Le traduzioni italiane di Serge Gruzinski

STORIA DELLA STORIOGRAFIA ED ESPERIENZA DIRETTA

di Maria Matilde Benzoni

Nel 2015, in occasione del XXII Congresso mondiale organizzato dal Comitato internazionale di scienze storiche (Comité international de sciences historiques), tenutosi per la prima volta in Cina, lo studioso francese Serge Gruzinski, storico del Messico e delle Americhe iberiche e, per questa via, della mondializzazione e dei processi di globalizzazione nella prima età moderna, ha ricevuto il primo International History Prize del CISH: un riconoscimento di rilievo, conferito significativamente a Jinan, una delle innumerevoli metropoli di un paese che giganteggia nel mondo globalizzato contemporaneo (CISH 2015).

Oggi professore emerito del Centre national de la recherche scientifique (CNRS) e dell’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), grazie a un’attività di ricerca e di docenza dal profilo cosmopolita, a partire dagli anni ottanta Gruzinski ha in effetti offerto un contributo organico e particolarmente originale allo studio del mondo iberoamericano e delle sue interazioni globali (Benzoni 2012, 79-94), articolandolo in una produzione scientifica che coniuga la storia all’antropologia nel dialogo con il tempo presente e i suoi molteplici linguaggi.

Per simile tratto felicemente ibrido, e grazie alle traduzioni in spagnolo, inglese, tedesco, portoghese e, più di recente, cinese, gli studi di Gruzinski – da La colonisation de l’imaginaire (1988) a Les quatre parties du monde (2004), da L’histoire, pour quoi faire? (2015) e La machine à remonter le temps (2018) – hanno saputo raggiungere un pubblico accademico mondiale, suscitando un’attenzione trasversale tra gli antropologi, gli specialisti delle storie d’area e di altre discipline umanistiche, a partire dalla storia delle religioni e dalla storia dell’arte, cui, nel tempo, si è aggiunta l’attenzione del mondo dei musei e della formazione degli insegnanti, con particolare riferimento alla didattica della storia globale.

Com’è noto, Gruzinki ha restituito agli indios – termine coloniale che riduce a unità, attribuendogli un’origine esotica, un mondo amerindiano di straordinaria complessità linguistica e culturale – il ruolo di attori storici a tutto tondo inseriti loro malgrado in un sistema di dominio che ha imposto ai vassalli extraeuropei dei sovrani spagnoli, contestualmente instradati verso la cristianizzazione, l’adozione di complesse pratiche di negoziazione interculturale attraverso le quali la pittografia ha incontrato la scrittura alfabetica; le memorie e i saperi indigeni sono stati selettivamente integrati nelle cornici di conoscenza europee; le cosmovisioni native sono entrate in relazione con il cristianesimo – della Riforma cattolica e della Controriforma – e il Barocco; i sistemi di organizzazione politico-amministrativa ed economica amerindiani sono stati rimodulati nel quadro plurale dell’Antico regime iberico; le tecniche e le forme espressive preispaniche si sono intrecciate con le arti, l’architettura e la musica europee…

Superando gli steccati che hanno a lungo diviso gli studiosi delle Americhe iberiche da quelli dell’America britannica, Gruzinski ha inoltre restituito al mondo americano della prima età moderna un profilo emisferico, evidenziando le interazioni tra gli iberici, una galassia di attori europei in competizione con questi e tra loro, e un universo nativo sempre cangiante, inserito in un contesto naturale non meno diversificato destinato a incidere, per le sue variegate caratteristiche ambientali, sui tempi e le forme della costruzione degli imperi e degli insediamenti europei oltre Oceano (Bernand, Gruzinski 1991, 1993).Con vigile distacco tanto nei confronti del retaggio del discorso ispanofobo della leyenda negra quanto verso quello del discorso encomiastico della leyenda rosa ispanoamericana, egli ha altresì fatto riemergere in chiave interculturale e multidimensionale il protagonismo globale della monarquía hispánica nei lunghi decenni dell’Unione delle corone iberiche (1580-1640). E’ venuto così stagliandosi alla superficie della storia un organismo gigantesco e policentrico, punteggiato di «città mondo», multietniche e multilinguistiche – Città del Messico, Lima, Goa, Macao, e in qualche misura la stessa Nagasaki nel quadro del «secolo cristiano» del Giappone – dalle quali, come da Siviglia, Madrid e Lisbona, nella prima età moderna è stato possibile «pensare il mondo» secondo una dialettica «locale-globale» cui sono sottese temporalità e memorie culturali composite e stratificate. E dinamiche analoghe, si può aggiungere, si sono manifestate nell’Italia sottoposta alla «preponderanza spagnola», ove la vocazione planetaria della monarquía hispaníca è stata oggetto di riflessione a distanza e di vivida esperienza diretta (Benzoni 2015a). Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, a Le relazioni universali di Giovanni Botero e ai Ragionamenti di Francesco Carletti (Benzoni 2012, 97-166).

Lo studioso francese ha in effetti conferito centralità al Rinascimento italiano e ai saperi e le reti globali dell’Italia della prima età moderna nel quadro dei processi di mondializzazione e della prima globalizzazione e ha sostanzialmente rimodulato il profilo dei popoli amerindiani dopo l’invasione europea anche attraverso lo scavo negli archivi italiani (Gruzinski 1988; Bernand, Gruzinski 1991; Gruzinski 1999; Gruzinski 2004). Nel nostro paese la sua proposta interpretativa dal respiro interculturale e virtualmente planetario non ha tuttavia suscitato fino a tempi recenti un interesse sistematico negli storici dell’età moderna, data l’eccentricità, nel senso letterale del termine, rispetto agli orizzonti della ricerca nazionale, fino alla fine del Novecento prevalentemente orientata entro i confini dell’Europa e il Mediterraneo. Ovviamente con significative eccezioni. Si pensi, in primo luogo al cantiere di ricerca ispanoamericano aperto da Francesca Cantù a partire dagli anni settanta. Vi sono poi, naturalmente, gli studi dei latino-americanisti italiani relativi all’età coloniale.

Le opere di Gruzinski hanno pertanto conosciuto in Italia una circolazione in lingua originale dall’andamento carsico, suscitando nondimeno un comprensibile interesse della prima ora sia negli antropologi sia negli storici delle religioni, per la familiarità con i meccanismi profondi dei fenomeni esaminati dallo studioso francese   in relazione al Messico coloniale: a partire da Clara Gallini, Italo Signorini e Vittorio Lanternari con i quali egli ha stabilito un legame diretto tra gli anni settanta e gli anni ottanta.

Proprio simili rapporti con il mondo accademico italiano, e l’occasione del quinto centenario della «scoperta» dell’America nel 1992, hanno favorito dall’inizio degli anni novanta la traduzione in italiano di alcune opere coeve di Gruzinski: da La guerre des images. De Christophe Colomb à Blade Runner, 1492-2019 (Bellomo 1991) a Le destin brisé de l’empire aztèque (Sassi 1994). Come segnalato dall’autore, è invece nato in Italia il progetto del volume Gli uomini-dei del Messico. Potere indiano e società coloniale, XVI-XVIII secolo (Gruzinski 1987a), edito però prima in Francia (Gruzinski 1985).

Intorno al 1992, è tuttavia La colonisation de l’imaginaire (Gruzinski 1988) a suscitare un notevole interesse in alcuni universitari italiani avviati agli studi storici, e diventati via via allievi di Gruzinski all’EHESS: Duccio Sacchi, Raffaele Moro, Alessandra Russo – oltre a chi scrive – oggi attivi in Italia e nelle Americhe, ognuno vivamente colpito, in sintonia con le rispettive domande di ricerca, da una pratica storiografica orientata verso lo studio di spazi e universi antropologici, politici, socio-economici, religiosi e culturali per molti versi esterni al perimetro della storia europea, ma pur sempre a essa organicamente legati. Una pratica di ricerca capace di restituire la complessità dei mondi del multietnico e multilinguistico Antico regime ispano e iberoamericano in cui si avvertono la lezione, influente nella formazione di Gruzinski, di Pierre Goubert, un’ampia cultura antropologica, l’incontro con la vision des vaincus, «la visione dei vinti» di Nathan Wachtel (1971), e la scoperta della microstoria di Carlo Ginzburg, avvenuta durante un lungo periodo di ricerca in Italia negli anni settanta. Tale strumentazione concettuale e metodologica risulta altresì corroborata dalla intensa frequentazione, resa possibile da un pluriennale soggiorno messicano, con l’antropologia e la storiografia latino-americane del Novecento.

Si tratta di una visione del mestiere di storico che sottende la valorizzazione del tratto schiettamente indiziario della ricerca, l’invito a «fare storia» in autonomia, a partire da temi e corpora documentari sottorappresentati o ignorati, la sfida della messa a punto di una scrittura organica, capace di coniugare, da un lato, la restituzione dei risultati delle proprie indagini con la narrazione tout court, e, dall’altro, la riflessione sulle «categorie» con il dialogo con il presente. A ciò si aggiunga la consuetudine di Gruzinski di trasfondere nei propri volumi l’esperienza diretta di luoghi e società legati all’oggetto di studio, e di costruire i libri nel quadro del seminario Cultures et sociétés de l’Amérique coloniale tenuto presso l’EHESS. Da decenni, i partecipanti – allievi, frequentatori, colleghi, studiosi stranieri invitati – contribuiscono così a un processo creativo che ha arricchito e continua ad arricchire tutti i soggetti coinvolti grazie al confronto tra una pluralità di esperienze e sensibilità, intellettuali, storiografiche e culturali (Gruzinski 2021).

In simile cornice di relazioni accademiche transnazionali va inserita la traduzione italiana de La colonisation de l’imaginaire (Sacchi 1994), uscita presso Einaudi a cura di Duccio Sacchi con un’introduzione di Marcello Carmagnani, fondatore della latino-americanistica italiana quale disciplina accademica. Carmagnani tratteggia in tale sede un sintetico ed efficace profilo del contributo di metodo di Gruzinski, evidenziandone il rapporto costruttivo con l’antropologia storica, la sensibilità verso l’esame di nuove fonti, l’attenzione nei confronti del patrimonio americanistico italiano e il rifiuto della categoria di «destrutturazione» per descrivere l’impatto dell’invasione europea sulle società native a favore di quella di «adeguamento» a un nuovo ordine in cui gli indigeni si inseriscono nondimeno come soggetti storici, non senza sottolineare, naturalmente, il rilievo della transizione del mondo amerindiano dalla pittografia alla scrittura alfabetica. Una transizione, osserva Carmagnani, che «permise alle società indie non solo di produrre una memoria storica capace di essere trasmessa, senza la mediazione delle strutture mnemoniche, alle generazioni future, ma anche di adeguarsi al sapere giuridico e politico del mondo ispanico» (Carmagnani 1994, XIV).

Pur nella sua concisione, che rende forse un poco astratta la materia di un volume relativo a una dimensione imponente della storia del mondo amerindiano e del nascente Messico coloniale quale, appunto, «l’adattamento» delle popolazioni native al nuovo sistema di dominio spagnolo, l’introduzione di Carmagnani instrada il lettore universitario alla scoperta de La colonizzazione dell’immaginario. Sul piano traduttivo, nell’edizione italiana si registra l’adozione di una soluzione piuttosto aderente al cursus e al lessico dell’originale francese, con il risultato di conferire al libro una sorta di esotismo, nell’accezione attribuita al termine dalla linguistica.

Tale soluzione viene riproposta nell’edizione italiana, uscita nel 1995 sempre a cura di Duccio Sacchi, de De l’idolâtrie. Une archéologie des sciences religieuses, opera redatta a quattro mani da Gruzinski con l’antropologa Carmen Bernand (Bernand, Gruzinski 1988). Un volume ambizioso, che, indagando la presa di coscienza da parte degli spagnoli dell’alterità del mondo nativo, «che non poteva essere né soppressa né espulsa e con la quale occorreva scendere a patti» data la natura di liberi vassalli della corona riconosciuta ai popoli amerindiani assoggettati, aspira a superare l’isolamento dell’americanistica «e a ricollegarla alla storia dell’Occidente, della quale è il prolungamento naturale» (Bernand, Gruzinski 1988; Sacchi 1995, 4-5). E questa vena di esotismo, legata ancora una volta all’opzione di una traduzione aderente al testo di partenza, si ritrova per certi versi anche nel saggio dedicato ai «meticciaggi» edito, sempre nel 1995, all’interno della Storia d’Europa Einaudi (Sacchi 1995).

Pur non comparendo nei principali vocabolari della lingua italiana, il termine «meticciaggio» si presta allo scopo di includere la dimensione culturale propria dell’originale francese métissage. Tale calco figura in effetti nella letteratura delle scienze sociali in italiano degli anni successivi perché più calzante del termine «meticciamento», che, a rigore, copre solo la dimensione dell’intreccio biologico, e perché meno connotato di «meticciato», allora non ancora entrato in italiano nell’orizzonte di senso del francese métissage (culturel). A ben vedere, «meticciato» può alla fine del Novecento ancora evocare il razzismo e l’antisemitismo fascisti codificati nelle infami leggi razziali. L’aggettivo métisse, che nelle culture francofone ha una variegata tradizione, è invece all’epoca in auge in Francia, complice anche la riflessione dell’antropologo africanista Jean-Loup Amselle (19992), con il quale Gruzinski, che nel 1999 pubblica Pensée métisse, intrattiene un dialogo da un punto di vista storico.

Grazie alla soluzione traduttiva «meticciaggi», il saggio per la Storia d’Europa Einaudi traghetta così il lettore italiano verso le nuove prospettive di ricerca approfondite con successo nel quindicennio successivo da Gruzinski, che all’inizio del 2001 pubblica nelle «Annales» un articolo pionieristico sulla Spagna imperiale all’epoca dell’unione delle corone iberiche (1580-1640) nella prospettiva delle connected histories (Gruzinski 2001). Va ricordato che la categoria «connessioni» è centrale nelle riflessioni coeve di due studiosi significativi nel percorso di Gruzinski. Mi riferisco, rispettivamente, allo storico dell’India e dell’Oceano indiano nella prima età moderna Sanjay Subrahmanyam (1997) e al già citato antropologo Jean-Loup Amselle (2001).

A partire dal primo decennio del nuovo secolo, la consuetudine di alcuni storici italiani con i seminari di Gruzinski all’EHESS e l’intensificazione della frequentazione delle università italiane da parte dello studioso francese, favoriscono la discussione delle pratiche di una storia globale fatta di incontri e scontri, «meticciati» e «connessioni». Una storia globale concepita come tale a partire dagli echi di simili fenomeni in una pluralità di fonti e in una serrata dialettica con sempre distinti orizzonti di osservazione locale, con una forte attenzione alla dimensione soggettiva e il gusto per la tenace valorizzazione delle dinamiche interculturali.

Questi i tratti tipici de Les quatre parties du monde (Gruzinski 2004), volume in cui si dispiega il grande affresco della mondializzazione iberica, «una mondializzazione» all’interno dei processi di mondializzazione dell’età moderna, edito nel 2004 con un apparato iconografico di grande ricchezza, indice del rilievo attribuito da Gruzinski agli oggetti etnografici quali archivio e crocevia di interazioni globali, poi organicamente tematizzato nell’esposizione Planète métisse, tenutasi al Musée du Quay Branly a Parigi tra il 2008 e il 2009.

Complice anche l’impegno finanziario presupposto da una pubblicazione dotata di un corpus di immagini così ampio, Les quatre parties du monde attende ancora la traduzione in italiano, ma è stato presentato e discusso sin dal 2005 all’Università degli studi di Milano, imponendosi, a poco a poco, come un classico tra gli storici italiani più sensibili alle prospettive globali, tra i quali modernisti avviatisi alla disciplina «intorno» e dopo il 1992 e modernisti delle precedenti generazioni. Ancora una volta a titolo esemplificativo, si pensi, da un lato, a Giuseppe Marcocci, che è intervenuto nell’ambito del seminario parigino di Gruzinski, dedicato nel 2013 al tema Écriture de l’histoire et américanisation au XVIe siècle, e che ha curato per Carocci una selezione di scritti di Sanjay Subrahmanyam (2014). Dall’altro, si pensi ad Adriano Prosperi, che alle Americhe ha d’altra parte dedicato pagine molto penetranti sin dagli anni settanta (Prosperi 1976; Prosperi, Reinhard 1992; Prosperi 2011), e a Marco Meriggi, autore con Laura Di Fiore del volume World History. Le nuove rotte della storia (Meriggi, Di Fiore 2011), in cui si censisce anche il contributo italiano al dibattito sulla world history e la storia globale del decennio precedente. Un contributo nel quale si è distinta la rivista «Storia della storiografia» e che include il raccordo tra microstoria e storia globale proposto da Francesca Trivellato in un saggio edito nel volume Microstoria. A venticinque anni da L’eredità immateriale. Saggi in onore di Giovanni Levi (Trivellato 2011).

Nel complesso, tuttavia, in ambito modernistico, l’atteggiamento verso un ampliamento delle prospettive di ricerca in chiave interculturale e planetaria rimane per molti versi cauto. Si può aggiungere che ciò è comprensibile, se si tiene conto delle tradizioni di studi alle spalle, per fare qualche esempio, della Prima lezione di storia moderna di Giuseppe Galasso (2009),  ancora così organicamente e «naturalmente» eurocentrica,  e  di Parole nel tempo di Francesco Benigno (2013) ove il crocevia di interazioni intercontinentali di lungo periodo  è sostanzialmente associato al termine «Mediterraneo» nel solco dei filoni di ricerca nazionali che indagano gli spazi e gli attori istituzionali all’interno della monarquía hispánica, l’Italia spagnola, il ruolo internazionale della Chiesa di Roma. Si considerino, in questa prospettiva, i lavori di Aurelio Musi (2000, 2013 e 2017); i volumi curati da Francesca Cantù (2003, 2007a, 2007b, 2007c, 2008, 2009) e Maria Antonietta Visceglia (2013 e 2018) per Viella, ciascuna per suo conto o insieme (Cantù, Visceglia 2003); gli studi sulla Congregazione pontificia de Propaganda Fide di Giovanni Pizzorusso (2018) che fanno seguito a quelli con Matteo Sanfilippo sull’attenzione della Santa Sede verso le Americhe dalla fine del XV secolo all’inizio del Novecento (Pizzorusso, Sanfilippo 2005); nonché i saggi raccolti in Sabatini 2010 e in Broggio et al. 2017.

In ogni modo, nel 2014, l’apertura verso la dimensione globale della storia dell’età moderna è ormai tangibile in iniziative scientifiche nazionali di respiro quali il convegno organizzato da Michela Catto e Gianvittorio Signorotto dal titolo Milano, l’Ambrosiana e la conoscenza dei Nuovi Mondi (secoli XVII-XVIII) (Catto, Signorotto 2015) e il convegno, promosso dall’Istituto Gramsci, Storia d’Italia e storia globale, cui Gruzinski interviene con una relazione poi pubblicata sul «Giornale di Storia» con il titolo L’Italia nello specchio della storia globale (Gruzinski 2015b).

Sulla storia globale più generalmente intesa, permangano tuttavia anche significative perplessità di merito e di metodo. E’ il caso, sempre nel 2014, di Ernesto Galli della Loggia il quale non le nasconde in occasione dell’uscita del volume Il mondo globalizzato dal 1945 a oggi (Iriye 2014), che pur essendo l’ultimo dei sei volumi di cui era composta l’opera, apriva la pubblicazione della Storia del mondo Einaudi, edizione italiana di una coproduzione tedesco-americana diretta da Akira Irye e Jürgen Osterhammel (2012-2017). Il titolo dell’ampio intervento apparso sul Corriere della sera il 6 dicembre 2014 è in effetti inequivocabile: Zero in storia. Einaudi stecca. L’editore scorda la lezione di Gramsci per sposare un ottimismo benevolente.

Torniamo specificamente al percorso storiografico di Gruzinski. Pur mantenendosi nell’ambito dell’osservatorio iberico, con Quelle heure est-il là-bas? (2008: Che ora è laggiù?) e L’aigle et le dragon (2012: L’aquila e il drago), tuttora privi di traduzione italiana, lo studioso francese ha frattanto ampliato audacemente le dimensioni di scala della ricerca, mettendo direttamente in contatto l’impero ottomano e la Nuova Spagna, e stabilendo un confronto tra l’Europa e la Cina all’alba dell’età moderna attraverso l’accostamento dell’esperienza degli spagnoli, invasori del Messico sottoposto al controllo degli Aztechi (1519-1521), con quella, coeva, del tentativo, abortito, dei portoghesi di penetrare nella Cina dei Ming: c’est ce que nous découvre une histoire globale du XVIe siècle, conçue comme une autre manière de lire la Renaissance, moins obstinément eurocentrée et sans doute plus en phase avec notre temps (Gruzinski 2012, 13: è quanto   ci rivela  una storia globale del Cinquecento, concepita come un altro modo di leggere il Rinascimento, meno ostinatamente eurocentrico e forse più in sintonia con il nostro tempo– trad. mia). Una proposta interpretativa delineata da Gruzinski qualche anno prima anche attraverso le fonti italiane in un saggio uscito nel volume Milano e il Messico. Dimensioni e figure di un incontro a distanza dal Rinascimento alla globalizzazione (Gruzinski 2010).

Le histoires connectées hanno nel frattempo cominciato altresì a suscitare in Francia l’attenzione del mondo della scuola, ispirando un progetto di insegnamento della storia globale attraverso la drammatizzazione delle vicende evocate ne L’aigle et le dragon da parte di una classe multiculturale del Lycée Jean-Rostand di Roubaix, nel Nord deindustrializzato del paese. Giovanissimi di diverse ascendenze si sono così calati «nei panni altrui», facendosi conquistadores, aztechi, portoghesi e cinesi, e apprendendo per questa via in modo concreto, attraverso la costruzione dello spettacolo e l’interpretazione di un ruolo, alcuni dei fondamentali rudimenti dello storico globale: visione, decentramento dello sguardo, relativizzazione dei pregiudizi difensivi nei confronti degli universi umani esterni al perimetro della propria esperienza culturale.

Frutto di un’intuizione di Laurent Guitton, professore di storia al Lycée Jean-Rostand (Guitton 2015, 189-192), e oggetto di un allestimento poi tenutosi presso il teatro di Roubaix nel maggio del 2013, l’esperienza didattica viene presentata con emozione da Gruzinski nell’incipit del volume L’histoire, pour quoi faire?, edito all’inizio del 2015 (Gruzinski 2015a). Un testo, agile ma penetrante, in cui lo studioso francese affronta in modo personale e diretto la questione del futuro della storia nel mondo globalizzato, uscendo deliberatamente dalla cornice dei dibattiti specialistici internazionali, all’epoca sollecitati dalle tesi sostenute nel discusso The History Manifesto di Jo Guldi e David Armitage (Guldi, Armitage 2014), oggi, in tempi di pandemia Covid-19, e quindi «con il senno di poi», forse da riconsiderare giacché gli autori hanno pur sempre aperto il volume con questa considerazione:

We live in a moment of accelerating crisis that is characterized by the shortage of long-term thinking [] What place will our children call home? There is no public office of the long term that you can call for answers about who, if anyone, is preparing to respond to these epochal changes (Guldi, Armitage 2014, 1).

Vale a dire:

Viviamo in un momento di crescente crisi, caratterizzato da un deficit di pensiero a lungo termine […] Quale luogo chiameranno casa i nostri figli? Non esiste un ufficio pubblico preposto al lungo termine cui ci si possa rivolgere per richiedere risposte in merito a chi, se c’è, si sta preparando a far fronte a simili cambiamenti epocali (traduzione mia).

In ogni modo, a differenza de The History Manifesto, che in ultima istanza dà voce alla rivendicazione di un ruolo pubblico per la disciplina dettata da logiche interne al mondo accademico statunitense, Gruzinski accompagna il lettore lungo un itinerario dal taglio decisamente personale, che parte proprio da Roubaix, città gemella di Tourcoing, ove lo storico francese è nato nel 1949, dialogando con una pluralità di linguaggi contemporanei: dalla fotografia agli allestimenti teatrali, dal cinema alle serie televisive, dalle graphic novel ai videogiochi.

Ovviamente, l’autore si esprime in merito allo stato di salute della storia nella sua dimensione accademica, non tacendone l’autoreferenzialità e il disallineamento rispetto a una più diffusa domanda sociale, di cui è epifenomeno la marginalizzazione degli storici nello spazio pubblico. Egli

affronta contestualmente la questione dell’impatto dell’incessante progredire della transizione verso il virtuale sulla trasmissione del senso del passato ai «nativi digitali» e alle nuove generazioni, che scontano un crescente deficit di formazione storica di base, risultando pertanto particolarmente esposti a una propaganda politica e ideologica pervasiva, pregna di narrazioni potenti che attingono opportunisticamente al passato. Un universo di futuri adulti che fruisce altresì, senza filtri, di narrazioni che rimodellano il passato a fini di intrattenimento popolare: film, serie tv, videogiochi, letteratura seriale.

Lungi dal cedere alla tentazione del pamphlet, l’autore articola però le sue riflessioni sostanzialmente a partire da un contesto specifico: l’Europa occidentale, le cui società hanno ormai assunto, piaccia o meno, un profilo multietnico e multireligioso estremamente complesso, che sfida ogni giorno, nelle aule scolastiche, «la tenuta di quel che resta delle narrazioni nazionali del passato e della retorica fondata, com’è tipico di ogni etnocentrismo, sulla contrapposizione tra “noi” e gli “altri”» (Benzoni 2016b, XII).

Come insegnare la storia in queste condizioni, dunque, e quale storia insegnare?

Gruzinski risponde a tali domande di fondo con un registro che evoca lo scambio seminariale e la conversazione colta, non senza evidenziare gli assordanti silenzi della memoria pubblica del suo paese in relazione alla stagione del colonialismo e dell’imperialismo. Più in particolare, egli argomenta il suo punto di vista sul filo della ego-storia, di una esperienza di insegnamento universitario in contesti tra loro diversificati quali l’École des hautes études en sciences sociales, Princeton e Belém do Pará in Amazzonia, e di un’attività da visiting professor dal respiro intercontinentale.

Per questa via, egli formula una proposta storiografica e didattica che pone al centro la prima età moderna della «mondializzazione iberica», concepita come uno spazio multidimensionale e intercontinentale in cui interagisce una pluralità di attori (europei, asiatici, africani e amerindiani), ai quali viene restituita la parola da una prospettiva «orizzontale» e schiettamente interculturale, salvaguardando nondimeno il rilievo imprescindibile dell’esperienza europea nella formazione storica di un quadro globale.

Per la decostruzione delle gerarchie etnocentriche e la contestuale appena evocata valorizzazione dell’esperienza europea, l’enfasi sulle ancipiti dinamiche dei processi di métissage e l’invito al confronto sotteso ai numerosi interrogativi sollevati nel testo, L’histoire, pour quoi faire? mi è parso particolarmente adatto a una presentazione italiana di taglio multidisciplinare con la partecipazione di storici e specialisti di studi linguistici e culturali relativi a diverse aree del mondo. Ed è stata proprio l’eccellente riuscita dell’incontro Storia, memoria, immaginari nel mondo globalizzato, dedicato a un confronto sull’uso pubblico del passato nei vari contesti, tenutosi presso il campus di Mediazione dell’Università degli studi di Milano il 15 maggio 2015 con interventi di sinologi, studiosi di arabo e hindi, ispano-americanisti, lusitanisti, anglisti, francesisti, storici economici, storici modernisti e storici contemporaneisti, a indurmi alla scelta, ormai piuttosto inconsueta da parte di uno storico di professione, di dedicarmi a un’operazione traduttiva.

Questa decisione è stata dettata dalla volontà di rendere accessibile al lettore italiano la proposta di Gruzinski al fine di contribuire tanto al dibattito accademico nazionale sulla storia globale, all’epoca ormai più che avviato, quanto all’ampliamento degli strumenti a disposizione degli studenti universitari italiani, ai quali il volume parla in modo diretto grazie a esemplificazioni tratte da produzioni culturali da questi ultimi largamente fruite.

L’antica consuetudine con le categorie storiografiche e le prospettive di ricerca dell’autore, la familiarità con la scrittura e il lessico di Gruzinski, una specifica esperienza nell’ambito della storia culturale delle interazioni globali in età moderna e la competenza maturata nella didattica della storia moderna e dell’America latina in qualità di docente per corsi di laurea con un alto numero, per gli standard italiani, di studenti internazionali, mi hanno fornito gli strumenti per concepire la traduzione accademica come un’operazione di vera e propria mediazione culturale.

La resa in italiano si è trasformata così in un atto di gratuità intellettuale che mi ha molto arricchito giacché mi sono assunta la responsabilità di traghettare verso un altro universo linguistico e culturale il lavoro di un autore, rendendolo in grado di incidere in modo più ampio. La realizzazione del progetto editoriale ha richiesto invece una certa dose di tenacia, complice un primo rifiuto, sorprendente soprattutto per la modalità non argomentata con cui è stato comunicato a fronte dell’invio di un progetto scientifico ed editoriale strutturato.

L’idea di un’edizione italiana de L’histoire, pour quoi faire? ha in ogni modo in breve suscitato l’interesse di un editore scientifico di Milano, Raffaello Cortina, forte di un catalogo tradizionalmente attento ai contributi internazionali «d’autore» nell’ambito delle scienze umane (Augé, Appadurai, Goody, Kepel, Morin, Sloterdijk, Vernant…), di una redazione con un rigore di altri tempi, di una concezione della fattura del libro intesa come un’operazione che richiede l’incontro umano tra l’editore, l’autore e il traduttore, e la sinergia di una pluralità di specialisti: editor, redazione, grafici, ufficio stampa.

Dati i già evocati obiettivi scientifici, culturali e didattici sottesi al progetto dell’edizione italiana, ho interpretato la resa nella nostra lingua de L’histoire, pour quoi faire?, testo caratterizzato da un registro accattivante, come un esercizio di consapevole sintonizzazione con il contesto di destinazione, al fine di salvaguardare la sostanza delle argomentazioni della versione originale attraverso una loro traduzione più schiettamente accademica. Nei limiti del possibile, ho pertanto scelto di trasfondere la consuetudine con le categorie dello studioso francese in un italiano rigoroso in grado di favorire la ricezione della proposta storiografica di Gruzinski. Nello stesso spirito, ho optato per la stesura di un’introduzione asciutta ma ponderata, così da guidare il pubblico alla lettura del volume, senza precipitarlo in medias res.

La necessità di una mediazione culturale si è nuovamente imposta al momento della formulazione del titolo. Come restituire nella nostra lingua la sostanza della domanda, così diretta, del titolo francese L’histoire, pour quoi faire?. La scelta è caduta su una soluzione che coniugasse un interrogativo d’impatto, in linea con quello originale, con un sottotitolo in grado orientare il lettore italiano. Ho scelto perciò Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, che condensa le prospettive di fondo del volume.

Tra il 2015 dell’edizione francese e il settembre del 2016 di quella italiana, i temi sollevati nel libro, e, in particolare, le considerazioni sulla forza propulsiva e il ruolo di autonomi attori storici delle narrazioni antagonistiche del passato circolanti attraverso la rete e i nuovi media, sono purtroppo diventati di crescente attualità, complice l’escalation del terrorismo sedicente islamista in Francia e in Europa, gli esiti del referendum sulla Brexit, la candidatura e la successiva vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane, sullo sfondo di un dibattito pubblico polarizzato, in Italia e nel mondo occidentale, in relazione alle emergenze umanitarie e ambientali.

A conferma di una crescente attenzione verso tali prospettive da parte del mondo accademico italiano, l’edizione italiana del volume di Gruzinski (Benzoni 2016a) ha ricevuto un’accoglienza lusinghiera, inserendosi in un quadro editoriale in movimento grazie alla pubblicazione, nell’autunno del 2015, con un’introduzione di Marco Meriggi, della traduzione di Global Geschichte di Sebastian Conrad (2013), il libro che prelude a What is Global History? dello stesso autore (Conrad 2016), e grazie all’uscita, alla fine del 2016, della traduzione de The History Manifesto (Scaffei 2016), con una bella introduzione di Renato Camurri.

L’edizione italiana de L’histoire, pour quoi faire? è stata presentata presso l’Università degli studi di Milano alla fine dello stesso anno, con la partecipazione dell’autore e una discussione di taglio storiografico intergenerazionale, con interventi di Brunello Vigezzi (1930), Marco Meriggi (1955) e Giuseppe Marcocci (1979). Nel 2017 Gruzinski è poi intervenuto al Festival Dialoghi sull’uomo di Pistoia sul tema La storia ci rende umani. Alcune lezioni dal passato. Sul versante delle recensioni, con riferimento ai quotidiani, si considerino in particolare, per il confronto tra antropologia e storia, le riflessioni di Adriano Favole (2016) e Fulvio Cammarano (2016). In merito al volume hanno altresì scritto Franco Cardini (2017), Sergio Luzzatto (2017) e Claudio Vercelli (2016). Frattanto, Abbiamo ancora bisogno della storia? è entrato nei programmi universitari e ha suscitato l’attenzione del mondo della formazione degli insegnanti, grazie anche a un’ampia video-intervista registrata a Milano nel 2015 (Benzoni 2015b).

Al fine di continuare a offrire materia di dibattito al pubblico accademico nazionale in relazione alla storia globale, nel 2018 ho affrontato la versione italiana de La machine à remonter le temps. Quand l’Europe s’est mise à écrire l’histoire du monde, uscito l’anno precedente in Francia (Gruzinski 2017). A suggerire tale scelta è stato altresì il tema specifico del volume, che corona per molti versi il percorso di decolonizzazione del profilo storico del mondo amerindiano e indio-meticcio nell’età moderna, intrapreso da Gruzinski a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Nel volume, lo studioso francese ritorna in effetti al teatro delle origini del proprio itinerario di ricerca: il Messico centro-meridionale del XVI secolo, all’epoca della dominazione azteca e al momento dell’avvio dell’invasione europea.

Più in particolare, egli esamina con rigore e in chiave schiettamente interculturale un aspetto cruciale che ha operato come un agente invisibile a favore dei nuovi venuti. Ci si riferisce alla storia «all’europea», che nel libro viene associata all’immagine, per dir così, polisemica, della «macchina del tempo», ove il termine «macchina» evoca la capacità della storia «all’europea» di fabbricare un «nuovo» passato nativo attraverso la «cattura» e l’estrazione selettiva, dalle memorie e temporalità indigene, di frammenti poi innestati all’interno di «periodizzazioni che scandiscono il passato amerindiano secondo una progressione lineare ad esso estranea» (Benzoni 2018b, XIII).

Gruzinski de-gerarchizza tuttavia il rapporto tra i vari attori coinvolti in questa imponente operazione di travaso delle memorie indigene entro una cornice di storia universale di ascendenza cristiana, «destinata a condizionare la percezione del tempo trascorso e l’attitudine verso il presente da parte di una nascente società coloniale dal profilo schiettamente multietnico». (Benzoni 2018b, XIII). Missionari, funzionari coloniali, vecchie e nuove élite indigene e discendenti dei connubi tra i conquistadores e le donne native vengono infatti posti sullo stesso piano e considerati per quello che sono: una galassia di individui e di gruppi portatori di interessi «locali» che si servono della «macchina del tempo» per tutelarsi, accreditarsi o trovare spazi di inserimento nella Nuova Spagna e nella monarquía hispaníca, lasciando traccia di sé nei documenti che costituiscono l’affascinante archivio indagato da Gruzinski, fatto di testi storiografici in molteplici lingue, codici pittografici preispanici e coloniali, trascrizioni di canti.

Nasce da qui l’analogia suggerita da Gruzinski tra lo storico e il protagonista del magnifico romanzo di Juan José Saer El entenado (1983): un europeo del primo Cinquecento, vissuto a lungo in una condizione di ambivalente cattività tra i «cannibali» sudamericani, al punto di entrare in una sintonia profonda con il loro mondo, che sopravvive così alla distruzione proprio grazie alla testimonianza dell’ex prigioniero.

Comme lui, je m’acharne à remettre sur le métier les mêmes sources, les mêmes Indiens, les mêmes siècles, le même pays: pourquoi chercher à atteindre ce qui par la distance, par l’époque, par les lieux, est radicalement distinct du monde d’où je suis né? Voilà plus de quarante ans que je me heurte à ces questions, tentant de reconstituer des univers que ne sont plus et qui peut-être n’ont existé que dans mon imagination d’historien: Indiens du Mexique, Européens débarqués d’une péninsule Ibérique et d’une chrétienté impériale, et avec eux tous les êtres nés de leurs chocs et de leurs mélanges (Gruzinski 2017, 10).

Cioè:

Non diversamente dal personaggio del romanzo di Saer, anch’io mi ostino a riesaminare le stesse fonti, gli stessi amerindi, gli stessi secoli. Ma perché mai cercare di cogliere ciò che, a causa della distanza, dell’epoca, delle situazioni, risulta radicalmente distinto dal mondo in cui sono nato? Da oltre quarant’anni mi confronto con simili interrogativi, sforzandomi di ricostruire universi che non esistono più, e che forse non sono mai esistiti salvo che nella mia immaginazione di storico: indiani del Messico, europei provenienti da una penisola iberica e da una cristianità imperiale, e con costoro tutti gli esseri umani nati dai loro scontri e dai loro intrecci (Benzoni 2018b, 4).

L’esame indiziario delle fonti consente allo studioso francese di declinare l’immagine della «macchina del tempo» anche nella prospettiva di un viaggio, guidato da Arnaldo Momigliano, alle radici della storiografia antica, griglia di riferimento imprescindibile per i missionari impegnati nell’evangelizzazione del Messico e del Nuovo Mondo, tra i quali, nel volume, si stagliano le figure del francescano Motolinia e del domenicano Bartolomé de Las Casas. Gruzinski coglie in particolare nella Historia de las Indias di Las Casas, per l’incandescente materia rimasta manoscritta fino all’Ottocento, tanto i prodromi di un’autentica storia globale quanto un esempio paradigmatico del potenziale corrosivo della storia «all’europea». Una qualità preziosa che Gruzinski rilancia, invitando alla costruzione di una «storia europea» che abbia come fulcro precisamente la partecipazione di una pluralità di attori del continente alla mondializzazione dell’età moderna.

Nel tardo Cinquecento, complice il montare della leyenda negra in Europa e la volontà di irrobustire l’istituzionalizzazione dell’impero ispanoamericano, la monarquía hispánica assume tuttavia il controllo della «macchina del tempo», per «produrre» da Madrid, attingendo, ancora una volta selettivamente, proprio alle fonti proliferate oltre Oceano e allo stesso Las Casas, una narrazione ispanocentrica dell’invasione delle Americhe in cui si avvertono i prodromi della globalizzazione della storia «all’europea» convenzionalmente collocati tra il Settecento illuminista e l’Ottocento colonialista e imperialista (Benzoni 2018a, XVIII).

Anche nel caso della versione italiana de La machine à remonter le temps (Benzoni 2018b), studio che, attraverso l’esperienza ispanoamericana, suggerisce una rimodulazione dei tempi e delle forme della diffusione delle pratiche storiografiche «all’europea», e con esse della graduale maturazione del paradigma eurocentrico, l’operazione traduttiva si è orientata verso una resa, per dir così, autoriale, volta a favorire la ricezione delle categorie sottese alla trattazione attraverso un ritmo narrativo, per quanto possibile, trascinante e un lessico adatto a restituire la complessità del corpus di fonti indagato nel volume: un archivio di frammenti relativi a fenomeni imponenti, a lungo deformati dall’eurocentrismo storiografico, quali, rispettivamente, il protagonismo del mondo nativo nell’avvio della formazione storica della società coloniale della Nuova Spagna e quello della Spagna nelle interazioni globali dell’Europa moderna.

Ho optato altresì per un’introduzione di respiro, allo scopo, da un lato, di stabilire un dialogo a distanza con le riflessioni articolate nella prefazione dell’edizione italiana de L’histoire, pour quoi faire? e, dall’altro, di offrire al lettore gli strumenti per affrontare il nuovo volume forte di una adeguata contestualizzazione storica e della presentazione della strumentazione concettuale dell’autore. Anche La macchina del tempo è stato ben accolto. A confermarlo, con riferimento ai quotidiani, sono le recensioni relative all’edizione italiana di Franco Cardini (2019), Massimo Firpo (2018), Francesco Perfetti (2018) e Michaela Valente (2018). La consonanza con la materia trattata nel volume emerge in particolare nella recensione di Adriano Prosperi (2018), suggestivamente intitolata Gruzinski, microstoria con pinturas.

Sullo sfondo, vi è una congiuntura editoriale in cui spicca l’adozione del formato della Histoire mondiale de la France di Patrick Boucheron (Paris, Éditions du Seuil, 2017) per la Storia mondiale dell’Italia a cura di Andrea Giardina, uscito da Laterza alla fine del 2017 e invero oggetto di un’accoglienza ancipite da parte degli storici modernisti, ben esemplificata dalle perplessità di Aurelio Musi (Musi 2019) a fronte della valutazione di «solida modernità storiografica» di Serena Di Nepi (Di Nepi 2018).  Dispareri indicativi delle diverse forme di sintonizzazione della storiografia modernistica nazionale con le cornici globali che si riflettono tanto sul piano della ricerca individuale e dei Progetti di rilevante interesse nazionale del ministero dell’Università e della ricerca (PRIN) quanto in relazione alla manualistica universitaria (Bellabarba, Lavenia 2018; Mascilli Migliorini 2020).

L’operazione traduttiva ripercorsa in queste pagine, come negli auspici che ne hanno ispirato la realizzazione, ha contribuito a far circolare idee, prospettive, linee interpretative e a rendere più familiari tanto le pratiche di una storia globale dal tratto schiettamente interculturale quanto il Messico in uno snodo cruciale della sua esperienza storica. Resta tuttavia il fatto che un progetto di respiro come quello in esame non risulta in ultima analisi organico alla visione della produttività scientifica che si è affermata nell’ultimo decennio nel sistema universitario italiano, focalizzata, in buona sostanza, su tipologie standardizzate di testi, per molti versi gerarchizzati a priori in base alla sede di pubblicazione. Non è dunque sorprendente che simile mediazione culturale e storiografica non risulti facilmente valorizzabile ai fini della periodica valutazione della ricerca: un risultato in qualche misura paradossale, che forse non è inutile segnalare a conclusione di questo itinerario fra storia della storiografia ed esperienza diretta, non per polemica, ma, al contrario, nello spirito di un contributo al dibattito sulle forme di produzione, validazione e circolazione del sapere in ambito umanistico.

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