Dal diario di una traduttrice: «Carte in tavola»

LA RIPRESA DI UNA VECCHIA TRADUZIONE, CON L’AUSILIO DELL’AUDIOLIBRO

di Rossella Bernascone

Gentile Professoressa Bernascone,
mi presento, sono Giulio Passerini, editor delle Edizioni E/O. La disturbo perché avremmo intenzione di ripubblicare Democary [sic] di Joan Didion nell’edizione che ha curato per Frassinelli: siamo rimasti colpiti dalla bellezza e dalla profonda attualità di questo testo e siamo convinti che meriti di tornare a disposizione dei lettori. Saremmo interessati pertanto all’acquisto della sua traduzione. Se la cosa potesse interessarle, sarei lieto di discuterne con lei.
In attesa di un suo riscontro, le porgo i più cordiali saluti
Giulio Passerini
Edizioni E/O

Gentile dott. Passerini,
sono molto felice di veder tornare sugli scaffali la traduzione di Democracy
Penso che varrebbe la pena di rivederla, non tanto perché contiene l’errore di traduzione più divertente che mi sia mai capitato, in quanto a quello si rimedia in un attimo, ma perché, ovviamente, in 30 anni una traduzione invecchia (e un traduttore migliora, hopefully.) Insomma, mi sembra che valga la pena di farne non solo una ripubblicazione, ma una bella riedizione. Il fatto che abbiano riproposto il libro anche negli USA nel 2011, e che sia oggetto di studio, mi sembra che ne testimoni l’attualità.
Mi farà molto piacere parlarne con lei.
In attesa, la saluto cordialmente.
Rossella Bernascone

Un regalo di San Valentino, 14/02/2014, quasi un palindromo. Ho amato intensamente tradurre Democracy trent’anni fa. Tornavo da un semestre all’università di Berkeley, e da un paio di mesi di viaggio coast to coast: tanto c’era voluto per rituffarsi nella quotidianità torinese dopo un lungo periodo passato a studiare giornalismo culturale e a tradurre la biografia di Isak Dinesen/Karen Blixen scritta da Judith Thurman.

Tradurre un romanzo uscito dalla penna di una maestra del New Journalism mi era parso, anche allora, un dono. Avevo al mio attivo solo tre libri tradotti: oltre alla biografia letteraria dell’autrice i cui racconti avevano accompagnato i miei anni formativi, i saggi sperimentali di Gertrude Stein sul denaro e la scrittura, e una raccolta di poesia americana contemporanea. Erano anni di innamoramento per la letteratura – in particolare americana e in particolare delle donne – per lo scrivere, per il tradurre. Ricordo l’emozione provata arrivando nella casa editrice in centro a Milano; l’incontro con Rosaria Carpinelli, mia coetanea eppure con un’esperienza già solida alle spalle; non ricordo se uscii con il libro, non ricordo in quali termini si parlò del contratto, ma ricordo Rosaria in controluce, dall’altra parte della scrivania.

Non c’è traccia del contratto nel mio archivio, ma per la biografia di Madame Mao, che non uscirà mai, a fine 1984 si era stipulato con Frassinelli un compenso di Lire 7.000 a cartella. L’’84 era l’anno in cui non avevo ancora ceduto all’idea che di traduzione sola non si potesse vivere, traducevo teatro portando su e giù per treni e traghetti una “portatile” Lettera 35, e per Didion avevo investito in una Olivetti T116 elettronica che costringeva alla stanzialità ma permetteva, meraviglia delle meraviglie, di cancellare le ultime (10?) battute.

Mi capita di riflettere con altri traduttori su come la tecnologia abbia cambiato il nostro modo di lavorare. No, non è esatto dire il «nostro»: quelli della mia generazione conservano l’abitudine a girare le frasi nella testa prima di deporle sulla pagina di un file, come si faceva quando riscrivere una frase significava estrarre il foglio (e le due copie carbone) dalla macchina, gettarle via (non si faceva molto riciclo, forse si usava il dorso per gli appunti, o per appoggiarci la tazza di tè, che non lasciasse l’alone sulla scrivania), ma prima bisognava ribattere tutto quel tradotto.

Le cartelle, però, erano più elastiche allora, si contavano le righe, 33 di circa 65 caratteri, ma quando si andava a capo valeva come una riga completa. E Didion, in quel testo lungo e stretto in mezzo alla pagina dall’ampio margine bianco su entrambi i lati, aveva numerosi capoversi di una brevità promettente.

1

The light at dawn during those Pacific tests was something to see. [due righe nel testo] Something to behold.
Something that could almost make you think you saw God, he said.
[altre due righe] He said to her.
Jack Lovett said to Inez Victor,
Inez Victor who was born Inez Christian.

Ipotizzando che quel giorno a Milano fossi uscita dalla Frassinelli con il romanzo in mano, oggi nella mia biblioteca non c’è la versione originale su cui l’ho tradotto. Ne ho pochissime: era consuetudine dell’editore offrirla “in prestito” per il tempo della traduzione, ma veniva quasi sempre rispedita insieme al dattiloscritto, prima, e al dischetto poi. A volte compravo il libro in inglese, così, per averlo. Non c’era Amazon, a Torino lo potevi ordinare da Hellas o Luxemburg, e lo aspettavi a lungo: due settimane al meglio, a volte due mesi, a volte non arrivava. Democracy non ce l’ho. Me ne rendo conto quando mi si presenta l’occasione di farne la revisione.

Una veloce ricerca su internet mi dice che in Europa lo trovo soltanto a un prezzo superiore alle 50 sterline più spedizione – oggi ce ne sono sei esemplari su Amazon.it a €12.58 – e che, nonostante la riedizione americana del 2011, non è disponibile in ebook. Non intendo spendere 51 sterline, non mi va di aspettare che arrivi dagli Usa. Lo voglio subito. Scopro che c’è in audiolibro: un click e lo apro sul Kindle (si apre un audiolibro?).

Denise Poirier

Incomincio ad ascoltare Denise Poirier, una voiceover actress nota, oltre che per le sue apparizioni in teatro, per il doppiaggio di serie animate, di videogiochi, e per la lettura di audiolibri: capelli castani, occhi verdi, alta 5 cm più di me, una decina di anni in meno, una decina di chili in più. Non lo sapevo quando ho cominciato a farmi ri-raccontare la storia di Jack Lovett e Inez Victor, ma ora lo so.

Quando ho cominciato ad ascoltare Denise Poirier e a seguirne il ritmo della lettura – che in questo momento scorre in sottofondo – mi ha stupito il riaffiorare del romanzo nella memoria, come se non fossero passati trent’anni, come se l’avessi letto da poco. E ho capito che volevo farne la revisione così, basandomi su quella voce che lo leggeva e il mio orecchio che l’ascoltava e non sull’occhio che scorreva sulla pagina. Ho interrotto le ricerche del volume (non sapevo di averlo a meno di un isolato dal luogo in cui lavoro, su uno scaffale della biblioteca Civica centrale, collocazione BCT11D4527), e ho cominciato ad attendere il file word da parte dell’editore, la mia copia cartacea (nel grigio sbiadito della carta carbone) persa in chissà quale degli 8 o 9 traslochi intercorsi.

Mi era stato annunciato il suo arrivo per il 10 giugno: 141 cartelle, avrei avuto dieci giorni di tempo per rivederlo – dieci giorni in un cui, domenica esclusa, lavoravo anche ad altro –, ma il dio che ama i traduttori ha velocizzato il «laborioso lavoro di scansione», e il frutto inatteso è arrivato il 15 maggio.

Le prime sei brevissime frasi non c’è bisogno di toccarle, ma tre righe più sotto la voce di Denise Poirier già mi porta a modificare a pretty fair Sunday painter da «era un pittore della domenica, ma niente male» a «era un dilettante niente male»: da sedici sillabe a dieci, contro le otto dell’inglese.

Non è ancora finita la prima, breve, pagina che mi arresta il Two Quonsets: «Un paio di Quonset», avevo tradotto. Quonset maiuscolo e non avevo idea di che cosa fossero. L’avevo cercato dove si cercavano le cose allora, in biblioteca, ma non avevo trovato nulla, e ora in meno di due secondi Wikipedia mi dà la risposta: scopro che in inglese britannico si dice Nissen hut, che in italiano si traduce con «grossa baracca tondeggiante di lamiera ondulata» e decido di scriverlo in minuscolo, perché si chiamano Quonset huts, ma Jack Lovett li chiama familiarmente Two Quonsets; allora avevo scelto «un paio di» per rendere l’espressione più colloquiale, adesso opto per il ritmo Two/Due. Converto They roll down, srotolano, nell’impersonale che è, quindi «Due quonset di lamiera e una di quelle piste d’atterraggio che si srotolano, sai quel materiale che si srotola come se fosse un tappetino per il bagno». In realtà il personaggio dice a goddamn bathmat, ma il cinematografico «fottuto» non l’ho messo nell’’84 e non lo metto ora, non per censura, ma perché sono convinta che in italiano – a dispetto di quel che si sente sugli autobus – le diverse variazioni sul termine appesantiscono, inoltre il tappetino da bagno contiene già nel suffisso diminutivo una connotazione dispregiativa, soprattutto se paragonato alle dimensioni della pista da atterraggio, e ci sono altri «dannata» e «merdata» e «il buco del culo dell’universo» nella pagina seguente che ci aiutano a caratterizzare l’eloquio di Jack Lovett. Dovrò stare attenta al suo tono: restituirgli quel goddamn prima o poi, o mi accontenterò del 75% delle sue imprecazioni?

E intanto pigio avanti e indietro il tasto dell’audiolibro e Denise Poirier, mai stanca, ripete con una voce studiatamente impersonale, quasi monotona, le studiate ripetizioni di quel primo capitolo. Sorrido della me di trent’anni fa quando vedo che nella frase because by then they were using computers instead of analog for the diagnostics, l’instead of analog era scomparso. Sono piuttosto sicura che non si usasse correntemente «l’analogico», o forse era solo ignoranza della traduttrice (che ancora non aveva insegnato inglese ai ragionieri programmatori): lo reintegro.

Due righe più sotto their wives and daughters era diventato «la famiglia». Perché? L’avevo scelto io a suo tempo? Il revisore? Non era piaciuta la ripetizione della laterale approssimante palatale gli? Ma è importante, perché Lovett ci sta dicendo che non è un posto per donne. Reintegro mogli e figlie e mi dico che di questo passo ci vorranno dieci settimane, altro che dieci giorni…

D’altronde il primo capitolo si conclude con l’affermazione: «Questa è una storia difficile da raccontare.» E lo è davvero. Un libro snello che si legge lentamente, la narrazione è frammentata ed ellittica, cinematografica per certi versi: fermo immagine, close up, un montaggio che si apre con un meta-flashback, che si rifà alle immagini dei telegiornali del tempo, al last chopper out of Saigon di cui ora si possono vedere 28 secondi a colori su Youtube, alle fotografie che apparivano sui giornali, su cui proietto Inez Victor née Christian per cui la vita si è ridotta a una serie di opportunità di essere fotografata accanto al marito dal cognome ironico, candidato politico sconfitto nella corsa alla nomination del suo partito. Un documentario interpolato da una storia d’amore che è una sorta di coitus interruptus lungo un libro, e che solo a due terzi si rivela un giallo senza mistero, tranne il movente che resta tuttora misterioso.

Come misterioso è un dernier regard che compare nella mia prima versione quando Denise Poirier dice un regard d’adieu: mi rifiuto di credere che sia stata una scelta mia, io che due pagine dopo ho lasciato in inglese la poesia di Wallace Stevens e l’ho tradotta in nota. Vorrei avere sottomano l’edizione americana del 1984, ipotizzo che si tratti di un «errore» dell’autrice, poi corretto nella seconda edizione (d’altronde il mio primo istinto è sempre di incolpare qualcun altro, prima di assumermi doverosamente la responsabilità, ma qui non riesco a convincermi che si tratti di una scelta mia). Ma è anche probabile un intervento, allora, in sede di revisione. Non lo sapremo mai.

L’autrice

Ecco. Il problema successivo. Il primo capitolo si chiude con: «Questa è una storia difficile da raccontare» e il secondo si apre col melvilliano «Call me the author», quattro parole (tre in italiano, ma sempre più sillabe, sette contro cinque): chiamatemi l’autore o chiamatemi l’autrice?

Non chiedo aiuto per questa scelta, non mi rivolgo a mailing list o forum, non creo un polling su Doodle, so che va tradotto con «l’autore». Non so spiegare come lo so, gut feeling dicono oltremanica, oltreoceano. È l’Autore come è il Creatore e come è la creazione/creatura nel versetto 27 del libro della Genesi: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.»

L’autore è maschio e femmina: the author nella prima riga e Joan Didion nella seconda, il capoverso in cui Miss Didion – così si riferisce a lei Mary McCarthy nella recensione a Democracy sul New York Times del 22 aprile del 1984 – ipotizza come Trollope avrebbe potuto cominciare questo romanzo: con la citazione dell’incipit di The Way We Live Now, sostituendo il proprio nome a quello di Lady Carbury. Non avrei avuto modo di saperlo trent’anni fa, a meno di leggere gli incipit di tutti i libri di Trollope, o con un po’ di fortuna, aprire per primo quello pubblicato nel 1875, a cent’anni dall’evento chiave descritto dal romanzo, ma che ora è a portata di un click. È pubblicato da Sellerio, La vita oggi, ma non c’è in ebook, a differenza di diversi altri dell’autore, non è neppure uno di quelli di cui puoi leggere l’estratto online e a ordinarlo costa €22.10: ritradurrò senza sapere come l’hanno reso in italiano Cerrone e Pignata. È un libro di satira sociale ispirato a scandali finanziari scoppiati nei primi anni settanta dell’Ottocento. La presentazione del libro dice che Trollope mette in scena la disonestà dei suoi tempi: «Disonestà politica, morale, intellettuale, perfino giornalistica, oltre che economica. Un quadro desolante di generale corruzione». Ciò rinforza quel che già sappiamo dal titolo/citazione del romanzo di Henry Adams, pubblicato anonimo nel 1880 ma ambientato in quegli stessi anni – cento prima del Watergate – sull’uso e l’abuso del potere politico e sui mezzi per conquistarlo. Come dire: 1875, 1975, 1984, 2014… la vita oggi.

Semplicemente essere

Se solo avessi pensato di cercare la traduzione di Trollope – anche telematicamente sul sito dell’Opac – là dove cercavo le cose trent’anni fa, avrei trovato pure lui a un isolato di distanza, Biblioteca civica centrale, BCT11D34261. Ma ora come allora l’ho tradotto io, traduttrice di Didion riscrittrice di Trollope, e questa volta traduco anche i versi di Wallace Stevens. Mi serve sapere come continua la poesia? «Tu sai che non è quella la ragione / Che ci rende felici o infelici». Of mere being s’intitola la poesia, semplicemente essere. È di questo che “parla” il romanzo? È questa la sua ragione d’essere? Perché Didion inserisce questa poesia come qualcosa che ha in mente in alternativa a «un modo univoco» (inequivocabile, avevo tradotto la prima volta) di cominciare questo romanzo? Fa parte delle cose che «ha in mente».

In un suo saggio On Keeping a Notebook, scrive: Why did I write it down? In order to remember, of course, but exactly what was it I wanted to remember? How much of it actually happened? Did any of it? Why do I keep a notebook at all? Probabilmente da un taccuino trent’anni fa, un notebook cinque, dieci anni fa, un tablet ora, Didion ha: «Colori, umidità, calore, l’aria abbastanza azzurra», ma soprattutto ha se stessa che qui introduce, cortocircuitando l’inizio del capitolo, come personaggio citato da altri autori in un esercizio di composizione per studenti centrato sul suo stile ironico.

Recentemente ho trovato un compito stimolante (per me) in un manuale di composizione per studenti. «La Didion esordisce con un riferimento piuttosto ironico alla ragione che l’ha spinta a scrivere questo pezzo. Utilizzate questo espediente nell’introduzione del vostro scritto: potete copiarne il tono ironico-ma-sincero, oppure lo stile arguto. Ampliate l’analisi allo sfondo: avete notato l’uso della scena quale base retorica? La scrittrice ritorna continuamente ai diversi dettagli della scena: dove, come e con quale effetto? Considerate anche il coinvolgimento personale della Didion nello sfondo, che ottiene così un’atmosfera molto particolare, analizzate in quale modo raggiunge tale risultato».

Did any of it happen? L’esercizio, assignment, l’ho chiamato «compito» per un personalissimo cortocircuito che unisce il compito benjaminiano, die Aufgabe che in inglese fa the task of the translator, con la didattica task based che lascia al discente – leggi al traduttore – il controllo del linguaggio. Non credo che nessuno l’avrebbe mai scoperto, ma ora voi, lettori, ne siete avvertiti. « Carte in tavola.»

Sono alla sesta pagina di 224, al minuto 8:48 di 5 ore, 16 minuti e 7 secondi d’audiolibro, e sono già passati tre giorni di revisione.

La democrazia (da tradurre) è un puzzle tridimensionale

Didion ricompare a Berkeley nell’undicesimo capitolo, tiene un corso sul concetto di democrazia in George Orwell e Ernest Hemingway, Henry Adams e Norman Mailer. (Ho ascoltato Mailer a Berkeley nel 1983, quando Didion scriveva questo libro: lui parlava del suo ultimo romanzo Ancient Evenings, i posti nell’auditorium erano tutti esauriti. Io, però, ero stata folgorata dal suo precedente, The Executioner’s Song, un non-fiction novel che veniva studiato al corso di giornalismo). Alla fine di Democracy Didion incontrerà Inez sulla veranda di un bungalow a Kuala Lumpur. Creatore e creatura, due amiche che hanno lavorato per Vogue e forse si erano conosciute lì. Did any of it happen? Didion sì, lavora a Vogue per sette anni; cosa c’è di Joan in Inez? E di Inez in Joan?

Mary McCarthy dice che Democracy è un puzzle, abbiamo sotto gli occhi tutti i pezzi, o il loro rovescio, e sta a noi combinarli; nel sentire i bordi che vanno a combaciare sta (l’eventuale) piacere che proviamo a leggerlo. A me pare di star lavorando a un puzzle tridimensionale: nelle orecchie la voce che legge l’inglese, sullo schermo il file in modalità revisione, a sinistra la traduzione del 1984, inutile se non per la sua funzione di unico oggetto materiale a mia disposizione, in cui la parola si è fatta carta.

Gli errori sono pochi, grazie al cielo: un «immagino» al posto di «immaginate»; docent tradotto con «docente» perché il significato Am. Eng. di «guida di museo», che oggi troviamo anche sul Ragazzini bilingue, nel 1984 non c’era né sui dodici volumi dell’Oxford English Dictionary, né sul dizionario dell’Encyclopedia Britannica. C’era sull’immenso Webster che avrei acquisito l’anno dopo, troppo tardi per questa traduzione. Altri errori non ne vedo, a parte quello smascherato dall’americanista Bonetto: la resa di landing gear come «marcia d’atterraggio» invece che «carrello». Errore dovuto all’assidua frequentazione negli anni sessanta dei film che nel mese di settembre venivano trasmessi alla TV la mattina, nella zona di Torino, in occasione del Salone della scienza e della tecnica. Ho visto innumerevoli piloti militari in bianco e nero azionare leve che assomigliavano in tutto alle marce dell’auto, quindi nessuno stupore per la traduttrice (né per il revisore) che gli aerei avessero la marcia d’atterraggio. Per anni, dopo quell’episodio, ho cercato OGNI nome composto sul dizionario.

Tolti gli errori, si tratta soprattutto di scegliere sinonimi più precisi entrati nel lessico in questi ultimi anni. Le droghe di cui fanno uso i figli di Inez Victor sono sostanze psicotrope non più chimiche. Nell’ambito delle attività di cui si occupa Jack Lovett (quali siano a tutti gli effetti non è dato di sapere, trattandosi evidentemente di un agente della CIA), il termine «governativo» è senz’altro più adatto che «statale». Gli attori in campo non sono più, semplicisticamente, amici o nemici, ma interlocutori bendisposti o ostili. Il lessico politico a base di cliché di Harry Victor è inossidabile e ripetuto dai nostri telegiornali. Quasi non c’è bisogno di toccarlo.

Lavoro quindi al ritmo. Cambiamenti minuscoli: lo spostamento di un aggettivo, un articolo determinativo al posto del pronome dimostrativo… La voce di Denise Poirier nell’orecchio interiore, anche quando faccio o ascolto altro. Alla fine mi ci vorranno sei settimane per terminare il libro, e probabilmente ne avrei voluta ancora una per poterlo rileggere io, in italiano, ad alta voce. Cosa che sono riuscita a fare solo per alcuni brani di cui ero meno sicura. Se non ci fosse la redazione a strapparci metaforicamente dalle mani il pezzo, non lo lasceremmo mai andare.

Coda

A libro pubblicato è arrivata una mail dalla redazione:

Cara Rossella,
un attentissimo lettore ci segnala questi due dubbi dopo aver letto Democracy.
Ci sembra possa avere ragione, anche se non abbiamo l’originale sotto gli occhi e dunque non possiamo verificare.
Se mi fai sapere correggiamo in caso di ristampa.
Grazie,
Simona
— pag. 152, riga 7: deteriorò: degenerò?
— pagina 152, ultima riga: poteva caricare: poteva rimorchiare?
— pagina 159, riga 2 dopo lo stacco bianco: poteva caricare: poteva rimorchiare? farsi rimorchiare?

Cara Simona,
“caricare” è la versione del nord-Italia (attestata sino a Firenze) del “rimorchiare” decisamente più comune soprattutto, ma non solo, in centro Italia. La traduttrice, il revisore e la casa editrice precedente sono lombardo-piemontesi per cui il termine “caricare” è d’uso comune.
Se però preferite “rimorchiare” non ho, ovviamente, alcun problema; ma assolutamente NO “farsi rimorchiare”, perché vogliamo la ragazza attivamente impegnata nella ricerca di partner e non passiva e disponibile.
Per quanto riguarda “degenerò”, l’inglese del testo è deteriorated che può tradursi con entrambi i termini. Ho preferito “deteriorò” perché la scrittura dell’io narrante, alias (ma non proprio) Didion, è giornalisticamente stiff, quindi ho scelto di renderlo così, più “legnoso” in italiano. Se voi preferite «degenerò» sono sicura che nessun attento lettore si preoccuperà del deterioriated originale, ma personalmente e programmaticamente io tendo a non normalizzare il lessico della traduzione.
Mi interessano moltissimo i commenti del nostro lettore! Sto scrivendo un pezzo sulla revisione di Democracy per la rivista «tradurre», sarebbe prezioso se mi potessi trasmettere i suoi commenti anche in forma anonima.
Un abbraccio riconoscente per la cura con cui affrontate il lavoro.
Rossella

Non sono arrivati altri commenti. Ma io aspetto. Ho aspettato trent’anni questa opportunità, tra nove anni se ne potrà fare una nuova edizione.

Nota redazionale

di «tradurre»

A queste preziose pagine strappate a un diario personale occorre qualche chiarimento. «Carte in tavola» (Cards on the table) è una citazione dallo stesso Democracy di Didion. A sua volta il titolo del libro ricalca quello di un romanzo di Henry Adams del 1880, menzionato più avanti. I versi di Wallace Stevens nell’originale sono: You know then that it is not the reason / that makes us happy. L’incipit della traduzione di Romano Carlo Cerrone e Piero Pignata da The Way We Live Now di Anthony Trollope suona così:

Mi si conceda di presentare al lettore Lady Carbury, dalla cui personalità e dal cui agire dipenderà in larga misura qualunque interesse possano avere le pagine che seguono. In questo momento la signora siede allo scrittoio, in camera sua, nella sua casa di Welbeck Street (La vita oggi, Palermo, Sellerio, 2010, p. 21).

E visto che spesso i lettori di «tradurre» sono come quello della mail citata nella Coda dell’articolo, riteniamo opportuno che possano confrontare i brani citati solo in traduzione col loro originale. Eccoli, nell’ordine in cui compaiono nel testo di Bernascone:

«Questa è una storia difficile da raccontare»: This is a hard story to tell.

«Colori, umidità, calore, l’aria abbastanza azzurra»: Colors, moisture, heat, enough blue in the air.

«La Didion esordisce con un riferimento piuttosto ironico alla ragione che l’ha spinta a scrivere questo pezzo. Utilizzate questo espediente nell’introduzione del vostro scritto: potete copiarne il tono ironico-ma-sincero, oppure lo stile arguto. Ampliate l’analisi allo sfondo: avete notato l’uso della scena quale base retorica? La scrittrice ritorna continuamente ai diversi dettagli della scena: dove, come e con quale effetto? Considerate anche il coinvolgimento personale della Didion nello sfondo, che ottiene così un’atmosfera molto particolare, analizzate in quale modo raggiunge tale risultato»: Didion begins with a rather ironic reference to her immediate reason to write this piece. Try using this ploy as the opening of an essay; you may want to opy the ironic-but-earnest tone of Didion, or you might try making your essay witty. Consider the broader question of the effect of setting: how does Didion use the scene as a rhetorical base? She returns again and again to different details of the scene: where and how and to what effect? Consider, too, Didion’s own involvemet in the setting: an atmosphere results. How?

Una possibile traduzione della citazione dal saggio di Didion On Keeping a Notebook (1968) è «Perché l’ho scritto? Per ricordare, naturalmente, ma esattamente che cos’è che volevo ricordare? Quanto di tutto ciò è realmente accaduto? E’ accaduto davvero qualcosa? Perché lo tengo, un diario, poi?»