Il laboratorio artigiano di casa Mezzomonti-Cantimori

EMMA MEZZOMONTI E LA TRADUZIONE DEL MANIFESTO DI MARX ED ENGELS

di Massimo Mastrogregori

1.

Gilbert Garcin, “La Tour de Babel”

Nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx e Engels accennano, a un certo punto, a una specie di traduzione fallita: Deutsche Philosophen, Halbphilosophen und Schöngeister  – scrivono – bemächtigten sich gierig dieser Literatur (Marx, Engels 19778, 485: «Filosofi, semifilosofi e begli spiriti tedeschi s’impadronirono avidamente di questa letteratura [socialista e comunista francese]» – Mezzomonti 1948, 180), ma in modo maldestro, senza che ci fossero, in Germania, le Lebensverhältnisse (condizioni di esistenza) che in Francia avevano reso possibili quegli scritti: prima fra tutte la lotta contro il dominio della borghesia, che in Germania, negli anni intorno al 1840, stava appena iniziando. I deutschen Literaten («letterati tedeschi») provarono a intendere quei testi, a comprenderli. Mancava loro, però, la necessaria esperienza storica. Rimasero, di fronte a quegli scritti francesi, come di fronte a una lingua straniera sconosciuta. Per farla loro, per impararla, fecero quello che di solito si fa: tentarono una traduzione, partendo von ihrem philosophischen Standpunkte (Marx, Engels 19778, 486: «dal loro punto di vista filosofico» – Mezzomonti 1948, 181), l’unico che possedevano.

Il risultato, continuano gli autori, fu una versione di quegli scritti che rimase esterna rispetto all’originale, non vi penetrò dentro. Al contrario di quel che accadde con i palinsesti medievali, quando le storie edificanti dei santi furono sovrascritte alle opere classiche, l’originale francese non fu cancellato, né bruciato nel fuoco di una nuova esperienza e superato con una forma nuova e viva. Resistette insuperato, e la versione dei dottrinari tedeschi visse una sua vita parallela, esteriore rispetto ai testi socialisti e comunisti francesi. Non fu affatto una traduzione, ma una surrettizia, insinuante sostituzione. Come se – intendono dire gli autori – malamente si fosse appiccicato sopra all’originale il nuovo testo, o fatto scivolare sotto di esso, o dietro, lasciando l’originale intatto, tanto lucido ed espressivo, quanto inerte e muto fu il risultato del loro tentativo.

La differenza tra gli scritti francesi e quelli tedeschi – aggiungono Marx e Engels – non fu solo libresca, di riuscita letteraria. Con quella versione filosofica astratta, che non aveva un retroterra storico, vitale, ed era innocua, priva di potenzialità politiche, die französische sozialistisch-kommunistische Literatur wurde so förmlich entmannt (ibidem: «la letteratura francese socialista e comunista fu letteralmente evirata» – Mezzomonti 1948, 181). Una vera traduzione sarebbe stata, invece, tanto potente quanto l’originale.

Troviamo due spunti interessanti, in questo passaggio del Manifesto. Il primo è il richiamo alla concretezza, al «vigore» storicistico, a proposito della traduzione: non si intende un testo, senza far propri i presupposti storici di esso; non si produce una vera traduzione, senza alcune condizioni di esistenza, comuni all’originale e alla nuova versione.

Il secondo è che una traduzione – se cattura la vita che c’è nell’originale e la restituisce in una forma nuova – è una forza in grado di produrre effetti, e in una lotta è come un’arma, pronta a incidere nel nuovo contesto in cui vede la luce.

E’ come se Marx e Engels dicessero: se originale e traduzione restano separati, incomunicanti tra loro – e la seconda resta scollegata da quelle condizioni vitali che hanno reso possibile il primo, e sulle quali, con i dovuti cambiamenti, la traduzione sarebbe destinata a incidere – l’appropriazione non avviene regolarmente, ma abusivamente. Il processo in effetti è diverso rispetto a quello che genera i palinsesti medievali – dove l’originale è grattato via, ricoperto con un nuovo testo che non ha alcun rapporto con esso – ma produce un risultato equivalente: due forme tra loro indifferenti, slegate, senza rapporto. La traduzione fallita resta troppo al di sotto dell’originale, arranca dietro all’originale.

2.

Le traduzioni italiane di questo punto del Manifest der Kommunistischen Partei, per quello che ho visto – quella di Antonio Labriola (1938, 117), quella di Benedetto Croce (1924, 380-1), quelle di Palmiro Togliatti (1980, 98) e, da ultimo, Domenico Losurdo (20055, 44) – adottano soluzioni testuali leggermente diverse, ma tutte fanno capire benissimo al lettore il pensiero di Marx e Engels su questo punto. Croce poi, nel novembre 1924, si servì di questo passaggio del Manifesto per trarne un paragone contemporaneo molto interessante e molto “marxiano”, robustamente storicistico e antigentiliano (Croce 1924).

Nel 1955, invece, Sebastiano Timpanaro trovò che qualcosa non andava in quel paragrafo di Marx e Engels, proprio dove parlano dei palinsesti medievali e del loro contrario, i testi scritti hinter («sotto» o «dietro»: Marx, Engels 19778, 486) altri testi: ipotizzò che si trattasse di un lapsus. Cinque anni dopo ne scrisse all’amico Cesare Cases, che gli rispose con una dotta lettera, che provava a salvare il testo dall’ipotesi demolitoria del lapsus. Per qualche tempo continuarono a pensarci, e non esclusero di pubblicare la loro discussione, senza poi farlo effettivamente. Già nel 1955 (Timpanaro), e poi nel 1960 (Cases), avevano interpellato sulla questione Delio Cantimori – storico, professore, intellettuale militante, polemista – il quale però, in entrambi i casi, non rispose. L’intero carteggio è oggi pubblicato: il lettore potrà farsi un’idea dei loro argomenti (Cases, Timpanaro 20052, 41-58).

Ma perché, poi, interpellare proprio Cantimori? Le parole citate qui in esordio al punto 1, tra virgolette, provengono dalla maggiore “impresa” di traduzione del Manifest, quella einaudiana del 1948. Un bellissimo libro, che però non fu firmato da Cantimori, ma dalla moglie. Non avrebbero dovuto rivolgersi a lei, i due filologi amici assillati dal dubbio?

Già nel 1947, mentre era in corso la traduzione del Manifesto di cui parliamo, il 30 maggio, Giulio Einaudi scriveva a Cantimori: «conto assolutamente sul Manifesto entro luglio». Tre mesi dopo, Cantimori protestava con Felice Balbo, della casa editrice: ma perché, poi, continuate a sollecitare me, per il Manifesto? La traduttrice è mia moglie  (Mangoni 1999, 348 nota).

3.

La vita della traduttrice del Manifesto non è stata mai raccontata, tanto meno da lei. Nei lavori su Cantimori si trovano, occasionalmente, note a piè di pagina che la riguardano. Se le notizie sulla sua vita legale di insegnante e traduttrice sono assenti, ci sono solo scarni accenni alla sua attività illegale e alla sua vita clandestina durante il fascismo: la militanza comunista di vecchia data, l’impegno nel Soccorso rosso, il contatto con Emilio Sereni (Miccoli 1968, 548 nota; S. Seidel Menchi, pp. 781-782). Era nata nel 1903 e aveva sposato Cantimori nel 1936. Il lettore troverà in questo articolo un estratto – dedicato alla traduzione del Manifesto – di un lavoro di ricerca più ampio sulla vita di Emma, in corso di pubblicazione.

4.

Arrivato a Parigi nel 1932 dall’America, esule dall’Italia per la sua scelta comunista, Ambrogio Donini fu incaricato da Togliatti di sviluppare la carente attività del partito con gli intellettuali. Per prima cosa, Donini avviò una casa editrice, le Edizioni di cultura sociale, e un programma di pubblicazioni marxiste. Lavorarono in questo settore, tra Parigi, Bruxelles e Mosca – dove si misero all’opera anche Togliatti e Felice Platone – oltre a lui, Nicola Potenza e, poi, Emilio Sereni e Giorgio Amendola. Qualunque attività abbiano svolto negli anni trenta, dal buio della cospirazione e dell’occupazione tedesca di Roma, tra il 1943 e il 1944, Emma Mezzomonti e Delio Cantimori emersero, si può dire, sviluppando tale attività editoriale per il partito, progettando libri e traducendo il Manifesto del partito comunista. Delio allora lavorò infatti, con Carlo Bernari, al progetto di una collana di libri sul «Pensiero sociale moderno» per una Nuova biblioteca editrice (Manacorda 1979, 83-84; Ferri 1989, 227-228; Acocella 2018, 347-366; Rogante 2015, 145-46), collana che prevedeva la pubblicazione di tutte le opere di Marx, Engels, Lenin e Stalin, e anche la prima edizione degli scritti di Antonio Gramsci, oltre a una serie di ricerche e di fonti sulla storia del socialismo e del movimento operaio.

In quella collana era prevista anche l’edizione del Manifesto del partito comunista, a cura di Togliatti – che alla traduzione aveva lavorato a Mosca – e dello stesso Cantimori, il quale dal febbraio 1945 tenne a Pisa liberata una trentina di lezioni proprio sul Manifesto, «traduzione analitica» e «commento storico-filologico» (Miccoli 1970, 342). In gennaio, d’altra parte, Einaudi, per il tramite di Gastone Manacorda, aveva incaricato Emma di curare la traduzione del Manifest per la collana marxista che si proponeva di pubblicare d’intesa col partito (Mangoni 1999, 323 nota). Il Manifest entrava così nel «laboratorio artigiano» di casa Cantimori-Mezzomonti (Mezzomonti 1948, 9).

Dieci anni prima, Emma, ancora «poco agguerrita» in fatto di letture marxiste, non aveva potuto nemmeno leggere la nuova edizione critica del Manifest di Marx ed Engels (Mezzomonti 1955, 808). E ora si trovava incaricata di tradurla in italiano: la sua prima prova come traduttrice. Il caso era diverso per Delio, che aveva potuto viaggiare e procurarsi all’estero molti testi marxisti – libri proibiti in Italia – maturando così una conoscenza precisa e un’informazione aggiornata su quei classici, che pochissimi in Italia potevano avere in quel momento. Lorenzo Mesini non manca di osservare, a proposito di tali letture, qualche incongruenza: il Cantimori che nel 1933 sottolinea «l’energia critica» del Capitale di Marx nell’ed. Korsch, è lo stesso autore che poco oltre scrive: «non è qui il luogo di confutare il marxismo né ormai c’è da discuterne» (Mesini 2018, 487-522). A sua volta Giovanni Miccoli esprime il «sospetto di letture marxiane ed engelsiane già compiute» nei tardi anni venti (Miccoli 1970,  52-53), mentre Carlo Ludovico Ragghianti ricorda il «travaso [nel 1928-1929] della sua piccola biblioteca proibita di testi di “socialismo scientifico” in quella di Cantimori, che allora forse l’accolse per la mania di bibliofilo che già l’occupava» (Ragghianti 1970, 12). Nel 1929-1930, Cantimori ai liceali cagliaritani allora suoi allievi chiese se avessero notizie, anche indirette, su Gramsci (Dessì 1967, 307). Ernesto Sestan ricordava la propria perplessità quando Cantimori, verso il 1933, si appropriò «con avidità» della copia in francese del suo Marx, Le lotte sociali in Francia (Sestan 1967, 312). A Berlino, nel febbraio 1934, Cantimori riunì i testi (Stalin, Molotov ecc.) per il volume Bolscevismo e capitalismo che si preparava nella cerchia di Giuseppe Bottai e della Scuola di scienze corporative e il 13 aprile 1935 il giovane storico informò Benedetto Croce dell’intenzione di svolgere ricerche «sul Marx prequarantottesco» (Pertici 1997, 113).

Il progetto per un Manifesto Togliatti-Cantimori non ebbe seguito. A cura di Togliatti quel libro – traduzione senza apparati – uscì nel 1947, e fu poi diffuso in 50.000 copie come primo numero della «Piccola biblioteca marxista» delle Edizioni Rinascita, la casa editrice legale del partito che finalmente aveva visto la luce, diretta da Manacorda. Per inciso, Emma ne fu redattrice dal 1946 e al 1950: si può dunque presumere che passò per le sue mani anche la traduzione Togliatti del Manifesto, come molti altri classici del marxismo.

L’iniziativa di Einaudi andò invece molto avanti, ed ebbe esiti più ramificati e “stratificati”. Nel dicembre 1946 la collana marxista naufragò (Turi 1990, 199). Non vedendo arrivare la traduzione Mezzomonti, nel giugno del 1947 il responsabile della redazione romana della casa editrice, Carlo Muscetta, propose a Einaudi di collocare nella «Biblioteca universale» la vecchia traduzione di Pompeo Bettini, risalente al 1892, con prefazione di Umberto Morra, liberale gobettiano: un’edizione del Manifesto per il grande pubblico, che avrebbe potuto fare breccia tra i non marxisti. Einaudi tenne duro e scrisse a Cantimori l’ultimatum che si è citato alla fine del paragrafo 2: il Manifesto andava consegnato entro luglio. Dal laboratorio di Emma e Delio il libro fu consegnato, con la firma della sola Emma, alla fine dell’estate 1947 (l’Avvertenza porta la data 5 settembre). Il libro fu destinato ai «Saggi» e verso il febbraio 1948 le bozze furono riviste, per disposizione di Togliatti, anche da Sereni e Platone (Mangoni 1999, 348 nota): un po’ per generale, comunistica sorveglianza, un po’ per un altro motivo.

Cantimori era infatti incappato, proprio in quei giorni, tra dicembre 1947 e gennaio 1948, in un “incidente editoriale” politicamente rilevante e abbastanza complesso, al quale qui si può solo accennare. Aveva consigliato a Einaudi, nel 1945, di pubblicare un libro, Il materialismo dialettico sovietico del gesuita austriaco Gustav Wetter, professore del Collegium Russicum di Roma. Quando uscì, due anni dopo, il libro fu stroncato da Giuseppe Berti, in due riprese, come veicolo camuffato di propaganda antisovietica (Bertelli 1980, 334-341, contiene la risposta dello storico alla seconda stroncatura). L’incresciosa e non chiara vicenda deve aver attirato un’attenzione supplementare – sia di Einaudi che del partito – su quanto usciva dal laboratorio Cantimori-Mezzomonti. In quei giorni, tra l’altro, si parlava anche di una candidatura di Delio al Senato, poi sfumata: e anche l’iscrizione al partito, dopo lunga attesa, secondo alcuni avvenne proprio allora. Cantimori ostentò una certa spavalderia sull’episodio Wetter, scrivendo in proposito a Emma il 19 febbraio 1948:«mi voglio divertire un po’»(ASNS, Cantimori; vedi anche Miccoli 1970, 252-53; Manacorda 1979, 78-81). Invece ne rimase segnato a lungo (Mangoni 1999, passim). E intanto il crociano Carlo Antoni seguiva con occhio non benevolo la «disavventura toccata al Delio» (Antoni 2012, I, 57-58).

Il Manifesto einaudiano uscì nel maggio 1948, subito dopo la sconfitta elettorale del Fronte popolare: ne era prevista una diffusione amplificata in occasione del centenario, non solo dell’opuscolo di Marx e Engels, ma anche del “grande anno” della rivoluzione europea. Fu allestito un volume, curato da Gastone Manacorda come primo numero dei «Quaderni di Rinascita», che celebrasse il duplice centenario, ma che uscì con ritardo nel 1949: «chi ricordi gli eventi di quest’anno 1948 – scrisse Manacorda in apertura – agevolmente ci scuserà». Il «quaderno» conteneva un impegnato saggio di Togliatti per il centenario del Manifesto, che dal 1953 occorse poi come prefazione dell’edizione del partito (Togliatti 1953). Emma Cantimori Mezzomonti contribuì – in corpo più piccolo: tutto il quaderno è gerarchicamente ordinato con i corpi tipografici – con un testo denso Sull’origine del «Manifesto del Partito comunista» (pp. 15-20), di cui riparleremo. L’articolo di Franco Cagnetta (Le traduzioni italiane del «Manifesto del Partito comunista») si chiudeva con la constatazione che «con le due traduzioni Togliatti e Cantimori-Mezzomonti si è data degna veste italiana a quel documento fondamentale del socialismo scientifico» e la lode venne ripetuta in un articolo scritto, per promuovere la diffusione del volume, dallo stesso Manacorda per la terza pagina dell’organo del partito, «l’Unità», del 1° febbraio 1949.

Vi fu, intanto, da parte di Norberto Bobbio, autorevole consulente non comunista della casa editrice, la proposta di spostare il Manifesto dalla collana dei «Saggi» a una «collana di testi politici» che avrebbe voluto varare. Nel rispondergli rifiutando, il 21 aprile 1949, Cantimori osservava: «Emma vorrebbe ripensare introduzione e note in caso di cambio di collana». Il testo curato da Emma fu ristampato e Cantimori il 23 giugno trasmise alla casa editrice il disappunto della curatrice per non aver potuto correggere gli errori e compiere qualche aggiornamento – «una pseudo-seconda edizione a sorpresa» – e anche la scontentezza di entrambi per la cattiva qualità della carta che fu usata: «Marx finisce al posto della Cenerentola nelle edizioni Einaudi» (Mangoni 1999, 588-89 e nota).

5.

La traduzione Cantimori-Mezzomonti del Manifesto ebbe un successo straordinario: oltre centomila copie vendute per Einaudi, secondo una stima (Dècina Lombardi 1998). Dopo la terza edizione nei «Saggi» (1953), il libro fu ristampato undici volte nella «Nuova Universale» (1962-1994) e tre volte nei «Tascabili», dal 1998: è ancora in libreria e, se ci resta, festeggerà tra due anni il suo settantacinquesimo compleanno. Ma Einaudi non fu l’unico editore a diffondere quella traduzione: nel 1958 essa comparve presso Laterza, nella «Piccola biblioteca filosofica», prima importante ramificazione, alla quale ne seguì una seconda, minore, nel 1978, quando il libro fu pubblicato negli «Oscar Mondadori». Per l’edizione Laterza Emma Mezzomonti riprese l’articolo comparso sul Quaderno di «Rinascita» del 1949, il quale in origine presentava una sola nota battagliera: «Verso la fine del mese [di febbraio 1848] il Manifesto uscì dalla tipografia. Da allora ha inizio quella sua sempre crescente diffusione per cui i lavoratori di tutto il mondo, accolto l’appello lanciato da Marx e da Engels cento anni fa, si trovano uniti da una stessa idea, impegnati in una stessa lotta» (p. 18). Nel riprendere questo testo, Emma lo “sterilizzò”:

Pochi giorni prima della rivoluzione di febbraio, verso la fine del mese, il Manifesto del partito comunista uscì dalla stamperia J. E. Burghard, in Londra, in trenta pagine di formato ottavo. Sul frontespizio nessuna indicazione degli autori, solo il titolo, l’indicazione “febbraio 1848” e il motto con cui Marx ed Engels chiamavano alla lotta il proletariato internazionale. Il Manifesto ebbe poca diffusione e poca influenza in quegli anni; cominciò a esser largamente letto, diffuso e tradotto solo dal 1870 in poi (p. 64).

Per entrambe le edizioni, Laterza e Oscar, si presumono alte tirature complessive: tra il 1958 e il 1983 Laterza la ristampò quindici volte nella «Piccola biblioteca filosofica», tra il 1985 e il 1994 sei volte nella «Universale» e nel 1995 diede una nuova ristampa nella «Economica».

Nella seconda metà del Novecento il Manifesto fu letto dagli italiani anche in altre traduzioni: il partito comunista lo diffuse ampiamente, come si è detto, in quella di Togliatti. Ma non c’è dubbio che Marx e Engels, in questo caso, come anche in altri, si espressero nella nostra lingua soprattutto con le parole sapientemente “trovate”, tra il 1943 e il 1947, da Emma con l’aiuto di Delio (e viceversa). Certo, il loro amico Eric Hobsbawm avrebbe detto che non c’è traduzione che tenga, nessuna possiede la literary force of the original German text (Hobsbawm 20122: «la forza letteraria del testo originale tedesco» – Monaldi 20074, 21 nota). Sarebbe strano infatti che Hobsbawm non conoscesse proprio l’edizione Einaudi, visto che conosceva bene e frequentava i coniugi Cantimori (cfr. da ultimo Di Qual 2020, 80-95). Comunque sia, quella traduzione attraversò il secondo Novecento, accompagnata da apparati introduttivi che nel tempo si stratificarono intorno al testo.

L’apparato originale fu mantenuto nelle edizioni Einaudi fino al 1994 (senza illustrazioni dal 1962). Per Laterza, invece, fu decisa nel 1958 una diversa impostazione. Una cinquantina di note a piè di pagina nei punti del testo che le richiedevano, note biografiche e bibliografiche essenziali sugli autori Marx e Engels, e, in apertura, due brevi capitoli, uno sulla concezione materialistica della storia e l’altro sull’origine del Manifesto: quello che era comparso nel Quaderno di Rinascita del 1949, in corpo minore, dopo l’intervento “politico” di Togliatti.

L’edizione Laterza del 1985 non aggiornò la bibliografia approntata da Emma più di trent’anni prima, ma aggiunse una Prefazione di Lucio Colletti, in cui il filosofo volteggiava limpidamente verso la dimostrazione delle «contraddizioni più radicali e profonde del marxismo» (Colletti 1985, 32): fa un effetto anacronistico accanto alla prosa di Emma di trenta e quarant’anni prima, ancorata ai dati storici. Quando una traduzione è buona, dura a lungo. Ma ai traduttori può capitare che i loro testi siano accompagnati da commenti molto diversi, anche politicamente, se nel frattempo si sono consumate intere epoche. Colletti pubblicò poi quell’introduzione, con modifiche, anche in un’edizione del Manifesto pubblicata da Silvio Berlusconi (1998). Il Manifesto di Emma e Delio passò dunque – per il tramite del saggio di Colletti – da Togliatti a Berlusconi: due estremi della storia italiana del secondo Novecento.

6.

Per arrivare ai capitoli del Manifesto – nell’edizione Cantimori-Mezzomonti per l’Einaudi – il lettore deve farsi largo in una foresta di note introduttive e preliminari. Un lettore della copia che abbiamo preso in prestito in biblioteca ha pensato di rendere le cose più facili: ha aggiunto a penna sull’indice i riferimenti alle pagine di Marx ed Engels. [FOTO]Per ogni pagina del prezioso incunabolo del 1848, ce ne sono in media quattro dei curatori (ma in un caso, nel cap. III, 2, si arriva a dieci). Finita la lettura del testo, aspettano il lettore sessantacinque pagine di documenti in appendice, in corpo minore, e otto illustrazioni. Per trovare dei modelli a questa edizione, bisognerà cercare nel campo della filologia classica o dell’esegesi teologica.

L’impostazione corrisponde solo in minima parte a quella proposta nel 1944 da Cantimori per la collana sul «Pensiero sociale moderno»: lì si parlava di «brevi introduzioni di carattere storico-filologico», anche se già si ammetteva la possibilità di riportare «in esteso i passi degli scritti ai quali Marx, Engels […] si riferiscono»: quindi lunghe citazioni (Nuova biblioteca 1944, 11).

Se consideriamo le edizioni di altre opere di Marx, progettate in parte insieme col nostro Manifesto e uscite in quegli anni – per Einaudi o per le Edizioni Rinascita – troviamo solo stringatissimi apparati, scarne prefazioni: ciò vale per gli Scritti giovanili curati da Luigi Firpo (Einaudi 1950), che fu cortesemente bacchettato da Emma Mezzomonti sul n. 1 di «Società», rivista del pci, del 1951 (pp. 165-67); per i Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di Norberto Bobbio (stampato per Einaudi nel 1948, ma datato 1949), e infine per le Opere filosofiche giovanili, uscite a cura di Galvano Della Volpe per le Edizioni Rinascita del partito nel 1950, edizione priva di apparati consistenti, contenta di una breve avvertenza e di annotazioni essenziali.

L’edizione dei coniugi Cantimori di cui parliamo è quindi un unicum. Più che a inserirsi in uno standard editoriale italiano, mira a porsi al livello dei maggiori commenti del Manifest in ambito internazionale (molto «presente» nelle loro annotazioni, per lo più in chiave polemica, è quello di Charles Andler del 1901). Ha una struttura originale, pensata dai curatori. Perché questo plurale? Ci siamo infatti già riferiti in precedenza a essa come alla «traduzione Cantimori-Mezzomonti». Nell’Avvertenza, Emma parla in prima persona singolare, ma nel libro dilaga poi un «noi» più esatto, trattandosi di una collaborazione: ciò risulta, tra l’altro, dal carteggio intercorso tra i due coniugi nel 1947 durante il lavoro (ASNS, Corrispondenza). La «traduzione analitica» compiuta da Cantimori per il corso del 1945 – già con l’aiuto della moglie, con ogni probabilità – fu certamente riveduta attentamente da Emma sull’edizione Mega 1927, la classica Marx-Engels Ausgabe, edizione tedesca completa delle opere. A Cantimori risale la raccolta di una buona parte dei materiali per le introduzioni, scritte poi da Emma, forse con occasionali contributi di Delio.

Tale struttura originale del libro corrispondeva a un preciso proposito:

Noi intendiamo offrire una traduzione e una raccolta di scritti e documenti contemporanei di Marx e di Engels, e una serie di osservazioni che permettano una lettura o una rilettura del Manifesto senza intenzioni né di polemica né di esaltazione, ma con la intenzione di aiutare a capire, a intendere il testo, con aderenza al linguaggio degli autori, e alla situazione nella quale scrissero (Mezzomonti 1948, 53).

Licenziato in tipografia alla vigilia delle elezioni del 1948, che non pochi comunisti si aspettavano di vincere, il libro dei due studiosi militanti si presenta con termini quasi spinoziani (non ridere, non lugere neque detestari, sed intelligere: non ridere, non piangere né detestare, ma capire): forse il partito prenderà il potere, ma qui il nostro compito è quello di aiutare a capire il testo di Marx e di Engels «in maniera letterale, con il massimo di pedanteria possibile». Lorenzo Mesini cita dal fondo Cantimori dell’ASNS, un’annotazione dello storico del 17 ottobre 1948: «In questo periodo la storia deve tornare consapevolmente alla bibliografia, all’erudizione, alla filologia: è l’unica cosa sicura = neutra!» (Mesini 2018, 509).

In quale altro libro, curato da “rivoluzionari”, si potrà trovare un elogio, come questo, della pedanteria?

7.

Il libro si apre dunque con una lunga introduzione generale, storica e biografica, sulle vite parallele e il pensiero di Marx e Engels. Poi la prima lunga citazione: cinque pagine di Marx «di pochi anni dopo» sulle società segrete e il metodo cospirativo (pp. 22-27). Un tema, questo della segretezza, che ritorna più volte nel libro: la militante clandestina Mezzomonti (Miccoli 1968, 548 nota), ora uscita alla luce del sole, vi avrà trovato qualche risonanza autobiografica. Non è concepibile il Manifesto senza l’abbandono della segretezza, per quanto possibile in quel tempo di persecuzioni poliziesche. Nella Lega dei comunisti, una «nuova organizzazione», «collegamenti più agili e liberi» sostituiscono le «forme rigide […] delle tradizionali cospirazioni e delle tradizionali società segrete». I cospiratori di professione, gli alchimisti della rivoluzione, avrebbero voluto fare una rivoluzione su due piedi, senza le condizioni d’una rivoluzione. Per superare questo modello, non si tratta solo di dare pubblicità all’azione collettiva con un manifesto. «Il vero vincolo», la «vera possibilità di efficienza del movimento operaio internazionale» risiedono nella «consapevolezza teorica, scientifica, e nella sistematicità di lavoro che da tale consapevolezza deriva» (pp. 27-28).

Seguono una lunga esposizione dei rapporti di Marx con Wilhelm Weitling, poi con Auguste Blanqui (torna la questione della segretezza), un accenno comparativo all’evoluzione di Giuseppe Mazzini, infine la ricostruzione della «preistoria testuale» del Manifesto (gli abbozzi di Engels).

Avviandosi alla conclusione dell’introduzione generale, i curatori ribadiscono – con qualche excusatio non petita – ciò che hanno inteso fare:

Una pubblicazione come la nostra […] vorrebbe aiutare il lettore a riporre il Manifesto nel momento storico nel quale è stato composto, più che fornire materiale per riflessioni teoriche e ideologiche (cosa che ha la sua importanza, ma alla quale preferiamo una raccolta di materiali per l’intendimento e l’informazione storica, senza per questo intendere di svalutare minimamente l’altro modo di presentazione) (p. 39 – miei i corsivi).

Evidentemente in quel 1948 incombeva «l’altro modo di presentazione», direttamente ideologico e politico. Ma davvero la presentazione storica dei materiali, che i curatori ripetono di preferire, escludeva le affermazioni ideologiche di principio? Non sembrerebbe: si leggano le pagine seguenti, 40-41, che contengono una appassionata difesa della libertà individuale (siamo nel 1948, in pieno stalinismo). Su questo punto della libertà umana, un biografo di Engels, Gustav Mayer, aveva contrapposto i Grundsätze des Kommunismus (noto da noi come I principi del comunismo) di Engels, «umanistici», al Manifesto, centrato invece sulle «forze oggettive della storia». I nostri curatori non sono d’accordo. «La piena libertà dell’individuo, la libertà e la personalità», «l’uomo integrale e totale» sono al centro dei lavori in comune di Marx e Engels di pochi anni prima, anche se certo lasciano più tracce nei Grundsätze di Engels che nel Manifest («una permanenza più sensibile, più diretta e immediata»). Ma Marx e Engels lottano «per quell’ideale» di libertà e lo «attuano storicamente», non lo «invocano genericamente»: questo spiega perché i richiami espliciti siano progressivamente più rari. Tale ideale umanistico

ha il luogo dell’egualitarismo grossolano, e […] li congiunge [Marx e Engels] alle idee fondamentali che sono all’origine della filosofia classica tedesca e del romanticismo prima del ripiegamento e dello sfruttamento reazionario e conservatore.

«La lotta per la libertà e la personalità – proseguono Mezzomonti e Cantimori – non sta nel parlare di libertà e personalità, ma nell’esercitare la libertà e nell’ampliare con un lavoro specifico e concreto la personalità nostra e degli altri uomini che vivono con noi» (p. 41). Ecco un esempio chiaro di come la presentazione storica dei materiali intorno al Manifesto poteva veicolare impegnative rivendicazioni ideologiche controcorrente. Infatti, concludono i curatori, «l’involucro quarantottesco», il «limite storico» non attenuano «l’importanza storica e la vitalità dei principi del Manifesto […] ancor oggi» (pp. 47-48).

Un discorso parallelo a questo sulla «presentazione storica dei materiali» definisce il tipo di traduzione che i curatori hanno scelto. L’intento delle altre traduzioni, compresa quella di Togliatti, era quello di rendere chiaro un «testo di dottrina politica e di interpretazione della storia», anche con «qualche parafrasi» (p. 49). Invece

Nella presente traduzione ci siamo sforzati di tradurre il Manifesto del partito comunista come un documento o monumento storico, cioè preoccupandoci, più che della facile lettura, della aderenza al linguaggio storico e teorico, politico e sociale, degli autori, in riferimento al momento e alla situazione storica, anche di storia delle dottrine e della cultura politica, economica, filosofica, nei quali il Manifesto fu scritto (p. 49).

Forse un esame attento e “tecnico” della traduzione – che non ci è possibile compiere – mostrerebbe effettivamente la distanza “storica” di questa dalle traduzioni “dottrinarie” di Togliatti o di quella un tempo attribuita a Labriola (ma probabilmente non sua). A una prima lettura le differenze non sembrano così forti: lo sforzo di comprensione e presentazione storica del Manifesto sembra concentrato essenzialmente nel corposo commento, ossia l’introduzione generale e le nove introduzioni speciali ai capitoli e paragrafi del testo di Marx ed Engels. Queste ultime, le Note preliminari, presentano e riassumono il testo che il lettore sta per leggere, chiariscono allusioni e richiami, discutono il contesto storico, citano passi di scrittori contemporanei, anche non conosciuti da Marx e Engels, dei quali sono invece riportate lunghissime citazioni: quasi venti pagine, ad esempio, tradotte da Die deutsche Ideologie (pp. 68-77, 130-33, 170-73) – quell’Ideologia tedesca che in quel momento circolava in italiano solo nella traduzione di Giuliano Pischel (1947) stroncata da Cantimori (1948, 38-39) – oppure otto pagine di una recensione di Marx, ovviamente sempre tradotte (pp. 193-200).

8.

Dopo il lavoro sul Manifesto, non solo Cantimori restò su questa «via storico-filologica» all’impegno politico – che cercava di tenere insieme libertà di pensiero, anticonformismo, filologia, scienza storica e passione per il presente – ma ne fece una specie di teoria, non sistematica, per accenni su punti particolari e quindi ancora oggi non facile da mettere a fuoco. Molti spunti se ne trovano anche, naturalmente, nel carteggio Manacorda-Cantimori a cura di A. Vittoria (Cantimori, Manacorda, 361-362). Un dialogo rimasto implicito con il Gramsci dei Quaderni alimentò tale posizione.

Cantimori insisté su una «molteplicità» del campo culturale non «unificabile» dalla disciplina di partito. A questo proposito Giovanni Miccoli ha citato un suo appunto del luglio 1947 che è il caso di riportare qui:

Questi uomini politici veri e propri, moderni, preparati ed educati ad hoc, nonché vocati (uomini politici di vocazione e di professione) considerano le cose della cultura politicamente. Che cosa significa? In funzione di opportunità politica. Quando sono geniali come dice B[urckhardt] della Stael: evocano il romanticismo contro l’illuminismo e contro la democrazia. Oppure Mussolini si allea con Croce e con Gentile (e Croce che è mente pulita se ne va presto). Inoltre in funzione di propaganda. Infine: siccome essi considerano che la cultura sia ideologia, cioè qualcosa di formale rispetto a una sostanza (economica, sociale, morale, ecc.), considerano formalmente anche gli uomini di studio. Tu che sei storico… Tu che sei giurista… Tu che sei letterato… E non capiscono che la spontaneità della cultura e dei problemi culturali è disciplinabile (e disciplinanda) ma non basta un atto di volontà, è molto più molteplice e meno unitaria e meno unificabile che la spontaneità sociale, politica, ecc. (in Miccoli 1979, 54-55).

Cantimori parlava con diffidenza degli intellettuali «illustri e illustrificati» dal partito e di una «torre di osservazione» in cui ritirarsi, senza rinunciare all’efficacia politica del lavoro storico (Manacorda 1979, 103 e 109). Svolse, intanto, una molto intensa e molto tradizionale attività di ricerca, di insegnamento e di politica accademica.

Emma continuò a lavorare per il partito, a insegnare a scuola (fino al 1961-1962), a tradurre testi marxisti. Da sola tradusse, fra l’altro Nuovi dati (New data) di Eugenio Varga, in appendice a Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo. Saggio popolare, Roma, Edizioni Rinascita, 1948; parte del volume V, 1867-1869 (Roma, Edizioni Rinascita, 1951: lettere 1089-1330) e il volume VI, 1870-1883 del Carteggio Marx-Engels (Roma, Edizioni Rinascita, 1953); con Lucio Colletti e Giuseppe Garritano: K. Marx – F. Engels, La Sacra famiglia, Roma, Edizioni Rinascita, 1954; Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1957. Con Delio collaborò certamente all’ardua impresa della quinquennale traduzione del primo libro di Das Kapital (Cantimori 1952), sulla quale non abbiamo ancora gli studi particolari auspicabili.

Quando Cantimori nel 1957 non rinnovò l’iscrizione al Pci, Emma non lo seguì, rimase iscritta e si produsse allora un disallineamento politico tra loro, di cui è traccia in alcuni carteggi (cfr. Cantimori, Manacorda 2013, 70-71, 289 e 371). Nel 1966 andarono insieme negli Stati Uniti, a Princeton, si trovarono bene e pensarono che ci sarebbero volentieri tornati (Gilbert 1967, 319-320; vedi anche le lettere di Cantimori a Werner Kaegi del 10 gennaio 1966, 18 marzo 1966 e 10 maggio 1966 in Chiantera-Stutte).

Il loro laboratorio artigiano di traduzione si occupò di libri diversi, spostandosi dai classici del marxismo. Nell’agosto del 1954 risultava «da rivedere» da parte di Emma la traduzione degli Economic Writings di William Petty per conto di Einaudi, che nel giugno del 1960 le affidò anche quella di The Wealth of Nations di Adam Smith, la quale era a buon punto nel settembre del 1964 (Mangoni 1999, 615 nota e 897 nota), ma nessuna di queste due versioni di classici dell’economia politica vide mai la luce. Dalla corrispondenza di Cantimori con Werner Kaegi pubblicata da Chiantera-Stutte risulta che intanto però Emma lavorava, non sappiamo per quale editore, al IV volume della Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter di Fernand Gregorovius e che insieme i due coniugi traducevano qualcuna delle Historische Meditationen dello stesso Kaegi, le Meditazioni storiche curate e presentate dallo storico italiano nel 1960 per Laterza.

Ma il magnum opus di Emma, di cui si trova notizia nei carteggi per anni, è la traduzione degli scritti di Aby Warburg raccolti da Gertrud Bing nel 1932 sotto il titolo Die Erneuerung der heidnischen Antike. Beiträge zur Geschichte der europäischen Literatur, comparsa come La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura a Firenze presso La Nuova Italia nel 1966. L’anno dopo cominciava a tradurre Painting in Florence and Siena after the Black Death. The arts, religion and society in the mid-fourteenth century (1951) dello storico statunitense Millard Meiss, lavoro che non poté completare prima di morire nel 1969 (cfr. Cooke 2015, 147). Ma il suo nome non compare accanto a quello di Laura Lovisetti Fuà e Mirko Tavoni nell’edizione Einaudi, Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera. Arte, religione e società alla metà del Trecento, uscita con un saggio introduttivo di Bruno Toscano nel 1982. Di questi lavori si persero le tracce dopo la morte di Delio Cantimori, nel 1966, e di Emma, nel 1969. Andrebbero recuperati.

Ringraziamenti

Per le informazioni e l’aiuto ringrazio Eleonora De Longis, che mi ha orientato tra le carte di Gastone Manacorda, in corso di riordinamento presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma, e Maddalena Taglioli dell’Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Fonti archivistiche e riferimenti bibliografici

ASNS, Cantimori: Archivio della Scuola Normale Superiore, Pisa, Fondo Delio Cantimori, Corrispondenza con Emma Mezzomonti

Acocella 2018: Silvia Acocella, Una trincea fatta di libri: La Nuova Biblioteca editrice di Carlo Bernari, in «Forum Italicum», a. LII, n.  2, pp. 347-366 (ripresa di un saggio già pubblicato in «Rivista di studi italiani», 2008, 2, pp. 201-235)

Andler 1901: Le Manifeste communiste de Karl Marx et F. Engels, introduction historique et commentaire de Charles Andler, Paris, Société nouvelle de librarie et d’édition

Bertelli 1980: Sergio Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del Pci, 1936-1948, Milano, Rizzoli

Cantimori 1948: recensione a Pischel 1947, in «Rinascita», a. V,  pp. 38-39

Cantimori, Manacorda 2013: Delio Cantimori e Gastone Manacorda, Amici per la storia. Lettere 1942-1966, a cura di Albertina Vittoria, Roma, Carocci

Cases, Timpanaro 20052: Cesare Cases e Sebastiano Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990, a cura di Luca Baranelli, Pisa, Edizioni della Normale (I ed. 2004)

Chiantera-Stutte 2019: Animus comune. Le lettere di Werner Kaegi a Delio Cantimori (1935-1966) a cura di Patricia Chiantera-Stutte, Pisa, Edizioni della Normale

Colletti 1985: Lucio Colletti, Prefazione, in Karl Marx – Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, a cura di Emma Cantimori Mezzomonti, Roma-Bari, Laterza, 1985

Cooke 2015: Jennifer Cooke, Millard Meiss tra connoisseurship, iconologia e Kulturgeschichte, Milano, Ledizioni

Croce 1924: Benedetto Croce, Un ammonimento e un ricordo, in «La Critica», a. XXII, n. 6, 20 novembre

Dècina Lombardi 1998: Paola Dècina Lombardi, Torna il Manifesto di Marx profeta della globalizzazione, in «tuttolibri-La Stampa», 28 maggio

Dessì 1967: Giuseppe Dessì, Il professore di liceo, in «Belfagor», a. XXII, n. 3, pp. 307-310

Gilbert 1967: Felix Gilbert, At Princeton, in «Belfagor», 1967,  a. XXII, n. 3, pp. 319-320

Ferri 1989: Franco Ferri, Intervento, in Il contributo dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore alla lotta antifascista ed alla guerra di liberazione, a cura di Filippo Frassati, Pisa, Giardini, 1989 [ma 1985]

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Losurdo 20055: Karl Marx – Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, Roma- Bari, Laterza (I ed. 1999)

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Mangoni 1999: Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri

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Togliatti 1947: Karl Marx – Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista; traduzione [dal tedesco] di Palmiro Togliatti, Roma, Rinascita

– 1953: Karl Marx – Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, traduzione di Palmiro Togliatti (cfr. Togliatti 1947), con un saggio sul centenario del Manifesto, Roma, Edizioni Rinascita

-1980: Karl Marx – Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, Roma, Editori riuniti, 1980 (vedi Togliatti 1947)

Turi 1990: Gabriele Turi, Casa Einaudi, Bologna, il Mulino