Le traduzioni nella storiografia sul fascismo

di Christopher Rundle

Introduzione

Questo numero monografico intende indagare come alcune opere storiche tradotte in italiano abbiano contribuito allo sviluppo della tradizione storiografica italiana del Novecento. Come studioso formatosi in Inghilterra nel campo dei translation studies, ho pensato di offrire un contributo che prendesse in considerazione, invece, la prospettiva contraria: cioè, quella secondo la quale è la traduzione a diventare oggetto di ricerca storica. Vorrei riflettere, quindi, su come le traduzioni possano entrare a far parte della storiografia italiana, prendendo come esempio la storiografia sul fascismo.

Nel febbraio del 1981 si tenne a Milano un convegno su Editoria e cultura a Milano tra le due guerre, organizzato da storici dell’editoria, in collaborazione con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, con interventi di studiosi e protagonisti di quella stagione storica. Qualche intervento fece riferimento alla letteratura tradotta e ai modelli letterari importati, mentre una sola relazione, tenuta da Giovanni Raboni, trattò esplicitamente la narrativa straniera (Raboni 1983).

Dopo quasi vent’anni, nel 1999, si tenne il convegno Editori e lettori. La produzione libraria in Italia nella prima metà del Novecento, organizzato a Milano dalla Fondazione Mondadori in collaborazione con l’Istituto lombardo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (come si chiamava allora). Negli atti del convegno, curati da Ada Gigli Marchetti e Luisa Finocchi (2000), un’intera sezione è dedicata ai mediatori delle letterature straniere, e vi è incluso un contributo di Giorgio Mangini sulle traduttrici Lavinia Mazzucchetti, Emma Sola e Irene Riboni (Mangini 2000).

Pochi anni dopo, nel 2003, il convegno Le letterature straniere nell’Italia dell’entre-deux-guerres si concentrò sulle letterature straniere nelle riviste del periodo, oltre all’editoria libraria, confermando, dunque, che la traduzione stava diventando un tema chiave negli studi sul periodo fascista (Esposito 2004).

Infine, nel 2017, si è svolto il convegno Milano capitale transnazionale del libro fra le due guerre; il più recente di questa serie inaugurata dal convegno dell 1981. L’evento è stato organizzato da Anna Ferrando, che ne ha anche curato gli atti (Ferrando 2019b), in collaborazione con la Fondazione Mondadori, l’Istituto lombardo di storia contemporanea (nuova denominazione di quello della Resistenza), il Centro di studi per la Storia dell’editoria e del giornalismo (con sede presso lo stesso Istituto), il Dipartimento di Studi storici dell’Università di Milano, l’Institut Français Italia e l’École Française de Rome (si rimanda all’intervento nel convegno di Luisa Finocchi, 2019, per una riflessione sul ruolo della Fondazione Mondadori nella ricerca storica sull’editoria negli ultimi quarant’anni).

Già il titolo confermava che ormai gli scambi culturali inter- e trans- nazionali fossero un tema caratterizzante di questo filone di ricerca. Erano presenti studiosi provenienti da diverse aree disciplinari, uniti dal loro interesse per il ruolo che le traduzioni hanno avuto nella storia culturale, letteraria e politica del periodo fascista; e parteciparono anche studiosi provenienti dai translation studies – disciplina quasi inesistente ai tempi del primo convegno.

La mia intenzione è di tracciare la storia di questa evoluzione, segnata dai quattro convegni citati, mettendo in luce come dagli anni settanta a oggi le traduzioni siano entrate a fare parte della storia del fascismo.

Si direbbe che, grazie alla caratterizzazione che Cesare Pavese ha dato agli anni trenta come decennio delle traduzioni, gli storici della letteratura del “ventennio” siano sempre stati sensibili al tema della traduzione, con un interesse che è cresciuto notevolmente negli ultimi venti anni, in parallelo con il crescente lavoro di archivio condotto da storici e storici dell’editoria, lavoro che ha inserito le traduzioni anche nella storia politica, industriale e sociale del fascismo.

Per quanto non possa affermarlo con certezza, la mia impressione è che il fascismo sia uno dei temi storiografici in Italia in cui gli studi sulle traduzioni siano presenti in maniera più significativa, specialmente se guardiamo agli studi non-letterari. E già questo sarebbe un dato interessante. Perché la storiografia sul fascismo si è (forse) aperta più di altre alle suggestioni che possono offrire gli studi sulla traduzione? Posso suggerire due motivi. Il primo, e il più ovvio, è che le traduzioni hanno avuto un ruolo importante nella storia della cultura sotto il fascismo ed era solo una questione di tempo prima che ciò emergesse. Il secondo è la relativa facilità con cui si riesce a fare ricerca archivistica sulla storia del ventesimo secolo rispetto a periodi precedenti, almeno per quanto riguarda l’editoria, grazie al definitivo passaggio a documenti dattiloscritti e facilmente duplicabili che ha portato a un notevole aumento del volume di fonti primarie conservate, ma anche grazie alla relativa accessibilità di queste fonti per ricercatori che non hanno avuto una formazione specifica come storici.

Ai fini di questa analisi, mi concentrerò sulla traduzione letteraria e non prenderò in considerazione la traduzione teatrale o cinematografica. Questo per motivi di spazio ma anche perché nel processo che voglio illustrare sono protagoniste le traduzioni dei libri. Inoltre, porrò l’attenzione principalmente sugli studi che sono emersi al di fuori dei translation studies (dove le ricerche sul fascismo europeo hanno avuto uno sviluppo interessante) perché vorrei mettere in evidenza proprio come questi studi abbiano superato i confini disciplinari della traduttologia, entrando in quelli della storiografia italiana, assolvendo, così, a quella che dal mio punto di vista è una della funzioni più interessanti che possono avere gli studi storici sulla traduzione, ossia diventare una prospettiva, o una lente, attraverso la quale prendere in esame un argomento storico significativo come quello del fascismo (si veda Rundle 2012).

Contesto storico: le traduzioni durante il fascismo

Per contestualizzare questa riflessione, è bene riassumere brevemente alcuni dati salienti della storia delle traduzioni durante il fascismo.

Le statistiche

Stando alle statistiche internazionali che circolavano in quegli anni, specialmente nell’«Index Translationum», periodico lanciato nel 1932 dall’Istituto della cooperazione culturale a Parigi, agenzia sotto l’egida dell’allora Società delle Nazioni, possiamo affermare con ragionevole certezza che negli anni trenta l’Italia pubblicasse più traduzioni di qualunque altro paese al mondo. Inoltre, i dati dicono che nelle traduzioni di narrativa, l’inglese era la lingua di partenza più frequente, nonostante il clima di ostilità che si era creato tra l’Italia e il mondo anglofono dopo l’invasione dell’Etiopia (anche se della lingua di partenza si è parlato poco all’epoca).

Nel settore della narrativa le traduzioni erano particolarmente presenti, con circa il 35% dei titoli, rispetto al 9,5% nella produzione complessiva. In molti casi questo 35% comprendeva traduzioni di narrativa popolare che godevano di un successo senza precedenti con tirature altissime. Per esempio, i primi quattro «Libri gialli» della Mondadori, pubblicati nel 1929, vendettero 50.000 copie nel primo mese; e tutti i titoli della collana ebbero una tiratura di almeno 30.000 copie – così come i «Romanzi della palma». In termini di copie vendute, quindi, è ragionevole pensare che la quota di mercato delle traduzioni letterarie superasse di gran lunga il 35%.

Infine, c’era un dato particolarmente significativo: il cosiddetto «bilancio culturale», cioè il numero di traduzioni dall’italiano in rapporto al numero di traduzioni verso l’italiano. Il bilancio medio annuale dell’Italia nel periodo 1927-1938 era decisamente negativo: -815 traduzioni; mentre la Germania poteva vantare un +1033 (maggiori dettagli in Rundle 2019, 2).

Nelle parole di un rappresentante della Federazione degli editori: «Il pensiero tedesco s’irradia fuori dei confini, più di quanto non si senta l’influenza delle letterature straniere in Germania e nei paesi di lingua tedesca» («Giornale della libreria», a. XLV, n. 20, 14 maggio 1932, p. 141)

Il bilancio negativo dell’Italia diventò, quindi, agli occhi dei commentatori dell’epoca, l’emblema dell’eccessiva ricettività dell’Italia e confermava il fallimento del progetto fascista di espansione culturale nel mondo; mentre si guardava con ammirazione alla Germania, che indubbiamente traduceva molto, ma esportava ancora di più la sua cultura all’estero (è interessante notare che neanche i tedeschi erano soddisfatti perché molti degli autori da cui si traduceva erano ebrei o fuoriusciti politici (Sturge 2004, 92 e 99).

Le campagne contro le traduzioni

Come reazione a questo flusso crescente, negli anni trenta furono promosse due campagne contro le traduzioni: la prima nel 1933-34 e la seconda nel 1936-38. Nella prima, scrittori e intellettuali si lamentarono della «invasione delle traduzioni», che secondo loro stava guastando il mercato con opere di bassa qualità, tradotte male e pubblicate in edizioni scadenti. La seconda campagna ebbe, invece, un carattere più ideologico, e fu guidata da Filippo Tommaso Marinetti, all’epoca a capo del sindacato degli Autori e scrittori. Gli autori cercarono di sfruttare il clima politico creato dalle sanzioni imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni in seguito all’aggressione all’Etiopia e chiesero al regime di arginare il flusso di letteratura straniera con l’applicazione di una «autarchia culturale», in linea con quella che si stava applicando in campo economico. In entrambe le campagne, il bersaglio principale erano gli editori, accusati di preferire la letteratura straniera a quella italiana in palese contraddizione con le politiche autarchiche e lo spirito patriottico che le animava (Rundle 2019, 2019a).

Antisemitismo e restrizioni

Nonostante queste forti pressioni e l’imbarazzante ricettività messa in evidenza dalle statistiche, inizialmente non ci fu alcuna reazione da parte del regime. In fondo la Federazione degli editori era leale e l’industrializzazione dell’editoria era vista positivamente; il regime vedeva di buon occhio la creazione di un mercato di massa dei libri, anche se allo stesso tempo disapprovava il tipo di letteratura che il mercato favoriva, e forse si compiaceva di vedere l’élite culturale messa in difficoltà dalla feroce concorrenza dei bestseller stranieri.

Le cose cambiarono con le leggi razziali e con la creazione nel settembre 1938 della Commissione per la bonifica libraria, che aveva lo scopo sia di bloccare la circolazione delle opere di autori ebrei, sia di affrontare la questione delle traduzioni. In realtà, la Commissione, guidata dal ministro della Cultura popolare, Dino Alfieri, concentrò i suoi sforzi sulla epurazione antisemitica e non arrivò mai a un intervento concreto contro le traduzioni; ci pensò il successore di Alfieri, Alessandro Pavolini, che nel 1942 decise di imporre una quota di traduzioni sul totale dei titoli pubblicati da ciascun editore, nella misura iniziale di un punitivo 10 per cento, ma infine ridimensionato a 25. Dopo anni senza intervento, il clima ideologico creato dalle leggi razziali spinse il regime, nella fattispecie il ministero della Cultura popolare, a superare qualsiasi esitazione o remora e porre un limite chiaro e trasversale alle traduzioni (Rundle 2019, 135–164).

E’ da sottolineare, però, che – nonostante le dichiarazioni propagandistiche di Pavolini, il quale, in linea con la retorica razzista, parlava di «un’importazione disordinata ed avvelenatrice» (Rundle 2019, 150) – lo scopo principale della quota era di ridurre l’impatto statistico delle traduzioni, più che arginare il pericolo che si pensava le traduzioni potessero rappresentare per il benessere morale e spirituale del popolo italiano. Infatti furono limitate anche le traduzioni dalle lingue classiche che certo non potevano essere considerate una minaccia o un inquinamento culturale, ma che contribuivano a far crescere i dati sulle traduzioni (Rundle 2019, 161–164).

Per il regime, quindi, il problema delle traduzioni era principalmente un problema di immagine politica. Lo scambio culturale in sé poteva essere accettato, ma non si poteva accettare una posizione subalterna per la quale l’Italia appariva penetrata dalle culture straniere e non riusciva nel suo «eterno compito di irradiazione più che di ricezione» (Rundle 2019, 150). E’ da notare come questa sia una interpretazione del problema prettamente politica e non letteraria, dove le traduzioni acquistavano importanza più per il loro valore simbolico che per i contenuti che veicolavano.

In conclusione, vale la pena soffermarsi sull’evoluzione del linguaggio metaforico usato all’epoca nel dibattito sulla questione delle traduzioni, che rispecchiava chiaramente l’evolversi del contesto politico. Agli inizi degli anni trenta si parlava di una «invasione delle traduzioni», metafora che esprimeva principalmente un senso di impotenza davanti all’inarrestabile flusso di testi tradotti che riempivano il mercato italiano. Nel periodo dell’invasione dell’Etiopia, la metafora si evolse e le traduzioni furono inquadrate come un’arma di espansione culturale con la quale l’Italia avrebbe dovuto penetrare altre culture, mentre in casa si proponeva un’autarchia culturale per arginare l’invasione straniera. Infine, con la diffusione nella società italiana di una retorica antisemitica, anche le traduzioni furono inquadrate in termini razziali, passando da «invasore straniero» a «infezione», «corruzione» e «inquinamento malsano», creando un senso di allarme sufficiente a giustificare politicamente restrizioni che prima il regime aveva sempre esitato a imporre. Dalla retorica sulle traduzioni, quindi, si evidenzia un rapporto molto stretto tra il contesto politico-ideologico e l’ambito letterario.

Il «decennio delle traduzioni»

Vediamo, dunque, come il tema delle traduzioni sia stato trattato dalla storiografia sul fascismo e come gli studi sulle traduzioni siano entrati gradualmente a farne parte.

Fino agli anni novanta, quando si parlava di traduzioni in epoca fascista lo si faceva quasi sempre dalla prospettiva letteraria del mito dell’America, mettendo l’accento sull’importanza delle traduzioni di narrativa contemporanea per molti giovani intellettuali e scrittori degli anni trenta. Una prospettiva costruita principalmente intorno all’esperienza di Cesare Pavese e Elio Vittorini e alla narrazione che si è creata della loro attività di traduttori.

In questi studi sulla storia letteraria del ventennio, si faceva spesso riferimento (modificandola leggermente) alla celebre frase di Pavese: «il decennio dal ‘30 al ‘40, che passerà alla storia della nostra cultura come quello delle traduzioni» (Pavese 1990, 223).

Secondo questa narrazione, le traduzioni, specialmente di letteratura americana, servirono sia come palestra per giovani talenti che si sarebbero affermati definitivamente nel dopo-guerra, sia come forma di resistenza contro il clima culturale stagnante del regime. Studiosi come Nicola Carducci (1973), Giuliano Manacorda (1980) e Giorgio Luti (1995), oltre al meno conosciuto Dominique Fernandez (1969), raccontano come negli anni trenta si fosse creata una sinergia tra pratica traduttiva e ammirazione per la modernità e libertà dell’America; un mito dell’America consacrato poi con l’antologia Americana curata da Vittorini e pubblicata da Bompiani nel 1942, che comprendeva traduzioni fatte dal Gotha, presente e futuro, degli scrittori italiani (su Americana si vedano Manacorda 1973; Esposito 2009; e Pavese 2018); e per una rilettura della realtà dei miti nutriti durante il decennio delle traduzioni, si veda il saggio di Petrillo (2019-2020).

La letteratura di consumo

Quando Pavese parlava del «decennio delle traduzioni» si riferiva alle traduzioni di letteratura di avanguardia, fatte per lettori d’élite, e non alle migliaia di romanzi popolari tradotti per una readership di massa – una produzione che comunque aveva i suoi valori qualitativi. Invece, gli anni Trenta sono stati il decennio delle traduzioni anche per via del flusso inarrestabile di letteratura di consumo che invase il mercato italiano, modificando i suoi parametri e generando nuovi modelli letterari e imponendo sistemi di produzione e distribuzione su scala industriale (vedi Livolsi 1983).

Già dalla fine degli anni settanta un filone di studi ha cominciato a mettere in evidenza l’impatto della narrativa popolare, raccontando la nascita di un mercato di massa e le abitudini del lettore medio. I due studi più citati di questo filone, cioè quelli di Michele Giocondi (1978) e quello di Gigliola De Donato e Vanna Gazzola Stacchini (1991), trascurarono del tutto il ruolo delle traduzioni nella nascita di questo mercato.

Altri studi importanti, invece, come Letteratura di massa, letteratura di consumo, curato da Giuseppe Petronio (1979), e “Trivialliteratur”? Letterature di massa e di consumo (Schulz-Buschhaus et al. 1979), hanno invece messo in evidenza come negli anni trenta la traduzione avesse favorito l’importazione di nuovi generi letterari di carattere popolare, alimentando un mercato di letteratura di consumo che si stava affermando in tutto l’occidente industrializzato in quel periodo.

Dal momento in cui cominciava a manifestarsi l’interesse per la letteratura di consumo, la questione delle traduzioni acquistava, dunque, un significato diverso: sia perché la letteratura di consumo si è affermata in Italia sulla scia dei romanzi tradotti, sia perché si cominciava a inquadrare le traduzioni non solo da un punto di vista estetico-letterario ma anche da un punto di vista di costumi sociali e di evoluzione dell’editoria. Si passa, quindi, dal decennio delle traduzioni nel senso inteso da Pavese, al decennio della narrativa popolare tradotta per un mercato di massa; e si passa da un interesse nella traduzione più prettamente letterario a un interesse più storico e sociale, basato su fonti primarie e documentali.

Storiografia sul fascismo

Vediamo, dunque, come la questione delle traduzioni sia stata trattata dalla storiografia politica e istituzionale del fascismo. Fino agli anni novanta, le traduzioni sono state sostanzialmente ignorate, forse perché considerate una questione di nicchia e appannaggio dei critici letterari. Anche nei primi studi sul ramo culturale del regime e sulla censura, le traduzioni non compaiono o compaiono solo marginalmente, come testimoniano gli studi di Philip Cannistraro (1975) e di Maurizio Cesari (1978).

La situazione è cambiata con alcuni studi sulle politiche culturali del fascismo che sono emersi dall’ambito degli Italian studies in Gran Bretagna e in America verso la fine del secolo scorso. Lo studio di David Forgacs (1990, uscito in edizione italiana nel 2000), sottolinea il ruolo delle traduzioni di letteratura popolare nell’industrializzazione dell’editoria italiana negli anni trenta. Mentre Ruth Ben-Ghiat (2000, pubblicato successivamente in inglese nel 2001), fa riferimento ai tentativi del regime di arginare l’invasione delle traduzioni – sebbene l’argomento venga trattato molto sinteticamente, lasciando diversi interrogativi senza risposta.

A cavallo del nuovo secolo, quindi, la traduzione cominciava a essere inclusa nella storia politica e sociale del fascismo, ma rimaneva un tema ancora molto marginale.

Il tema della censura

Saranno i nuovi studi sulla censura sotto il fascismo a dare un ruolo più centrale alle traduzioni. Giorgio Fabre (1998) documenta in maniera molto esauriente l’evoluzione della censura applicata ai libri e l’applicazione delle leggi antisemitiche all’editoria, fino alla messa al bando di oltre 900 autori da parte della Commissione per la bonifica libraria. Fabre ha il merito di aver intuito il legame tra l’antisemitismo del regime e la sua ostilità nei confronti della letteratura tradotta. Il suo è anche il primo studio, a mio giudizio, che tratti la traduzione come pienamente facente parte della storia, che consideri cioè le traduzioni non come un dettaglio marginale, ma come un fenomeno significativo che ci rivela la profonda insicurezza del regime nei confronti dell’esterno – a dispetto della sua propaganda e dei suoi illusori piani di espansione culturale nel mondo. Più recentemente, Fabre (2018) ha ricostruito sulla base dei documenti conservati nell’archivio della Fondazione Mondadori ogni atto di censura che la Mondadori ha subito in quegli anni.

Altri due studi sulla censura sono poi apparsi nel 2007 dall’ambito degli Italian studies in Gran Bretagna, contribuendo a inserire le traduzioni a pieno titolo nella loro ricostruzione storica, come quelli di Guido Bonsaver (2007, uscito anche in traduzione italiana nel 2013) e di George Talbot (2007). Bonsaver in particolare ha svolto una ricerca di archivio molto dettagliata sulle traduzioni; a testimonianza di come alla fine del primo decennio di questo secolo, sulla scia del crescente interesse per il tema della censura, le traduzioni entrano definitivamente nella storiografia angloamericana sul fascismo.

Credo che i miei studi sulle traduzioni durante il fascismo si possano collocare tra questi. Anche se non mi sono occupato solo di censura, il mio interesse principale è sempre stato quello di capire il valore politico e ideologico che le traduzioni hanno acquisito durante il ventennio, mirando a distinguere tra quello che è semplicemente successo con le traduzioni durante il periodo fascista e quello che è successo con le traduzioni a causa del fascismo; due prospettive ben diverse, a mio parere. Si vedano in proposito sia Rundle 2010 sia la sua edizione italiana, aggiornata, Rundle 2019b.

Storia dell’editoria

Vorrei tornare adesso al punto iniziale; cioè la storia dell’editoria, un campo di studi dove la traduzione è diventata un tema caratterizzante e un’area di ricerca che ha dato un contributo importante all’integrazione delle traduzioni nella storia del fascismo.

Uno dei primi storici del libro a trattare le traduzioni in epoca fascista come oggetto di ricerca principale è stato Pietro Albonetti (1994). Mettendo a frutto le risorse archivistiche della Fondazione Mondadori, Albonetti apre uno scorcio sulla macchina da guerra che era la casa editrice Mondadori, alla continua ricerca del prossimo bestseller da tradurre e dare in pasto all’insaziabile mercato italiano. Questa ricerca fu condotta da una squadra di traduttori-lettori, che leggevano decine di romanzi stranieri ogni mese e decidevano quali raccomandare per la pubblicazione e quando intervenire con tagli e modifiche; fornivano quindi pareri di lettura che rappresentano una fonte preziosissima per ricostruire le regole mai scritte, ma recepite chiaramente, della censura fascista.

Seguono una serie di studi sulla storia dell’editoria italiana che danno ampio spazio al ruolo della traduzione in questo periodo, come il volume di Giovanni Ragone (1999), quello di Tranfaglia e Vittoria (2000) e il saggio di Pedullà (1997). Tra i più importanti, per lo spazio che danno alla letteratura straniera e alle traduzioni, sono i due volumi curati da Ada Gigli Marchetti e Luisa Finocchi (1997 e 2000).

Da questi studi emerge una versione più articolata della figura del traduttore, che va oltre quella convenzionale dello scrittore in cerca di ispirazione e di un’integrazione del proprio reddito attraverso le traduzioni. Si delinea una figura di traduttore più professionale, che, incardinata in un contesto produttivo sempre più industriale, può fungere anche da lettore, agente letterario e redattore; ed emerge anche il ruolo chiave che hanno avuto molte donne. La più emblematica e più studiata di queste figure è sicuramente Lavinia Mazzucchetti: germanista esclusa dall’insegnamento per il suo rifiuto di allinearsi con il regime, e che ha ritagliato per sé il ruolo di introduttrice e garante della letteratura tedesca in Italia; anche Alessandra Scalero ha avuto un ruolo importante e innovativo con il suo lavoro di traduttrice e di agente letterario in pectore (su Lavinia Mazzucchetti si rimanda ad Antonello 2015, Rubino 2015, Barrale 2017, Sisto e Antonello 2017; su Alessandra Scalero a Bolchi 2018 e Ferrando 2020).

Era già emersa negli anni novanta la figura particolare di Lucia Rodocanachi, che traduceva per conto di diversi scrittori (maschi) come Vittorini, Montale e Gadda, fornendo una versione iniziale che fungeva da canovaccio per la versione finale, firmata da loro. C’è una certa giustizia storica nel fatto che la grande narrativa su Vittorini, con il suo contributo al decennio delle traduzioni e il suo progetto di Americana, lasci spazio alla sua ghost translator, che ha lavorato in silenzio ed è rimasta invisibile per tanti anni (su Lucia Rodocanachi si vedano: Marcenaro 1991, Bonsaver 1998, Contorbia 2006, Aveto 2006, Vittorini 2016).

Un altro tema interessante e forse un po’ trascurato è quello delle traduzioni dei fumetti e della narrativa per ragazzi. Nel 2007 è uscito il volume di Juri Meda (2007), Stelle e strips: la stampa a fumetti italiana tra americanismo e antiamericanismo, 1935-1955, che dedica due capitoli al periodo fascista; seguito nel 2011 dall’imponente volume di Fabio Gadducci, Leonardo Gori e Sergio Lama (2011), che offre una raccolta ricchissima di reperti archivistici e documenta i tentativi spesso confusi del regime di arginare il successo di queste pubblicazioni. Sul tema della traduzione dei fumetti ha pubblicato diversi articoli anche Caterina Sinibaldi (2009, 2012, 2016).

Negli ultimi dieci anni una nuova generazione di storici dell’editoria e della cultura popolare ha continuato ad interessarsi al ruolo svolto dalle traduzioni nell’industrializzazione e popolarizzazione dell’editoria italiana negli anni trenta. Possiamo citare in particolare Anna Ferrando, che oltre ad aver ideato il convegno del 2017 al quale abbiamo accennato sopra, ha dedicato uno studio innovativo agli agenti letterari che trattavano i diritti per le traduzioni, in particolare Augusto Foà e l’Agenzia letteraria internazionale (Ferrando 2019a); e Fabio Guidali che ha studiato le traduzioni nei rotocalchi (Guidali 2019) e, insieme a Irene Piazzoni la ricezione della letteratura americana nelle riviste di larga diffusione (Piazzoni, Guidali 2020).

Infine, Elisa Pederzoli ha pubblicato un interessante studio sull’editore Angelo Fortunato Formiggini e i suoi sforzi, prima che le leggi razziali lo escludessero dalla società civile e lui si suicidasse, di promuovere la cultura italiana all’estero anche tramite le traduzioni, in collaborazione con l’Istituto per la propaganda della cultura italiana (Pederzoli 2019).

La ricezione della letteratura straniera

Con l’inizio del nuovo secolo, gli studi sulle traduzioni e sull’impatto delle letterature straniere nella cultura italiana tra le due guerre cominciano a offire una prospettiva più ampia e più varia rispetto alla precedente narrazione del “decennio delle traduzioni”. I protagonisti di quella che possiamo chiamare una nuova stagione di ricerche sulle traduzioni durante il fascismo sono studiosi di letterature straniere e comparate in Italia, e italianisti all’estero. La maggior parte di loro ha in comune un approccio che coniuga la critica letteraria con un interesse per la storia dell’editoria, basato su un attento lavoro di archivio. Mi limiterò qui a citare gli studi a mio giudizio più significativi.

Uno dei primi ad ampliare il tema delle traduzioni tra le due guerre è stato Mario Rubino (2002), che ricostruisce il fascino che la società weimariana e la letteratura della Neue Sachlichkeit esercitarono sul pubblico italiano, prima che nei loro gusti prendesse il sopravvento la cultura angloamericana.

Nello stesso anno è uscito anche lo studio di Valerio Ferme (2002), che è forse uno dei primi non-traduttologi a adottare un impianto teorico tratto dai translation studies che sono ormai diventati un’area disciplinare in forte crescita. Anche l’idea, talvolta esagerata a mio parere, che la traduzione possa diventare una forma di sovversione o resistenza è un’idea cara ai traduttologi, i quali spesso cercano di evidenziare l’importanza che la traduzione dovrebbe avere, ma che non viene riconosciuta. Come Ferme, Jane Dunnett era un’italianista che agli inizi degli anni duemila aveva rapporti stretti con i translation studies: il lavoro che meglio rappresenta la sua ricerca è il volume postumo The ‘Mito Americano’ and Italian Literary Culture under Fascism (2015) che esamina il mito americano da una prospettiva che include la cultura popolare in senso più ampio.

Un contributo importante l’ha dato anche Francesca Billiani (2007) con il suo studio Culture nazionali e narrazioni straniere. Italia, 1903-1943, recentemente tradotto in inglese (Billiani 2020), dove ha ricostruito il complesso dibattito letterario-estetico che si è svolto intorno alle letterature straniere durante i primi quaranta anni del Novecento. Nello stesso anno Elisa Bolchi (2007) ha pubblicato Il paese della bellezza: Virginia Woolf nelle riviste italiane tra le due guerre, in cui offre anche un esame interessante delle traduzioni di Woolf che sono apparse in rivista in questo periodo.

Nel 2012 escono due studi sulla ricezione della letteratura tedesca. Di Natascia Barrale esce Le traduzioni di narrativa tedesca durante il fascismo (2012), che pone l’attenzione, tra l’altro, su i valori e modelli femminili veicolati dalle traduzioni di narrativa tedesca e offre un case study dettagliato della traduzione di tre romanzi, tra i quali Stud. chem. Helene Willfüer (1928) di Vicki Baum. Di Anna Antonello esce La rivista come agente letterario tra Italia e Germania (1921-1944) (2012), un’analisi molto dettagliata sulla ricezione incrociata della letteratura tedesca nelle riviste italiane e quella della letteratura italiana nelle riviste tedesche durante ventennio.

Sempre sul tema delle culture nordiche, nel 2016 si tiene un convegno a Roma su Translating Scandinavia. Scandinavian Literature in Italian and German Translation, 1918-1945, con gli atti a cura di Bruno Berni e Anna Wegener (2018). Il volume ci offre un quadro interessante sul modo in cui la letteratura scandinava sia arrivata in Italia sulla scia di quella tedesca, e sul ruolo di alcuni mediatori chiave nella sua ricezione come Giuseppe Gabetti e Giacomo Prampolini.

Infine, dobbiamo citare il volume di Edoardo Esposito (2018), che pone l’attenzione sia sugli aspetti politico-culturali sia sul dibattito teorico riguardante le traduzioni, dedicando un capitolo all’attività da traduttore di Eugenio Montale; il saggio in quattro puntate di Gianfranco Petrillo (2019-2020) Che ti dice la patria?, che propone una «verifica» del decennio delle traduzioni e l’interpretazione che ne facciamo oggi, chiedendo quale fosse veramente la «patria ideale» a cui, secondo Cesare Pavese, si ispirarono i traduttori, scrittori e editori protagonisti di quella stagione culturale, e suggerendo, tra le altre cose, che l’importanza della Spagna per Vittorini (in particolare le opere di García Lorca) sia stato sottovalutata per via della cause célèbre dell’antologia Americana e il mito dell’America che ha contribuito a creare nel dopoguerra; e il volume di Daria Biagi (2021), che prende in esame la ricezione dei romanzi, in particolare quelli tedeschi, e il ruolo dei diversi agenti culturali che hanno contribuito alla loro diffusione – dedicando ampio spazio anche al periodo fascista. Insieme ad Anna Baldini, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto, Biagi fa parte del gruppo di ricerca Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: editoria, campo letterario, interferenza che, ispirandosi principalmente agli studi di Pierre Bourdieu e Itamar Even-Zohar, si è posto l’obiettivo di studiare le traduzioni letterarie non come fenomeno a sè, ma come parte integrante del sistema letterario italiano. Il progetto ha anche lanciato una piattaforma online ideata per raccogliere notizie storiche sulle traduzioni in Italia che contiene già molte schede sul periodo fascista: LTit – Letteratura tradotta in Italia (www.ltit.it).

Conclusioni: il fascismo dal punto di vista delle traduzioni

In questa ricognizione della ricerca che è emersa negli ultimi quarant’anni sulle traduzioni durante il periodo fascista possiamo distinguere tra due approcci fondamentali: studi che si interessano alle traduzioni per capire meglio la storia letteraria e editoriale negli anni del fascismo, e studi che prendono in esame la traduzione per capire meglio il fascismo. Nel primo caso il livello di interesse per le traduzioni è sicuramente un dato significativo ma non caratterizza solo gli studi che si concentrano sul periodo fascista; si potrebbero citare molti studi su altri periodi del’Otto e Novecento che lasciano ampio spazio al ruolo delle traduzioni (anche se la narrazione del decennio delle traduzioni e l’importanza del periodo fascista nella storia italiana del Novecento hanno sicuramente incoraggiato molti studiosi a interessarsi di preferenza a questo periodo). Nel secondo caso, invece, credo che la presenza di studi che prendono in esame la storia politica e istituzionale del fascismo da una prospettiva che include (e in alcuni casi parte da) le traduzioni, sia un dato particolarmente caratterizzato della storiografia recente sul fascismo.

Qualsiasi regime che abbia la pretesa di un controllo totalitario sulla vita culturale e politica del paese deve decidere come gestire gli scambi con l’estero, deve capire se questi scambi sono da considerare uno stimolo o una minaccia per la cultura nazionale. Gli studi sulla traduzione ci dimostrano che in queste condizioni le traduzioni rappresentano uno dei canali principali di scambio e possono acquisire, quindi, un forte valore ideologico e simbolico. Possono essere il segno di una cultura forte ed espansionista, come era quella tedesca secondo il parere degli italiani, o possono diventare il sintomo di una passività e ricettività malsana e imbarazzante.

Era proprio nel confronto con l’esterno (misurato tra l’altro con le statistiche sulle traduzioni) che il regime si specchiava, rivelando una evidente fragilità e un certo livello di paranoia. Il successo della letteratura tradotta era un sintomo del totalitarismo incompiuto del fascismo italiano, ma, come documentano gli studi che abbiamo citato, il confronto con l’esterno portò anche arricchimento artistico, la nascita di nuovi generi letterari, una forte evoluzione del settore editoriale e di un mercato librario di massa.

Possiamo dire che le politiche sulla traduzione erano molto meno «totalitarie» di quanto ci si potrebbe aspettare, anche rispetto ad altri regimi fascisti o parafascisti europei del Novecento. In Italia si traduceva tanto ma il regime è intervenuto contro le traduzioni solo sulla scia delle leggi antisemitiche e negli ultimi anni al potere. Allo stesso tempo, tra i quattro principali regimi fascisti o parafascisti europei – Italia, Germania, Spagna e Portogallo – l’unico a imporre un limite a tappeto alle traduzioni, a prescindere dalla lingua di partenza, è stato l’Italia (Rundle 2018): un provvedimento che serviva soprattutto a ridurre il numero di traduzioni e a ridimensionare l’eccessiva ricettività dell’Italia. Quando, invece, le traduzioni venivano fatte dall’italiano, la questione era diversa. Come strumento di penetrazione culturale incontravano l’approvazione del regime, che incoraggiava contratti di traduzione con l’estero e spingeva per una maggiore «irradiazione» della cultura italiana nel mondo.

In entrambi i casi, il regime si interessava alla letteratura tradotta più per il suo valore simbolico che per i valori estetici e letterari che veicolava; un capitale che derivava dal modo in cui le traduzioni potevano rappresentare, agli occhi del regime e dell’establishment culturale, lo status geopolitico dell’Italia.

Ringraziamenti

Vorrei ringraziare Anna Ferrando, Gianfranco Petrillo e Michele Sisto per i loro suggerimenti durante la stesura di questo saggio.

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