Categoria: Numero 21 (autunno 2021)

Numero 21 (autunno 2021)

In chiusura

Questo numero, il numero 21, è l’ultimo numero di «tradurre».

A più di dieci anni dal numero 0, la nostra rivista chiude e la testata «tradurre» non esisterà più.

L’abbiamo fondata con il desiderio di creare un luogo –  diverso dalle sedi (poche) nelle quali all’epoca si collocava il dibattito sulla traduzione – dove poter parlare di traduzione, anzi del tradurre, come pratica che “cambia il mondo”. Volevamo farlo in modo scientificamente solido e documentato, ma lasciando anche spazio e legittimità agli aspetti più umani e personali. Al centro si collocava una nostra idea di traduzione in quanto ingranaggio di quella macchina complessa e poderosa che è la filiera del libro e di un’editoria che si occupa di scegliere, selezionare, pubblicare, far circolare libri, idee, linguaggi. Insomma, per noi la traduzione era e continua a essere un modo di costruire cultura, un atto mai neutro, mai slegato da meccanismi economici, politici, da contesti storici.

Siamo riusciti nel nostro intento?

In parte sì.

Misurare l’esistenza a colpi di traduzione

INTERVISTA A SUSANNA BASSO di Gianfranco Petrillo | Per fortuna, con la buona stagione e le vaccinazioni il maledetto covid ci ha lasciato un po’ di respiro. Abbiamo potuto guardarci in faccia, Susanna e io, non attraverso uno schermo. Abbiamo potuto conversare, con semplicità. O meglio: la semplicità è tutta sua, la strabiliante semplicità con cui lei sola riesce a dare senso anche alle contorte e banali domande con cui io cerco, invano, di metterla in difficoltà, trovandomi a essere io quello in difficoltà, quello che fino a quel momento non ha capito niente. E capisce meglio ora, oltre a tante altre cose, anche perché «tradurre» chiude, esaurito non solo il suo compito, ma il suo tempo.

Per cominciare, spolveriamo libri

CONVERSAZIONE CON NORMAN GOBETTI E PAOLA MAZZARELLI di Gianfranco Petrillo | Mi trovo davanti a due grandi professionisti della traduzione. Dal punto di vista professionale, solo in superficie si può dire che ciò che hanno in comune è la lingua da cui traducono, cioè “l’inglese”. In realtà, attraverso quella lingua, nella loro vastissima produzione esercitano in italiano la scrittura di una grande varietà di generi, dalla saggistica alla narrativa: più quella che questa per Paola, più questa che quella per Norman. E da una grande varietà di Englishes, di “inglesi”: dai classici ottocenteschi ai contemporanei abitatori e attraversatori del globo, dal linguaggio accademico al colloquiale più ardito, con registri vertiginosamente diversi.

Note su lingue, traduttori e interpreti nella Terza Internazionale

Note su lingue, traduttori e interpreti nella Terza Internazionale di Aldo Agosti | L’articolo di Emmanuel Jousse presentato in questo numero di «tradurre» solleva una serie di problemi e di interrogativi che possono essere in gran parte riproposti anche per la fase successiva della storia dell’internazionalismo “operaio” o “proletario”, in particolare per quello comunista nel periodo in cui esso si cristallizzò in una precisa e possente forma organizzativa, definita Terza Internazionale: una denominazione che sottolineava la filiazione e insieme la discontinuità dalle Internazionali precedenti, oggetto dell’analisi di Jousse, e che – sempre più spesso con il passare degli anni – lasciò il posto a quella di Internazionale comunista (Komintern negli acronimi russo e tedesco, Comintern in quello inglese, IC nelle sigle francese e italiana).

I traduttori dell’Internazionale

di Aldo Agosti (traduzione da Les traducteurs de l’Internationale di Emmanuel Jousse) | Il 21 agosto 1907, a Stoccarda, la commissione del congresso dell’Internazionale [socialista] incaricata di esaminare la questione del militarismo discute delle posizioni di Gustave Hervé. Il belga Emile Vandervelde cerca una mediazione ed esorta il congresso a prendere una decisione che non sia un segnale di pusillanimité socialiste, «pusillanimità socialista», suscitando l’obiezione del presidente tedesco che respinge l’espressione come una «traduzione francese». «E’ francese, e del miglior francese», replica Jaurès, suscitando l’ilarità dell’assemblea.

Le molte vite di una traduttrice

BIANCA UGO DALLA TRADUZIONE ALL’ARTE DIVINATORIA di Patrizia Caccia | Fra i tanti traduttori che, fra gli anni trenta e settanta del secolo scorso, hanno accompagnato l’ondata di importazioni di letteratura e cultura straniera in Italia, un posto particolare va riconosciuto a Bianca Ugo che, fin dal famigerato “decennio delle traduzioni”, ha prodotto apprezzabili versioni dal tedesco e dall’inglese.

Bianca (all’anagrafe Bianca Enrica Luisa Maria Teresa) Ugo nacque a Genova l’11 febbraio 1910 da Nice Castellani – un’appassionata apicultrice morta il 21 giugno 1974 – e da Ernesto, agente di cambio. Oltre a Bianca, gli Ugo ebbero Franco e Bruna, storica dell’arte.

 

Anna Vanzan, tra divulgazione e traduzione

di Giacomo Longhi | In Italia, fino a una ventina di anni fa, la letteratura persiana moderna e contemporanea era quasi inesistente, per quanto le incursioni nell’editoria generalista non fossero mancate. Basti pensare che la primissima traduzione in italiano di un autore persiano moderno, anche se condotta dall’inglese, era avvenuta per Feltrinelli, che nel 1960 aveva pubblicato La civetta cieca di Sadeq Hedayat (Hedayat 1960), mentre nel 1989 Sellerio aveva dato alle stampe una pionieristica antologia di scrittori persiani del Novecento, I minareti e il cielo, curata dall’iranista Filippo Bertotti (Bertotti 1989). Tali episodi, tuttavia, erano rimasti dei casi isolati e fino alla soglia degli anni Duemila le pubblicazioni si erano mantenute sporadiche, non raggiungendo la decina, e per lo più disperse presso editori piccoli e poco distribuiti (Longhi 2016).

Dante e la Russia: le traduzioni novecentesche della Divina commedia

di Giulia Baselica | Nel settimo centenario della morte di Dante il lettore russo dispone di ben quattro traduzioni integrali della Divina Commedia, tutte pubblicate nel Novecento: una in epoca sovietica – la celeberrima versione di Michail Lozinskij (1939-1945), insignita del premio Stalin nel 1946 – e tre negli anni novanta, immediatamente dopo la dissoluzione dell’Urss: quelle di Aleksandr Il’jušin (1995), di Vladimir Lemport (1997) e di Vladimir Marancman (1999). È dunque interessante osservare che alla canonica traduzione di Lozinskij seguono in rapidissima successione tre versioni, l’una dall’altra notevolmente diverse in termini di ricezione e di approccio traduttivo, due delle quali (quelle di Il’jušin e Marancman) concepite negli anni della perestrojka, epoca in cui la letteratura si liberava, finalmente, «dal monologismo in cui era imbrigliata» (Piccolo 2017, 10). Se in epoca sovietica Dante, così come Petrarca e Boccaccio, figurava fra i classici stranieri più diffusamente pubblicati e letti, appunto in traduzioni canoniche, gli anni compresi fra il 1985 e il 1991 favorirono, evidentemente, una inedita libertà ispirativa e progettuale, generando nuove, talvolta audaci, riletture e reinterpretazioni dei monumenti della letteratura universale. Gli esiti si collocano nel decennio – ormai comunemente definito «epoca di transizione» (Piccolo 2017, 9) – che si estende dalla dissoluzione dell’Urss (1991) all’inizio dell’era putiniana (1999).

La traduzione in situazioni di emergenza: crisi umanitarie, sanitarie, e catastrofi naturali

di Paola Brusasco | Le situazioni di crisi – che si tratti di fenomeni naturali o conseguenze di attività umane – sono caratterizzate da alcuni aspetti comuni: l’evento è inaspettato o smentisce le previsioni, costituisce una minaccia per la sicurezza, la salute, la vita o le infrastrutture, e richiede interventi rapidi per contenere gli effetti (Sellnow, Seeger 2013). Tali sconvolgimenti della normalità, seguiti di solito da una temporanea inadeguatezza delle reazioni e da una limitata possibilità organizzativa, provocano, oltre a vittime e danni materiali, anche traumi, angoscia e confusione. Un diverso tipo di crisi, meno improvviso ma altrettanto critico, è quello che si verifica in zone di conflitto o nei campi profughi, dove spesso vengono messi in atto interventi umanitari. In tutti questi frangenti, la comunicazione assume un’importanza vitale, sia per consentire un’efficace collaborazione fra squadre di soccorso o operatori umanitari – spesso internazionali –, forze dell’ordine, volontari, cittadini, sia per aiutare le persone colpite, alleviarne il dolore o organizzare azioni e strutture di sostegno. Nelle società contemporanee accade inoltre spesso che siano presenti comunità di origini e culture diverse i cui componenti non sempre padroneggiano la lingua locale. La comunicazione, urgente e necessaria, rischia pertanto di essere poco efficace o di non raggiungere una parte della popolazione, il che può determinare conseguenze importanti per tutti.

Quando l’errore è nell’originale

di Daniele A. Gewurz | Sugli “errori” di traduzione è stato già detto un bel po’, a partire dalla problematicità in sé del parlare di “errori”, anziché di interpretazioni, approcci diversi al testo e altre categorie più indulgenti. Un vero o presunto “errore” può a volte far sghignazzare o indignare i non addetti ai lavori, ma più spesso invita alla riflessione, a cercare di evitare il nostro prossimo “errore”. Quando però traduciamo, mentre siamo intenti a commettere nostri errori nuovi di zecca (e qui smetto di usare le virgolette: io e chiunque altro commettiamo errori a profusione, e possiamo parlarne senza pudore), ci capita in realtà anche di imbatterci in errori commessi dall’autore nel testo su cui stiamo lavorando. Perché c’è quell’errore, ammesso che sia tale? Che cosa ci dice? Come vogliamo, o dobbiamo, interagirci? Ecco a cosa mi hanno portato l’esperienza, il confronto con i colleghi e qualche riflessione in proposito.