L’urto tra i padri e i figli, prefazione di Gian Carlo Vigorelli, Milano, Nuova Accademia (tr. it. di Gian Franco Venè con la collaborazione di Galeazzo Santini, da Comparing Notes. A Dialogue across a Generation, by Arnold and Philip Toynbee, London, Weidenfeld & Nicolson 1963)
1967: Il mondo ellenico, Torino, Einaudi «Piccola Biblioteca Einaudi» (tr. it. di Ginetta Pignolo da Hellenism. The History of a Civilization, New York, Oxford University Press, 1959 (riedizioni nel 1970, 1974, 1977, 1981)
1972: La città aggressiva, Bari, Laterza «Biblioteca di cultura moderna» (tr. it. di Elena Clementelli da Cities on the Move, London, Oxford University Press, 1970: traduzione ripubblicata nel 2015 dalle Edizioni Ghibli, Milano)
1974: Storia comparata delle civiltà, Roma, Newton Compton «Paperbacks storici», 3 voll. (ripresa della traduzione Einaudi, col titolo Civilità nella storia, di Cesare Pavese e Charis Cortese De Bosis del 1950, con l’aggiunta di quella di Massimo Negri dal cap. XXIII alla fine di A Study of History. Abridgement of vols I-X by D. C. Somervell, London, Oxford University Press, 1946-1957, 2 vols)
1977: Il racconto dell’uomo. Cronaca dell’incontro del genere umano con la madre terra, Milano, Garzanti «Il corso della storia» (tr. it. di Davide Bigalli da Mankind and Mother Earth. A narrative history of the world, New York-London, Oxford University Press, 1976). Ripubblicato nel 1978, 1981, 1987, 1992, 2000, 2009, prima nella «Nuova collana storica», poi nella collana «Gli Elefanti Storia»; è comparso nel 1988 anche per il Club degli Editori, Milano
1981-1983: L’eredità di Annibale. Le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana, Torino, Einaudi «Biblioteca di cultura storica», 2 voll. (ed. or. Hannibal’s Legacy. The Hannibalic War’s effects on Roman life, 2 vols, London, Oxford University Press, 1965: 1. Roma e l’Italia prima di Annibale, ed. italiana a cura di Giorgio Camassa, trad. di Anna Bassan Levi, Mario Lombardo, Ugo Fantasia e Giorgio Camassa, 1981 (ed. or. Rome and Her Neighbours before Hannibal’s Entry); 2. Roma e il Mediterraneo dopo Annibale, ed. italiana a cura di Ugo Fantasia, bibliografia e aggiornamenti bibliografici a cura di Giorgio Camassa, trad. di Fausto Codino, Ugo Fantasia e Mario Lombardo, 1983 (ed. or. Rome and Her Neighbours after Hannibal’s Exit)
1984: Storia e religione, Milano, Rizzoli (tr. it. di Luisa Fenghi da An Historian’s Approach to Religion, «The Gifford Lectures», 1952-1953, London, Oxford University Press, 1956)
1987: Costantino Porfirogenito e il suo mondo, Firenze, Sansoni «Biblioteca storica (tr. it. di Mario Stefanoni da Constantine Porphyrogenitus and His World, London, Oxford University Press, 1973 (ripubblicato a Milano dalle Edizioni Ghibli nel 2019)
1988: (con Ikeda Daisaku) Dialoghi. L’uomo deve scegliere, Milano, Bompiani (tr. it. di Daniela Sagramoso da The Toynbee-Ikeda Dialogue. Man himself must choose, ed. by R. L. Gage, London, 1976) Nuova edizione nel 2000
1999: La vita della donna in altre epoche, in «Italia contemporanea», n. 216, sett. 1999, pp. 418-442 (tr. it. di Penelope J. Corfield e Paolo Ferrari da A Woman’s Life in Other Ages, un inedito del 1969 conservato fra i Toynbee Papers della Bodleian Library di Oxford)
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