Luca Crescenzi
Melancolia occidentale. La montagna magica di Thomas Mann
Carocci, Roma 2011, € 25,00
di Massimo Bonifazio
Con ammirevole acribia e una scrittura piacevolmente limpida Luca Crescenzi affronta i sentieri di una delle più impervie opere della letteratura tedesca, il romanzo Der Zauberberg di Thomas Mann (1924), di cui ha già curato il Meridiano Mondadori che nel 2010 ne ha offerto una nuova traduzione italiana, creando un interessante caso editoriale. Interessante a partire dal titolo, che aggira una consolidata tradizione e trasforma La montagna incantata, come il romanzo era noto al pubblico italiano fin dagli anni Venti, in La montagna magica, una versione più fedele dell’originale tedesco. Renata Colorni, autrice della splendida traduzione, giustifica le sue scelte in un’interessantissima Nota, nella quale si ricostruisce anche la storia della ricezione italiana del romanzo e insieme del suo titolo, con la prima recensione di Leonello Vincenti del gennaio 1925 che propone Il monte magico e quella di Lavinia Mazzucchetti due mesi dopo che per prima conia il sintagma La montagna incantata. La prima traduzione integrale del romanzo è a cura di Bice Giachetti-Sorteni e viene pubblicata nel 1932 per i tipi della casa editrice Modernissima (poi Corbaccio e Dall’Oglio), accogliendo il titolo proposto da Mazzucchetti; contiene però indebiti tagli e gravi inesattezze. Dopo vari tentativi mondadoriani di affidare una nuova traduzione – fra gli altri a Giuseppe Antonio Borgese e Eugenio Montale – sarà Ervino Pocar, alla fine degli anni Cinquanta, a ottenere l’incarico, senza riuscire a far mutare il titolo come avrebbe voluto in La montagna magica o Il monte magico. La traduzione viene pubblicata nel 1964 e resta quella standard fino a quella di Colorni, la quale rende assai meglio giustizia allo stile dell’originale, a tutto quel magmatico ribollire, quel vertiginoso accavallarsi di rimandi, temi, allusioni, ricoperti dalla pacificante patina della scrittura manniana: armoniosa, elegante, di «prodigiosa ricchezza lessicale», come la definisce la traduttrice nella sua Nota.
Il saggio Melancolia occidentale amplia e sistematizza alcune intuizioni che Crescenzi aveva già utilizzato nelle ricchissime note e nell’introduzione al Meridiano, fornendo un’interpretazione sostanzialmente nuova dell’opera, che viene collegata direttamente a una tradizione a cui fino ad ora si era dato poco peso nella pur ricchissima letteratura critica sullo Zauberberg. Al centro del saggio, come rivelato già nel titolo, sta quell’intimo rapporto con la morte che secondo l’autore caratterizza tutte le forme della cultura, della politica e della religione occidentali, ossia la melancolia; il romanzo stesso non sarebbe altro che una grande rappresentazione dell’universo della cultura e della tradizione di questo atteggiamento «geniale», incarnato dal protagonista Hans Castorp. Crescenzi individua nello Zauberberg il ricorrere di elementi ripresi dalla famosissima incisione di Albrecht Dürer Melencolia I, mediati da alcuni saggi di storici dell’arte del primo Novecento, in particolare Die Kunst Albrecht Dürers di Heinrich Wölfflin (1905; tradotto dallo stesso Crescenzi per Salerno, Roma, nel 1987 col semplice titolo Albrecht Dürer) e Dürers Stich “Melencolia I” und die maximilianische Humanistenkreis (1903-1904: L’incisione di Dürer “Melencolia I” e il circolo umanistico massimilianeo) di Carl Giehlow. Da questi Thomas Mann avrebbe tratto molte conoscenze sull’antica tradizione malinconica, in quel periodo non ancora così nota come lo sarebbe poi stata in seguito grazie ai lavori di Erwin Panofsky e Fritz Saxl, che proprio da Giehlow traggono alcuni spunti fondamentali. L’idea di Crescenzi è che Mann abbia utilizzato il complesso malinconico in maniera implicita, assegnando caratteristiche tipiche della malattia malinconica a tutta la struttura del romanzo, dai personaggi alle ambientazioni, proprio per segnalare quell’inclinazione alla morte della cultura occidentale per lui così problematica. Infatti, se da un lato essa traeva alimento dall’amata tradizione romantica ed era in grado di conferire spirito alla vita (permetteva cioè le avventure spirituali dell’arte, che nel dualismo manniano è in ogni caso estranea e opposta alla vita), dall’altro si era ipostatizzata nell’immane carneficina del primo conflitto mondiale. Il personaggio di Hans Castorp è «geniale» non perché artista, ma perché ha in sé fin da bambino un’inclinazione alla morte che poi viene ricoperta dalla patina omogeneizzante dei comportamenti sociali adeguati, e permane in lui solo come traccia malinconica. Secondo Crescenzi il romanzo è la storia dell’«educazione erotica» del giovane alla vita, che attraverso gli incontri fatti al sanatorio riesce ad uscire dall’alveo della morte – in un percorso esattamente opposto a quello di Gustav von Aschenbach nel Tod in Venedig (Morte a Venezia, 1912) – per diventare, paradossalmente, un “destinato alla morte” come volontario in guerra; ma, sembra di capire, è una morte che fa parte della vita, non ne costituisce solo l’astratto orizzonte ideale.
La decisione di partire per il fronte è una conseguenza del «risvegliarsi di Castorp» dal suo sonno settennale. Proprio questo «risveglio» alla fine della vicenda è un altro elemento su cui il saggio punta molto. Crescenzi interpreta i brani che lo riguardano come dei segnali fondamentali per la comprensione del romanzo. L’intero testo non sarebbe che il sogno di un soldato al fronte, improvvisamente risvegliato da un «rombo» che risuona sul campo di battaglia – non solo una metafora per la guerra, come generalmente si è portati a pensare, ma un concreto colpo di cannone che è causa e fine del sogno di Castorp, secondo un’osservazione che è di Freud ma anche già di Friedrich Nietzsche e Carl du Prel. Questo escamotage sarebbe utilizzato da Mann per rendere per così dire narrative le modalità dell’«educazione erotica» del giovane, che passa per una catabasi (ricordiamo qui l’interessante saggio di Matteo Galli La catabasi del buonannulla. Saggio sullo Zauberberg di Thomas Mann, Pasian di Prato, Campanotto 1993), che non è altro che una discesa nel proprio inconscio. Crescenzi punta ovviamente l’attenzione su Freud, retrodatando la lettura della sua opera da parte di Mann al 1912-13, contro le indicazioni dello stesso scrittore, che afferma di averla affrontata solo a partire dal 1925; e trascurando forse un po’ troppo le intuizioni sull’inconscio che Mann poteva già trovare nei suoi maestri Nietzsche e Schopenhauer, oltre che nei ‘suoi’ romantici tedeschi. Del resto più avanti, per esempio nel saggio del 1929 Die Stellung Freuds in der modernen Geistesgeschichte (La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno, traduzione di Italo Alighiero Chiusano, in Thomas Mann, Scritti minori (Tutte le opere vol. XII), Milano 1958, Mondadori, pp. 467-491; ora in Nobiltà dello spirito, a cura di Andrea Landolfi e con un saggio di Claudio Magris, Mondadori, Milano 1997, 1349-1375 ), è piuttosto chiaro che Mann si interessa alla psicoanalisi non tanto come metodo terapeutico o interpretativo delle istanze del profondo, quanto piuttosto come «forma fenomenica dell’irrazionalismo moderno» che, con la sua «volontà sanitaria […] si oppone inequivocabilmente a ogni abuso reazionario», in aperta polemica con gli irrazionalisti come Alfred Bäumler e Ludwig Klages. L’altro punto di riferimento individuato da Crescenzi e trascurato dalla critica precedente è Die Philosophie der Mystik (1885: La filosofia della mistica), nella quale Carl du Prel sviluppa una teoria del sogno e del sonnambulismo che anticipa Freud, quantomeno per l’idea di un fondamento soggettivo dell’inconscio; tracce evidenti di quest’opera sono rilevate soprattutto nell’episodio Notte di Valpurga. L’aggettivo «erotica» collegato a «educazione» trova qui chiarimento: è il confronto con le forze pulsionali dentro di lui a spingere il giovane verso la vita.
Nell’entusiasmo per le sue scoperte, Crescenzi ogni tanto si fa prendere la mano nel cercare dentro il testo manniano dettagli che confermino le sue ipotesi, correndo a tratti – ma a tratti, va detto, molto brevi! – il rischio di appiattire il romanzo su un’interpretazione a senso unico, laddove invece il fascino e lo spavento della Montagna magica è l’incredibile quantità di sentieri e vie ferrate che offre al lettore per conquistarla.