di Antonio Bibbò
traduzione di Giulia Grimoldi e Maristella Notaristefano da Irish Theatre in Italy during the Second World War: translation and politics, in «Modern Italy», 2019, vol. 24, n. 1, pp. 45–61
Anton Giulio Bragaglia e la scena teatrale italiana all’inizio della seconda guerra mondiale
Il teatro irlandese ebbe un ruolo decisivo nella scena teatrale italiana durante la seconda guerra mondiale. Intellettuali italiani di tendenze estetiche e politiche diverse, e spesso contrastanti, riuscirono ad avvantaggiarsi dello status fluido e ambiguo della letteratura irlandese in modo da ottenere uno spazio per l’innovazione sia durante il ventennio sia nel dopoguerra. Attingendo a risorse d’archivio poco esplorate e analizzando l’opera di mediatori culturali come Anton Giulio Bragaglia, Lucio Ridenti e Paolo Grassi in campo letterario, qui di seguito esaminerò un momento cruciale di cambiamento tanto della politica quanto del teatro italiani, sottolineando elementi di continuità tra le pratiche fasciste e quelle post-fasciste.
Per prima cosa metterò in luce l’importanza di Anton Giulio Bragaglia nel campo teatrale nel periodo tra le due guerre, evidenziando come la sua attività di mediatore di opere straniere, e in particolare la sua promozione del teatro irlandese, avrebbe avuto un ruolo chiave nel rinnovamento della scena teatrale italiana durante la transizione dal fascismo all’epoca post-fascista. Il teatro irlandese era infatti quasi scomparso dalle scene italiane dopo i pionieristici anni della «discoverta» di Carlo Linati (1914-1920), il primo a tradurre la letteratura del Revival irlandese di Yeats, Gregory e Synge, e a presentare Joyce sulle le pagine del «Convegno» di Ferrieri (per una panoramica sull’ingresso della letteratura irlandese in Italia si veda Bibbò 2018: https://rivistatradurre.it/ma-quanti-sono-questi-irlandesi. A eccezione di Oscar Wilde e George Bernard Shaw, che solitamente passavano per inglesi tout court, negli anni venti e trenta le produzioni di opere teatrali irlandesi furono rare e in genere legate a eventi eccezionali, come il debutto alla regia di Luigi Pirandello nel 1925 con Gli dei della montagna di Lord Dunsany (traduzione di Alessandro De Stefani di The Gods of the Mountain). Dal 1939 in avanti, tuttavia, le cose cambiano. L’ondata di traduzioni e rappresentazioni di drammi irlandesi durante la seconda guerra mondiale si può ricondurre a una precisa concatenazione di fattori e, in particolare, agli sforzi di una piccola rete di uomini di cultura (tra cui intellettuali, registi teatrali, direttori di riviste e critici) in vario modo legati alla figura carismatica di Bragaglia. Bragaglia ebbe una lunga carriera artistica, che spaziò dalla fotografia futurista alla Commedia dell’Arte. Tra i primi registi teatrali in Italia in senso moderno (Alberti 1974, 37–47), nel 1923 fondò a Roma il Teatro degli Indipendenti, che presto divenne uno dei teatri indipendenti di maggior successo dell’Italia fascista. Portatore di una visione innovativa del teatro, fece conoscere al pubblico italiano i lavori di Jarry, Schnitzler, O’Neill e Brecht, oltre a quelli di numerosi drammaturghi emergenti italiani (per es. Barbaro, De Stefani e Bacchelli). Benché rappresentasse spesso drammi italiani, e dichiarasse che era necessario italianizzare la scena nazionale, Bragaglia era soprattutto interessato a scoprire nuovi e promettenti drammaturghi stranieri (Scarpellini 1989, 332). Era inoltre consapevole della grande attrattiva che gli autori stranieri esercitavano sugli appassionati di teatro, e fu alla luce di quelle convinzioni che, nei primi anni del Teatro degli Indipendenti, ideò una burla insieme a Luigi Bonelli. A quei tempi il balletto russo era molto apprezzato sia in Europa che in Italia, sicché Bonelli scrisse una manciata di opere satiriche con lo pseudonimo di Wassili Cetoff Sternberg, drammaturgo russo anti-bolscevico. Le opere, rappresentate dal 1925 in poi, ebbero enorme successo e Cetoff fu acclamato come uno dei più importanti drammaturghi del tempo, ma di lui si sapeva ben poco. Fu solo alla fine del febbraio 1927 che Luigi Bonelli (il presunto traduttore di Cetoff) si presentò sul palco dopo la prima de L’imperatore e rivelò la verità (Alberti et al. 1987, 283-286). Come vedremo nella terza parte di questo articolo, questa non sarebbe stata l’unica trovata di Bragaglia riguardo alla nazionalità dei drammaturghi, .
Godendo di fama internazionale, durante il periodo fascista Bragaglia ebbe maggiore libertà rispetto ad altri uomini di teatro, come del resto ne ebbe, su scala più ampia, Benedetto Croce (Grassi 1962, 343). Non a caso, nel 1937, Bragaglia fu nominato direttore del Teatro delle Arti di Roma, che beneficiava di ingenti finanziamenti da parte dello stato. Il Teatro delle Arti era una realtà unica nella scena teatrale degli anni trenta. Si trovava nello stesso palazzo della Confederazione fascista professionisti e artisti (Pedullà 2009, 198) e non era né un teatro commerciale né sperimentale; questo status liminale si traduceva in un repertorio che metteva insieme opere canoniche ortodosse e scelte più audaci, come la Cortigiana di Pietro Aretino, spesso ai limiti dell’accettabilità e della censura fascista (Alberti 1974, 290).
Il Teatro delle Arti ricevette grosse sovvenzioni anche da parte del duce, ma ciò non impedì a Bragaglia, nel solco dell’innovativa produzione degli Indipendenti dell’ultima metà degli anni venti, di fare scelte assai ardite. In particolare, considerando i limiti sempre più pesanti imposti dalla censura statale a partire dalla metà degli anni trenta, la produzione del Teatro delle Arti accolse un numero sorprendente di drammaturghi stranieri e di temi controversi, e questo grazie ai rapporti di Bragaglia col regime e alla capienza relativamente ridotta del teatro (circa 600 posti). Del resto, il delle Arti rappresentava una sorta di valvola di sfogo per il regime, a fig-leaf of cultural respectability (Griffiths 2005, 80), una foglia di fico per dare una parvenza di rispettabilità culturale e mostrare una certa tolleranza verso le voci dissenzienti o poco ortodosse; è senza dubbio significativo che, in particolare dal giugno del 1940 in poi, le produzioni non godevano della stessa libertà durante le tournée in giro per l’Italia (Zurlo 1952, 330). Se la creazione della Commissione per la bonifica libraria, che cominciò la sua attività nel 1938 (Bonsaver 2007, 169–187; Rundle 2010, 170), fu un momento decisivo per il mercato del libro, il giugno del 1940, quando l’Italia entrò in guerra al fianco della Germania nazista, fu uno spartiacque per il teatro. Il 6 giugno 1940 la Società italiana autori e editori emanò una circolare che proibiva qualsiasi «opera lirica, drammatica, operetta, rivista, composizione musicale» inglese o francese (Siae 1940a), ovvero una percentuale notevole delle opere rappresentate e pubblicate in Italia.
La riduzione del numero di opere di autori inglesi e francesi fu improvvisa e radicale. Tuttavia, il divieto non si estendeva a classici come Shakespeare e Molière e, dato che gli Stati Uniti erano ancora neutrali, non erano ufficialmente banditi neanche Eugene O’Neill, Thornton Wilder e altri drammaturghi di successo. Le conseguenze, quindi, non furono immediate e pervasive, ma, con il progressivo avvicinamento degli Stati Uniti alle forze alleate, i direttori dei teatri cominciarono a ideare stratagemmi per aggirare eventuali difficoltà future. Come vedremo nel paragrafo seguente, a colmare il vuoto relativo lasciato dalle opere inglesi e francesi sarebbero stati gli autori irlandesi, poiché l’Irlanda non era direttamente coinvolta nella guerra.
La riscoperta del teatro irlandese in Italia durante la seconda guerra mondiale
La decisione di tenere l’Irlanda fuori dalla guerra fu un momento estremamente importante per il Taoiseach (primo ministro) Eamon De Valera, il cui intento era promuovere una politica estera volta a separare l’Irlanda dal Regno Unito una volta per tutte. Tuttavia la neutralità did not protect Ireland from all the war’s effects, non protesse la nazione dagli effetti della guerra, e la costrinse a vivere a strange, ghostly existence […] both in and outside the war, un’esistenza strana e spettrale, poiché era al tempo stesso coinvolta nel conflitto ed estranea (Wills 2008, 5–11; traduzione nostra). Come ha dimostrato Clair Wills, i letterati irlandesi non poterono non sentirsi coinvolti né poterono impedirsi di riflettere sulla seconda guerra mondiale: in questo paragrafo analizzerò come la traduzione dei loro lavori all’estero contribuì a tale processo. Con l’entrata in guerra dell’Italia, la letteratura irlandese era in una posizione favorevole per circolare liberamente nel territorio italiano: la si poteva portare in scena senza rischi, perché ufficialmente l’Irlanda non si era unita alle forze alleate, ed era ampiamente riconosciuta come valida alternativa sia alla letteratura inglese sia, successivamente, a quella nord-americana (Bigazzi 2004, 9). Come vedremo, inoltre, la neutralità confermava indirettamente l’immagine limitata che la narrazione nazionalista italiana aveva costruito dell’Irlanda: un’entità semplice, monologica, una nazione rurale e cattolica, nemica della «perfida Albione» plutocratica, e amica dell’Italia fascista.
Dopo anni di quasi totale assenza dai palcoscenici italiani, i drammaturghi irlandesi vissero così una sorta di riscoperta. Le opere di Yeats, Synge, Lord Dunsany, Shaw, Wilde, O’Casey, Robinson e Carroll furono o tradotte per la prima volta o ripubblicate e spesso portate in scena dalle principali compagnie italiane, tra cui quella di Emma Gramatica, e nei teatri più importanti come il Quirino e l’Eliseo a Roma, e il Manzoni a Milano. Nel frattempo Linati fu incaricato da Enzo Ferrieri (che in quel periodo lavorava per l’Eiar, l’ente radiofonico statale) di «scovare qui qualche ignota cosa irlandese» (FF, Corrispondenza, fascicolo 58). Questa era una pratica abbastanza comune anche sull’asse Roma-Torino che collegava Bragaglia a Lucio Ridenti, direttore del «Dramma», una rivista popolare con sede a Torino, specializzata nella pubblicazione di testi teatrali (molto richiesti dalle compagnie amatoriali) e notizie di teatro. Né Bragaglia né Ridenti avevano mai mostrato grande interesse per il teatro irlandese. Sorprende, dunque, che, tra il dicembre 1939 e il dicembre 1943, «Il Dramma» pubblicasse ben 24 opere irlandesi, e altrettante opere inglesi o americane spacciate, come vedremo più avanti, per irlandesi, così come che Bragaglia ne mettesse in scena diverse al Teatro delle Arti. I due fatti sono strettamente connessi, non solo per la solida e lunga collaborazione fra Ridenti e Bragaglia, ma anche perché i drammi tradotti e rappresentati al Teatro delle Arti erano quasi sempre pubblicati di lì a poco sulle pagine del «Dramma». Bragaglia non ricoprì mai un incarico ufficiale per la rivista, ma influenzò profondamente le scelte editoriali di Ridenti, come conferma la loro corrispondenza in FR (Perrelli 2018). È certo che, per rimpolpare le proprie pagine, che durante la guerra pativano la penuria di opere teatrali, «Il Dramma», faceva affidamento sulle traduzioni fornite da Bragaglia. Resta da valutare fino a che punto quello spiccato interesse per il teatro irlandese scaturisse da un sincero apprezzamento, e quale impatto avrebbe determinato sia sul futuro del dramma irlandese in Italia sia sulla scena teatrale italiana.
Un’analisi delle pagine del «Dramma» conferma immediatamente quanto l’impennata delle traduzioni (e delle rappresentazioni) fosse collegata all’allora recente decisione del regime di partecipare alla guerra. In uno dei primi numeri del «Dramma» pubblicato dopo il 10 giugno 1940, la sezione solitamente dedicata agli editoriali ospitava la chiara affermazione di un sentimento anti-britannico. La colonna era sormontata da un ritratto a matita di George Bernard Shaw e rivolgeva una critica esplicita agli inglesi, accusati di essere un popolo subdolo e rapace:
L’INGLESE è una curiosa razza. QUANDO EGLI VUOLE UNA COSA, NON DICE A NESSUNO CHE LA VUOLE […]. Come combattente per la libertà e l’indipendenza nazionale, egli fa la guerra a metà del mondo, la annette e chiama ciò colonizzazione. («Il Dramma», 1 luglio 1940, [XVI], n. 333, p. 5)
Il testo originale suonava così:
THE ENGLISH are a race apart. WHEN HE [the Englishman] WANTS A THING, HE NEVER TELLS HIMSELF THAT HE WANTS IT. … As the great champion of freedom and national independence, he fights wars with half the world and annexes it, and calls it colonization. (Shaw 1975, 205)
Non si sa chi fosse il traduttore, ma sicuramente la citazione non è tratta dalla prima traduzione dell’opera originale, The Man of Destiny del 1897, uscita da Mondadori nel 1925 a cura di Antonio Agresti (Agresti 1925). Sebbene la connotazione sia leggermente alterata nella versione italiana (per es. a race apart diventa «una razza curiosa»), il testo è tratto da In origine la stoccata anti-britannica la pronunciava Napoleone, ed era il momento più intenso della commedia, ma alla propaganda fascista tornava utile attribuirla a uno dei più famosi drammaturghi inglesi. Che poi Shaw fosse irlandese importava poco: a scopi propagandistici bastava che fosse un suddito dell’impero britannico. Lo confermano indirettamente i numeri successivi della rivista, che includono, nella stessa sezione, critiche di uguale tenore attribuite a scrittori inglesi come Lord Byron e Aldous Huxley, ma anche a illustri scrittori italiani come Alfredo Oriani e Gabriele D’Annunzio. Tale strategia è simile a quella adottata nello stesso periodo da Luigi Villari, Franco Ciarlantini, Nicola Pascazio, Amy Bernardy e altri propagandisti fascisti, e mirava a dare un’immagine dell’impero britannico come profondamente diviso, e duramente criticato dai suoi stessi sudditi. In queste pubblicazioni, spesso le critiche anti-britanniche si accompagnavano a posizioni filo-irlandesi; l’Irlanda era percepita come la spina nel fianco della Gran Bretagna, e la sua mancata partecipazione alla guerra, sebbene legittima, rasentava il tradimento (Wills 2008, 7). Ridenti fu velocissimo nell’allineare la sua rivista alla posizione ufficiale del regime. Presto sulle pagine del «Dramma» comparvero testi teatrali irlandesi: due drammi di Synge nel numero successivo e in quello di ottobre, e due drammi di Wilde a settembre. Più o meno nello stesso periodo, Bragaglia stava programmando la stagione 1940-1941 del Teatro delle Arti, con un cartellone quanto più innocuo possibile, che comprendeva due testi irlandesi: Riders to the Sea di Synge, per il secondo anno di fila, e The White Steed di Paul Vincent Carroll. Tuttavia, non si può dire che il teatro irlandese fosse più presente rispetto al passato; infatti nella stagione 1939-1940 erano andati in scena il dramma di Synge e Juno and the Paycock di Sean O’Casey. Dovremmo dunque dedurre che l’interesse di Bragaglia per il teatro irlandese fosse nato indipendentemente dalla messa al bando dei drammi inglesi? In parte è così. I toni folklorici e il «verismo terriero» di Synge (Linati 1932, 43) di certo avevano incontrato i gusti di Bragaglia, che spesso aveva messo in scena adattamenti delle opere di Giovanni Verga, considerato ai tempi il più affine a Synge tra gli italiani (Pellizzi 1934, 283), ed era stato un sincero ammiratore di Eugene O’Neill fin dai tempi del Teatro degli Indipendenti. Ciononostante, la corrispondenza privata dimostra che le preoccupazioni riguardo alla nazionalità dei drammaturghi erano antecedenti alla circolare della Società italiana autori e editori (Siae) emessa nel giugno del 1940. Non va sottovalutato che Bragaglia riceveva cospicui finanziamenti dal regime: secondo Alberti (Alberti 1974, 361) fino a un milione di lire all’anno. Era perciò sempre attento a ottenere l’approvazione di Mussolini e si assicurava che il duce manifestasse il suo sostegno comprando ogni anno due abbonamenti alla stagione teatrale. In effetti, uno degli innumerevoli inviti che Bragaglia spedì a Mussolini può far luce sullo status privilegiato di cui godette il teatro irlandese dopo l’inizio della guerra. Nella lettera, datata 16 gennaio 1940 (sei mesi prima del divieto ufficiale), Bragaglia elenca gli spettacoli a cui avrebbe voluto che Mussolini assistesse. Una riga, che fa riferimento al dramma di Synge Riders to the Sea, è particolarmente significativa: «Cavalcata al mare di Singe [sic] (irlandese)» (Alberti 1974, 295). Che già allora Bragaglia si premurasse di indicare la nazionalità del drammaturgo è piuttosto eloquente e dimostra forse che dapprincipio il suo interesse per il teatro irlandese era ispirato da una riflessione politica, ed era da intendersi come uno stratagemma non troppo velato per portare in scena drammi stranieri senza infrangere alcuna regola, implicita o esplicita.
Quale che fosse la motivazione, quelle scelte ebbero due effetti strettamente correlati: una maggiore consapevolezza della specificità della letteratura irlandese in Italia e, come si vedrà, un conseguente ampliamento del canone irlandese. Assai indicativi, in tal senso, sono i dati statistici raccolti dalla Siae durante la seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente precedenti. Pubblicate sul bollettino annuale «Lo spettacolo in Italia», queste statistiche offrono informazioni interessanti sul numero di spettacoli messi in scena (teatro, musica, cinema) e sui relativi incassi, suddivisi per regione, insieme alla percentuale di spettacoli stranieri divisi per nazione d’origine (SIAE 1939, 46; 1940b, 41-42; 1941, 35-36; 1942, 31). Benché di fatto indipendente già dall’inizio degli anni venti, l’Irlanda risulta inclusa nelle statistiche come nazione a sé solo a partire dal 1940 (si veda la tabella 1).
Tabella 1. Dati tratti da «Lo spettacolo in Italia» (Siae 1939-1942)
Compagnie primarie | Altre compagnie | Totale delle rappresentazioni | |
1939 | |||
Irlanda | N/D | N/D | 0 |
Inghilterra | N/D | N/D | 963 |
1940 | |||
Irlanda | 98% | 2% | 51 |
Inghilterra | 33% | 66% | 881 |
1941 | |||
Irlanda | 100% | 0% | 117 |
Inghilterra | 11% | 89% | 582 |
1942 | |||
Irlanda | 100% | 0% | 202 |
Inghilterra | 13% | 87% | 537 |
La tabella mostra il numero di opere irlandesi e inglesi («teatro di prosa», esclusi quindi l’opera e il varietà) messe in scena in Italia nel periodo 1939-1942. I dati relativi ai drammi scritti da autori inglesi rimangono alti perché scrittori classici come Shakespeare non erano vietati; altre opere, poi, erano tollerate dalla censura o perché innocue o perché mostravano il nemico sotto una cattiva luce (Scarpellini 1989, 299–300). La presenza irlandese, tuttavia, è notevole. Nel 1939 non si registrano drammi irlandesi e l’Irlanda diventa importante a fini statistici solo a partire dal 1940. Inoltre, il numero di rappresentazioni di drammi irlandesi continua ad aumentare, mentre quello di drammi inglesi diminuisce. Come già accennato, il riconoscimento dell’indipendenza irlandese fu tardivo ma, soprattutto, più che a un reale apprezzamento del valore culturale, fu strettamente collegato alla neutralità del paese durante la seconda guerra mondiale. Ciononostante, era pur sempre un riconoscimento ufficiale, il primo in ambito letterario: il sistema letterario italiano non era mai stato così pienamente consapevole dell’esistenza della letteratura irlandese intesa come tradizione specifica in ambito anglofono. I numeri rivelano anche un altro dato interessante: i drammi irlandesi erano quasi esclusivamente messi in scena dalle cosiddette «compagnie primarie» (Pedullà 2009, 132–136). Si trattava di compagnie di prim’ordine, beneficiarie di una quota maggiore di sovvenzioni statali, come stabiliva la recente riforma che aveva istituito anche l’Ispettorato del teatro, il primo ente centralizzato nato per amministrare gli aspetti chiave della vita dei teatri nazionali, tra cui la censura, il riammodernamento delle strutture più antiquate e la nascita di nuove compagnie (Thompson 1996, 103). A partire dal 1935, dunque, le compagnie che avevano «valore nazionale» e alcuni capocomici privilegiati furono ufficialmente considerati «compagnie primarie». L’iniziativa era perfettamente in linea con la politica autarchica del regime fascista. L’esiguo gruppo di compagnie primarie (solo 22 nella stagione 1936-1937) era dunque sottoposto a controlli più severi rispetto alle cosiddette «compagnie secondarie» (circa 150 quello stesso anno) e aveva la possibilità di accedere ai teatri più prestigiosi, come quelli citati in precedenza, dove si rappresentavano più spesso i drammi irlandesi.
Quel sistema di finanziamento relativamente nuovo ebbe conseguenze decisive sullo sviluppo della scena teatrale italiana, e indirettamente contribuì al riconoscimento dell’Irlanda come uno dei principali centri dell’attività teatrale in Europa. L’Irlanda serviva, ancora una volta, a rimpiazzare l’Inghilterra: compariva sulla scena (politica e letteraria) italiana principalmente in funzione anti-inglese. La ricezione del teatro irlandese in Italia mantenne il tradizionale legame con la politica, sebbene con una lieve differenza: quel carattere politico dei drammi irlandesi che aveva interessato Carlo Linati e Mario Borsa all’inizio del secolo ora si legava quasi esclusivamente alla nazionalità dei drammaturghi, più che ai contenuti dei lavori in sé e per sé. Inoltre, molti scrittori di cui per decenni la nazionalità era passata in secondo piano, in particolare Shaw e Wilde, furono riconosciuti come irlandesi. Nello stesso periodo, riviste teatrali come «Il Dramma» e «Scenario», pubblicavano con regolarità numeri speciali sul teatro irlandese. La riscoperta presentata in questi articoli ebbe come elemento chiave l’elasticità del canone anglo-irlandese e fu principalmente il risultato di uno stratagemma politico, ma di fatto mise in discussione i confini della letteratura anglo-irlandese stessa. La neutralità durante la guerra si sarebbe rivelata un’eredità difficile per l’Irlanda, ma fu all’origine di un più ampio riconoscimento della sua specificità culturale nel panorama italiano. Questo, però, solleva una serie di interrogativi. Quale Irlanda si stava presentando al pubblico italiano? Come si è evoluto il canone della letteratura irlandese in Italia durante la guerra e con quali conseguenze per la scena italiana? Per capirlo è utile condurre un’analisi sia delle traduzioni sia dei discorsi intorno al teatro irlandese pubblicati sulle pagine delle riviste.
Gli oriundi e il nuovo canone irlandese di O’Bragaglia
Nel 1940 e nel 1941 «Il Dramma» pubblicò testi di Synge, Wilde, Yeats e Joyce. Se li confrontiamo con quelli di altre opere straniere, i numeri sono interessanti: quasi un dramma su due è irlandese. L’origine delle traduzioni è altrettanto indicativa: sono quasi sempre attribuite a Carlo Linati, e corrispondono a quelle che lo scrittore comasco aveva pubblicato tra il 1914 e il 1920. Torneremo presto su quel “quasi”, ma per ora è importante sottolineare che quella scelta, probabilmente influenzata dall’immediata disponibilità delle traduzioni, era associata anche alla forte, e a quel tempo diffusa, convinzione che il teatro irlandese fosse particolarmente agganciato a temi nazionalistici. Dopo i primi numeri dell’estate 1940, la rivista smise di pubblicare propaganda dichiaratamente anti-britannica e, più che sulle critiche all’Inghilterra, si concentrò sull’esaltazione della letteratura irlandese. Verso il 1943, anche gli articoli di Linati assunsero toni politici più manifesti:
Si potrebbe anzi affermare che l’inesauribile inventiva e il generoso idealismo irlandese siano stati un po’ sempre il ricco serbatoio a cui la letteratura inglese ha attinto le forze per rinnovarsi, nei suoi momenti di stanchezza o di decadenza: e da Sterne a Wìlde, da Swift a Shaw innumerevoli sono gli artisti che, nati in Irlanda, ebbri della sua linfa rude e tenace, arricchirono di nuove fronde il vecchio tronco della letteratura anglosassone. (Linati 1943, 50)
Seppur coerente con l’idea generalmente accettata di un’Irlanda rurale, la metafora naturalistica introduce un’immagine abbastanza rara (soprattutto in Linati), cioè quella di un’Irlanda forte e virile, pronta a infondere forza alla stanca civiltà britannica. La retorica di Linati ricorda la propaganda fascista ed evidenzia un collegamento implicito tra l’immagine che il regime aveva di sé e la cultura irlandese. L’immagine dell’Irlanda che si coglie dal «Dramma» negli anni della guerra è quella di una nazione rurale, cattolica, virile e anti-britannica. Si può dire che l’esaltazione della cultura irlandese era funzionale soprattutto a sminuire l’importanza culturale della Gran Bretagna. In questo senso, la rivista di Ridenti si allineava alla tendenza generale della propaganda culturale fascista che emerge in altre pubblicazioni come «Meridiano di Roma», «Civiltà fascista» e «Scenario».
In breve tempo quella dinamica diede il via a un vasto progetto di traduzioni. Con l’aiuto di nuovi mediatori, Ridenti e Bragaglia cominciarono ad ampliare il repertorio della letteratura irlandese andando oltre la selezione di Linati. E agirono in maniera tale da procurarsi un’abbondanza di nuovi testi teatrali leciti e conformarsi alla pratica fascista di sminuire lo status culturale dei nemici: un’operazione che da un lato li poneva all’avanguardia nell’innovazione teatrale e dall’altro consentiva loro di rimanere nelle grazie del regime.
In particolare, Ridenti cominciò a esplorare testi non ancora tradotti di drammaturghi irlandesi già conosciuti per poi, più timidamente, spostare l’attenzione su scrittori meno noti. Questo comportò un ampliamento della cerchia di traduttori (per es. Agar Pampanini, Michaela De Pastrovich e la più esperta Alessandra Scalero), e il coinvolgimento di nuovi mediatori, tra tutti Vinicio Marinucci (nato nel 1916), futuro esponente di primo piano del mondo cinematografico italiano e presidente del Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani, che all’epoca era un giovane e audace critico teatrale e cinematografico. Marinucci tentò di ampliare il canone del teatro irlandese presentando al pubblico italiano Lord Dunsany, di cui tradusse le opere, Lennox Robinson e Paul Vincent Carroll (ma, dato eloquente, di quest’ultimo trascurò The Strings Are False, dramma del 1942 sul bombardamento di Glasgow, di grande successo in Inghilterra). L’operazione riuscì solo in parte Dei tanti drammaturghi irlandesi coevi che presentò nei suoi articoli del 1942 (Marinucci 1942a e 1942b) pochi riuscirono ad arrivare sul palcoscenico o anche solo tra le pagine del «Dramma». Marinucci ambiva a un ruolo da protagonista nel sistema teatrale italiano (e nel «Dramma»), ma Bragaglia non lo vedeva di buon occhio (lettera a Lucio Ridenti, s.d., ma inizi di marzo 1943, FR, Corrispondenza, 104); non solo, quest’ultimo era anche sempre più insofferente al carattere politico dei drammi irlandesi: «perché ci hanno pensato già O’Casey e gli altri a stancarci col patriottismo irlandese» (lettera a Gian Dàuli, 3 maggio 1943, in CGD, Corrispondenza).
Gli articoli di Marinucci confermano un aspetto della ricezione del teatro irlandese in Italia nella prima metà del Novecento: nonostante il relativo successo degli ultimi anni, il pubblico non aveva ancora dimestichezza con la letteratura irlandese. Critici e intellettuali lo davano per assodato, come risulta evidente dalle introduzioni piuttosto prolisse che precedono la maggior parte degli articoli: la letteratura irlandese doveva essere continuamente ricapitolata, per così dire, in parte per rinquadrarla e in parte per dare conto della relativa novità dell’argomento. Nondimeno, la riscoperta finì per favorire la diffusione del teatro irlandese. Fu in quel periodo che molti drammi irlandesi furono rappresentatati per la prima volta e conquistarono il favore del pubblico. Nel 1919 Linati si era lamentato con Facchi che il pubblico italiano sembrava cieco al fascino di Playboy of the Western World di Synge (3 marzo 1919, in ACL), ma in seguito la sua traduzione dell’atto unico Riders to the Sea era diventata parte integrante del repertorio di Bragaglia e spesso veniva messa in scena anche da compagnie amatoriali; alcuni drammi irlandesi erano pure trasmessi alla radio nazionale da Enzo Ferrieri, ex collaboratore di Linati. Il successo di questi drammi lo dimostra l’influenza che ebbero su un futuro protagonista della letteratura italiana: il poeta, drammaturgo e regista Pier Paolo Pasolini. L’incontro di Pasolini con Synge avrebbe avuto un forte impatto sul poeta diciannovenne e, probabilmente, sulla sua visione dei dialetti rurali. Secondo Roberto Roversi, Pasolini rimase così colpito dall’opera di Synge (letta sul «Dramma» nel 1940) che la rappresentò con gli amici a casa dei genitori (Casi 2005, 28). La cornice cronologica che qui ci siamo dati non permette di approfondire queste affascinanti influenze, che restano tuttavia degne di nota in quanto frutto di un’evidente “nuova scoperta” per il pubblico italiano.
A questa riscoperta si accompagnò uno sviluppo inatteso: attorno all’identità e al carattere nazionale del teatro irlandese si aprì, infatti, un dibattito che avrebbe coinvolto non solo i critici, ma anche il pubblico. Con l’avanzare della guerra, infatti, gli statunitensi entrarono nel novero degli autori sgraditi al regime e d’un colpo autori anglofoni che fino ad allora erano stati poco o per nulla associati all’Irlanda cominciarono, per via delle iniziative intraprese da Ridenti, Bragaglia e Marinucci, a essere presentati come irlandesi. Ancora una volta, quindi, la convergenza di interessi tra i mediatori e il regime favorì un ampliamento del canone irlandese. A scopi propagandistici, il teatro americano veniva allora spesso presentato come una versione scadente, perlopiù commerciale, del teatro europeo; anche per questo, spacciare per europei autori del calibro di Eugene O’Neill (che aveva vinto il Nobel nel 1936) era un’operazione in linea con la vecchia logica che vedeva nell’Europa la culla della cultura e nel “nuovo mondo” la terra delle macchine e dell’ignoranza (Alessio 1941). Va da sé che, dopo l’ingresso in guerra degli Stati Uniti al fianco degli Alleati, quell’atteggiamento si fece ancora più generalizzato.
Nell’Italia della seconda guerra mondiale, i drammaturghi originari di paesi nemici arrivavano sulle scene o perché criticavano il proprio paese, e quindi si prestavano a usi propagandistici, o perché avevano gli antenati “giusti”. Il primo gruppo riscuoteva grande successo, tant’è che al teatro proletario americano Bragaglia dedicò quasi l’intera quinta stagione del Teatro delle Arti. Il secondo gruppo, invece, era più controverso: dall’inizio del 1942, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, diversi drammaturghi americani divennero irlandesi perché figli di irlandesi. Tra questi oriundi irlandesi si annoveravano non solo irlandesi americani come Eugene O’Neill, George Kelly e Philip Barry, ma anche autori la cui irlandesità era assai più opinabile, come Allan Langdon Martin (pseudonimo delle statunitensi Jane Cowl e Jane Murfin) e Emily Brontë. Non si andava per il sottile, insomma, e in certi casi si arrivò perfino a presentare le opere come «tradotte dall’irlandese» (Kelly 1943, 39). Peraltro, con questo stratagemma, Bragaglia poteva risparmiare sui diritti di rappresentazione, forte anche di nuove disposizioni da parte del ministro della Cultura popolare Pavolini che consentivano di non pagarli quando si trattava di opere provenienti da paesi nemici (Scarpellini 1989, 297). Mancano però prove concrete – in parte per via dell’indisponibilità delle carte di Bragaglia – che consentano di stabilire con certezza se lo stratagemma degli oriundi ebbe origine nel suo teatro o nelle stanze del Minculpop. In alcune lettere Bragaglia insiste a rassicurare Ridenti che la pubblicazione dei testi di O’Neill e di altri oriundi fosse del tutto lecita, e sembra lasciar intendere che a suggerire quel piano fosse stato proprio il governo: «Ho visto con i miei occhi un appunto del Ministro diretto al Duce nel quale il Ministro affermava che O’Neill è irlandese. A suo tempo bisognerà far presente al Direttore Generale della Stampa che l’ultima versione è irlandese» (25 dicembre 1942, in FR, documento 81). Tuttavia, l’Archivio centrale dello Stato, che custodisce per lo più promemoria e appunti riguardanti o l’irlandesità o l’affiliazione politica e il valore estetico degli autori, non fornisce alcuna conferma (Alberti 1974, 295–311; Vigna 2008, 321–363) e le memorie del censore teatrale Leopoldo Zurlo (Zurlo 1952, 328–333) sono assai vaghe a riguardo.
Colpisce anzitutto un dato: fino alla fine del 1941, nei numerosi articoli pubblicati tanto sul «Dramma» quanto altrove, O’Neill viene espressamente presentato come americano e per di più alle sue origini irlandesi quasi non si fa cenno. La cosa è tanto più sorprendente se si considera che Bragaglia e Ridenti, come si evince dai carteggi, sapevano dello status particolare accordato agli irlandesi americani almeno dal principio dell’estate 1941. Difatti, una lettera di Bragaglia a Gian Dàuli del 24 luglio 1941 dimostra, per esempio, che gli autori americani erano malvisti già prima di Pearl Harbour, ma non così gli irlandesi americani (CGD, Corrispondenza). Dopo che l’Italia ebbe dichiarato guerra agli Stati Uniti, nelle biografie di O’Neill, guarda caso, si aveva sempre cura di menzionare, a riprova delle sue origini, il padre Joseph, attore nato in Irlanda. Il censore Leopoldo Zurlo non si mise di traverso, ma Bragaglia si attirò le critiche della stampa fascista più ortodossa, che non accettava lo stratagemma e si prendeva gioco di quella concezione disinvolta di irlandesità. Il settimanale umoristico «Bertoldo», per esempio, pubblicò una vignetta in cui due spettatori discutevano animatamente della nazionalità di O’Neill (Quargnolo 1982, 98–99) e sulla stampa comparve persino il soprannome di O’Bragaglia (Alberti 1974, xxi). Insomma, benché avesse il sostegno del Minculpop, Bragaglia faceva storcere il naso ai fascisti più intransigenti, che lo accusavano di aggirare il divieto e portare in scena testi di scrittori nemici.
Ciononostante, servendosi di pubblicazioni, elementi paratestuali e battage pubblicitario, Bragaglia, Ridenti e le nuove firme del «Dramma» riuscirono a costruire una narrazione condivisa che coinvolgeva anche il pubblico di riferimento (Bruner 1991). Dal 1940 in poi, sulle pagine del «Dramma» si diede grande enfasi all’irlandesità di Synge e Yeats, in particolare, e non si perse occasione per imprimere nella mente dei lettori il “nuovo” fenomeno del teatro irlandese: si pubblicavano brevi note a tema, rimandi a numeri su cui erano apparsi drammi irlandesi, inserzioni pubblicitarie per le compagnie amatoriali con indicazioni su dove trovare i copioni, e brevi recensioni. Non si trattava di contenuti insoliti per la rivista, ma sul teatro irlandese si condusse una campagna senza precedenti, ribadendo continuamente la nazionalità degli autori. Dopo la pubblicazione della traduzione di alcune opere di O’Neill (tra cui Mourning Becomes Electra nel settembre 1941 e Beyond the Horizon nel maggio 1942), e i dibattiti che ne erano scaturiti, «Il Dramma» annunciò che sul numero 380 del 15 giugno 1942 sarebbe apparso un articolo di Marinucci dall’eloquente titolo Quanti sono questi irlandesi?. Di teatro irlandese Marinucci non aveva ancora scritto, ma presumibilmente quella di affidare a lui il primo attacco diretto fu una scelta deliberata: in qualità di giovane esperto di teatro irlandese che non aveva legami forti né con Bragaglia né con la rivista, lo si poteva presentare come una voce nuova nel dibattito. Al titolo provocatorio fu infine preferito un più neutro Panorama degli oriundi irlandesi, ma i contenuti non furono in alcun modo annacquati. Gli autori presentati in quella rassegna non erano semplicemente americani di origini irlandesi, sottolineava Marinucci, ma figli di irlandesi «emigrati o anche casualmente residenti in America» (Marinucci 1942a, 30). Il critico si mostrava attento al dibattito in corso, ribadendo che quegli autori erano una «scoperta», e non un’«invenzione». Erano irlandesi perché figli di irlandesi, e avevano ricevuto un’educazione cattolica che si manifestava chiaramente tanto nelle opere quanto nella critica del capitalismo americano. Marinucci proponeva una visione essenzialmente spiritualistica del teatro irlandese, incardinata su un presunto sistema di valori che accomunava irlandesi e irlandesi americani cattolici; e quello stesso sistema di valori, a suo avviso, avrebbe incontrato i gusti del pubblico italiano. Marinucci diede così un contributo prezioso alla campagna già in atto, rafforzando la narrazione che Bragaglia andava costruendo con Ridenti attraverso una pluralità di canali e con un’insistenza martellante (cfr. Baker 2006, 101–103). Tra l’altro, quella di cucire addosso agli autori irlandesi americani un’identità irlandese era un’operazione in linea con la visione fascista della razza e della nazionalità. In uno degli ultimi capoversi, Marinucci scrive:
Per quanti poi avessero scrupoli residui a considerare di genuina stirpe irlandese gli autori sopraelencati, ricorderemo come l’Italia si consideri sempre la Madre dei suoi figli nati all’estero, ascrivendo le loro opere tra quelle del suo popolo, e come i caratteri della patria di origine non siano affatto spenti nei sunnominati scrittori, ma anzi inducano gli americani autentici, per la loro piena evidenza, a considerare questi autori press’a poco come stranieri. (Marinucci 1942a, 31)
Qui si mette in discussione il concetto stesso di nazionalità. L’espediente degli oriundi è senz’altro interessante dal punto di vista storico, ma è altrettanto degno di nota come espressione delle teorie fasciste della razza e della nazionalità, e Marinucci si mostra assai abile politicamente nel selezionare argomentazioni così persuasive, farle proprie e impiegarle in un momento in cui diventavano preponderanti nella sfera culturale, soprattutto in riferimento alle traduzioni (Rundle 2010, 165-205). È chiaro che quell’inclusività era problematica e controversa – lo dimostrano le lamentele e la satira cui si è accennato sopra – ma sollevava una questione spinosa: la vaghezza del concetto di nazionalità e la sostanziale difficoltà nel tracciare confini nazionali in campo artistico. Non bisognava comunque fare i conti solo con la nazionalità degli autori, ma anche con la tradizione teatrale nella quale si inscrivevano. O’Neill, per esempio, era senza dubbio americano e non mise mai neppure piede in Irlanda, ma he adopted the Abbey style in one-act form and realistic dialogue (adottò lo stile dell’Abbey Theatre, atto unico e dialoghi realistici – traduzione nostra) e had been inspired to become a playwright by the Irish Players from the Abbey in their first [American] tour in 1911 (Harrington 2016, 598; a dargli l’ispirazione di diventare drammaturgo furono gli attori irlandesi dell’Abbey durante la loro prima tournée [americana] del 1911 – traduzione nostra). La fama in Europa, la doveva al successo della rappresentazione dei suoi lavori all’Abbey, dove nel 1927 The Emperor Jones (1920) fu uno dei primi e più influenti testi without obvious Irish context exported from American theatre to the National Theatre of Ireland (Harrington 2016, 599; privi di chiara ambientazione irlandese [che] dal teatro americano [approdarono] al Teatro nazionale d’Irlanda – traduzione nostra). Non solo: nel 1932 O’Neill era stato invitato a far parte della Irish Academy of Letters, e sul «Dramma», oltre ai continui riferimenti alla sua irlandesità, lo si definiva invariabilmente «accademico d’Irlanda». Come già accennato, questo fenomeno era l’equivalente in campo teatrale della pubblicazione di libri anti-inglesi, poiché si dispiegava di pari passo con la produzione di opere straniere dalla “morale degenerata” che avrebbero dovuto rinforzare gli stereotipi riguardanti il paese di provenienza (Scarpellini 1989, 298–299). Entrambe le strategie discorsive miravano, in sostanza, a minare lo status culturale inglese e americano. Non sorprende quindi che Bragaglia ricorresse alla retorica bellica nel presentare le sue iniziative culturali: «Io le recite le faccio come atto di guerra autorizzato dallo Stato italiano che è in guerra con l’America. Tu la pubblicazione come la fai? Mettiti a posto», scriveva a Ridenti (2 febbraio 1942, FR, Corrispondenza).
Insomma, la diffusione del teatro irlandese e irlandese americano nell’Italia della seconda guerra mondiale getta luce tanto sulla coeva politica degli scambi culturali quanto sulla fluidità del canone irlandese. Fu anche grazie al discorso internazionale sulla diaspora irlandese, filtrato nel sistema letterario italiano, che gli spettatori accettarono, seppure con qualche sospetto, una tale presenza di drammaturghi irlandesi, o supposti tali, sulle scene. Tutte le letterature nazionali presentano confini essenzialmente porosi, ma il canone irlandese era – e, in una certa misura, resta – un caso molto particolare, influenzato com’è non solo da fattori linguistici e biografici, ma anche da questioni tematiche, alleanze politiche e narrazioni nazionali divergenti (Cairns, Richards 1988). Con le loro iniziative, Bragaglia e Ridenti certamente favorirono il riconoscimento della letteratura irlandese in Italia e aprirono un dibattito sulla sua specificità all’interno dell’anglosfera; tuttavia, come vedremo, tenendo una linea integralista e ricorrendo giocoforza a una serie di semplificazioni, generarono una certa confusione nel sistema letterario. A dimostrare che in Italia la letteratura irlandese aveva uno status tutt’altro che chiaro, e quindi si prestava a manipolazioni politiche ed estetiche, sarebbe stata la «Collezione Teatro» di Paolo Grassi.
Paolo Grassi e Rosa e Ballo: va alle stampe l’Irlanda antifascista
Nella primavera del 1941, un giovane Paolo Grassi (nato nel 1919) mise assieme un cartellone di 19 titoli con Palcoscenico, gruppo di cui era fondatore assieme ai compagni dell’Accademia dei Filodrammatici milanese e futuri protagonisti della scena italiana, tra cui Giorgio Strelher, Franco Parenti, Mario Feliciani e Aegle Sironi (figlia del pittore). Come ci ricorda Oliviero Ponte di Pino, quel progetto teatrale scaturiva da «Corrente di vita giovanile», rivista letteraria antifascista che ebbe notevole influenza, ma vita breve (fu chiusa nel 1940, a due anni dalla fondazione). «L’unico gruppo teatrale sperimentale esterno ai Guf» (Ponte di Pino 2006, 44), Palcoscenico aveva sede presso la Sala Sammartini di Milano e proponeva un repertorio molto eclettico: qualche titolo italiano e, soprattutto, opere di alcuni dei pochi autori stranieri permessi dalla censura fascista, come Yeats, Synge, O’Neill, Čechov, Evreinov e Shakespeare. A pesare su quella scelta erano diversi fattori. Pur opponendosi attivamente alla retorica e alle imposizioni estetiche del fascismo, i giovani intellettuali che gravitavano attorno a «Corrente» avevano ben poca libertà di manovra. Il corpus di opere che sfuggivano alla censura nell’Italia della seconda guerra mondiale era relativamente ristretto, ma le scelte di Grassi e dei suoi compagni sono significative: Synge, Yeats e l’oriundo O’Neill sono ben rappresentati, e la futura carriera di Grassi avrebbe dimostrato che non era né un caso né una scelta dettata solo dalle circostanze politiche del tempo. I due testi irlandesi portati in scena da Palcoscenico, Cathleen Ni Houlihan di Yeats e Riders to the Sea di Synge, avevano un palese significato politico. Il primo chiamava alla rivolta i figli di un paese occupato e governato da un regime dispotico: le connotazioni anti-inglesi sono chiare, ma altrettanto chiaro è l’incitamento alla ribellione, che si prestava facilmente all’interpretazione in chiave antifascista. Riders to the Sea non veicolava un significato politico diretto, ma le rappresentazioni internazionali e gli adattamenti che ne erano stati realizzati potevano renderlo un simbolo del teatro antifascista: non solo aveva una retorica antitetica al trionfalismo del regime, ma nel 1937 era stato adattato dall’esule Brecht con il titolo Die Gewehre der Frau Carrar (Parker 2014, 366; I fucili di Madre Carrar, Torino, Einaudi, 1961, traduzione di Giuseppina Panzieri Saija). Che Synge, Yeats e O’Neill fossero tra i principali autori in cartellone è indicativo della necessità di ritagliarsi continuamente uno spazio per le iniziative antifasciste, data la scarsissima libertà di manovra concessa. Sebbene nella ricostruzione della storia del teatro italiano si tenda a privilegiare la rottura, e non la continuità, tra pratiche fasciste e post-fasciste (Pedullà 2009, 9–46), c’è da dire che evidenziare gli elementi di continuità può essere utile per comprendere le dinamiche del cambiamento culturale. Non solo: può permettere un’analisi di come strategie di inquadramento e categorizzazione ben studiate possano incidere significativamente sulla riformulazione dei discorsi intorno a un corpus di opere omogeneo, e piuttosto circoscritto, come quello che stiamo esaminando qui.
Il legame tra Grassi e le iniziative coeve promosse dal «Dramma» e dal Teatro delle Arti era certamente forte. Lo stesso Grassi lo riconosceva in una lettera a Ridenti: «Se IL DRAMMA di molti anni, fino a tre anni fa, non è, debbo confessarlo, la rivista di noi giovani, negli ultimi tempi, però esso è stato l’unico organo VIVO in Italia» (lettera a Lucio Ridenti, 24 agosto 1944, in AReB, Fondazione Mondadori, Milano, Corrispondenza, cartella 5, fascicolo 5). Il riferimento temporale non è lasciato al caso. Infatti fino al 1941, o meglio fino al 1940, «Il Dramma» aveva un taglio molto diverso, poco allettante per un pubblico giovane; ma, dopo lo scoppio della guerra, con tutta l’attenzione dedicata agli autori irlandesi e americani, le cose erano cambiate radicalmente.
Intanto anche la carriera del giovane attore e regista prendeva un’altra piega. Due anni dopo l’esperienza con Palcoscenico, Grassi si era fatto un nome come critico teatrale a Milano e Ferdinando Ballo gli affidò la direzione della collana teatrale della neonata casa editrice Rosa e Ballo. La «Collezione Teatro» curata da Grassi ha un’importanza che è difficile sopravvalutare: esercitò una profonda influenza e, rilevata poi dalla casa editrice milanese La Fiaccola, sarebbe sopravvissuta all’editore che l’aveva messa in piedi. Con «Teatro» Grassi tentò di raggiungere per la prima volta il pubblico dell’intera nazione. Se ne servì, come ha osservato Michele Sisto (Sisto 2016), per conquistarsi un ruolo da protagonista in ambito letterario, unendo le istanze antifasciste al tentativo di avviare una rivoluzione nel teatro italiano. In una lettera a D’Amico, Grassi dichiarava l’intento di pubblicare opere che fossero «segni tangibili di un teatro moderno» e individuava due principali filoni cui dedicare i primi volumi della collana: «pubblicheremo gli irlandesi e gli espressionisti tedeschi» (lettera a Silvio D’Amico, Natale 1943, in FSD, Corrispondenza, fascicolo 5). Dei primi venti raffinati volumi della collana di Rosa e Ballo, ben otto sono dedicati al teatro irlandese, con autori del calibro di Synge (l’opera omnia in quattro volumi), Yeats (due volumi), O’Casey (un volume) e Joyce (un volume) nelle traduzioni canoniche di Carlo Linati, a eccezione di The Tinker’s Wedding (Le nozze dello zingaro e calderaio) e The Well of the Saints (La fonte dei Santi) di Synge, da lui tradotti per la prima volta. Come nella scelta dei titoli per il cartellone di Palcoscenico, Grassi faceva un ragionamento politico che tuttavia non basta da solo a giustificare lo spazio riservato al teatro irlandese. Tra l’altro, nel catalogo di Rosa e Ballo figurava anche The Aran Islands di Synge (Le isole Aran, prima traduzione integrale, sempre di Linati), ed erano in cantiere altre traduzioni di opere irlandesi. L’archivio Rosa e Ballo custodisce una traduzione inedita di The Importance of Being Earnest di Oscar Wilde (AReB, Direzione editoriale, fascicolo 13, cartella 5) e documenti che dimostrano quanto Grassi fosse interessato a pubblicare sia Eugene O’Neill (AReB, Corrispondenza, fascicolo 4, cartella 8) sia Geneva di G.B. Shaw (AReB, Diritti, fascicolo 17, cartella 3), opera apertamente antifascista, e per questo tra i pochi lavori shawiani che Mondadori non aveva pubblicato durante il ventennio. Sfogliando i contratti, si scopre poi che Linati si era impegnato a scrivere un’introduzione di trenta, quaranta pagine a Synge e a Yeats (AReB, Contratti, fascicolo 19, cartella 10). Non è chiaro se sarebbero state pubblicate come volumi a sé, ma dai contratti sembrerebbe di sì, poiché figurano come voci separate in un elenco di libri in programma. Non furono mai realizzate (e tra quelle pubblicate, la prefazione più lunga è di appena quattro pagine), ma testimoniano un’attenzione forte per la letteratura irlandese.
Da questo interesse si ricava una chiave di lettura che, oltre a gettare nuova luce sulla posizione complessa di Grassi, problematizza le conclusioni che altri studiosi hanno tratto sull’impresa editoriale di Rosa e Ballo. Deciso a presentare all the best foreign drama produced in the last 50 years (Sisto 2016, 74; il meglio del teatro estero degli ultimi cinquant’anni – traduzione nostra) e a rivitalizzare il campo teatrale italiano, Grassi non proponeva una selezione di autori sconosciuti al pubblico; piuttosto, ricategorizzava testi con i quali gli spettatori avevano almeno una parziale dimestichezza: His main aim was, in fact, not to “discover” new texts and authors, but rather to put together a repertoire of recognized works that would, in turn, ensure him recognition (Sisto 2016, 76; il suo scopo principale, infatti, non era “scoprire” nuovi testi e nuovi autori, ma mettere assieme un repertorio di opere di successo che, a sua volta, gli avrebbe garantito il successo – traduzione nostra). Pur inquadrate sotto questa luce, le scelte di Grassi sono assai eloquenti. Di svariati autori irlandesi i testi erano praticamente già pronti per la pubblicazione – li si poteva riprendere da «Il Dramma» o richiedere ai traduttori – ma Grassi decise di escluderli. Allo stesso modo, escluse i pirandelliani Lennox Robinson e Denis Johnston, né si mostrò interessato al misticismo o all’orientalismo irlandesi, come dimostra la scelta di scartare Lord Dunsany. Persino tra le opere di Yeats, scelse quelle che avevano contenuti politici manifesti, per quanto presentati allegoricamente, come Cathleen Ni Houlihan. Predilesse i toni espressionisti di Synge e il crudo realismo politico del socialista O’Casey. Altrettanto eloquente è la scelta dei collaboratori: oltre a nomi nuovi, tra cui Gerardo Guerrieri, coinvolse alcuni dei principali esponenti del teatro fascista (per esempio, D’Amico e Bragaglia), a dimostrazione che intendeva stabilire una continuità con il passato più recente. Senza sottovalutarne l’importanza, possiamo senz’altro dire che Grassi attuò la sua rivoluzione scegliendo non la rottura netta con il passato, ma una riforma ben architettata.
Se la selezione di testi sembra improntata alla cautela, c’è da dire che Grassi fu abile a presentarla come sovversiva e antifascista. Basti pensare che, nonostante tutti i testi avessero avuto ampia circolazione durante il fascismo, The Shadow of a Gunman (1923) di O’Casey, tradotto da Carlo Linati come Il falso repubblicano, uscì con una fascetta tanto sorprendente quanto inesatta, che lo presentava come uno dei «libri proibiti dai fascisti», «la parodia di una rivoluzione […]. Di attualità». Il libro andò in stampa nel settembre 1944, ma si può presumere che la fascetta venisse aggiunta dopo la fine della guerra. Era una dura denuncia della censura fascista e la si poteva interpretare come riferimento alla presunta rivoluzione del regime, a conferma dell’antifascismo di Grassi, ma anche come allusione a fatti «di attualità», cioè alla Resistenza, al termine della quale i democristiani guidati da Alcide De Gasperi avevano a poco a poco emarginato le forze estremiste di sinistra. Secondo l’«antigiornale satirico-politico» romano «Cantachiaro», il «falso repubblicano» del titolo era proprio De Gasperi, il quale nel novembre 1945, sempre secondo la narrazione satirica, avrebbe protestato contro la pubblicazione dell’opera di O’Casey facendo presente all’editore che «in regime democratico non devono più essere permesse le velate allusioni» (AReB, Ritagli stampa, fascicolo 24). Un colpo da maestro, quello di Grassi. Così il suo canone riformista diventava sovversivo e, dopo la Liberazione, l’apprezzamento per il socialista O’Casey e il teatro irlandese, pur esplicitandosi nella scelta di testi che erano andati in scena senza difficoltà durante il ventennio, veniva percepito come antifascista e could be symbolically associated with a position-taking in favour of a social revolution in liberated Italy (Sisto 2016, 77; lo si poteva associare simbolicamente al sostegno a una rivoluzione sociale nell’Italia liberata – traduzione nostra).
Nell’immediato quelle scelte editoriali giovarono alla fortuna del teatro irlandese in Italia. C’è da dire che durante le prime stagioni al Piccolo Teatro di Milano (dal 1947 in poi) Grassi non rappresentò testi irlandesi, a conferma che il teatro irlandese era semplicemente funzionale alla sua riforma. Ma altri palcoscenici italiani proposero un buon numero di produzioni tratte dal canone ormai un po’ antiquato di Linati e Grassi, soprattutto a Genova (Teatro Sperimentale Pirandello) e a Firenze (Teatro dell’Università). Gli stessi anni furono segnati da una riscoperta della poesia e del teatro di Yeats che ebbe come protagonisti Leone Traverso, Eugenio Montale e il giovane critico Giorgio Manganelli, sulla strada per affermarsi tra gli scrittori più originali e apprezzati in Italia. Su incarico di Guanda, Manganelli tradusse le opere teatrali e la poesia di Yeats, scoprendo un interesse che avrebbe coltivato per tutta la vita (Manganelli 2002).
Come abbiamo visto, la letteratura irlandese ebbe un ruolo unico in Italia soprattutto per via del suo status ambiguo e incerto. Il repertorio teatrale, in particolare, era poco noto al pubblico italiano e grazie al suo status politico sfuggente si prestava ottimamente a manipolazioni politiche ed estetiche. Se a inizio Novecento ad animare Linati e altri era stato un interesse genuino per la letteratura irlandese, la riscoperta del teatro negli anni quaranta fu dettata principalmente da motivi di convenienza politica. Mentre mediatori come Marinucci si occupavano del sempre più vasto repertorio irlandese e lo presentavano al pubblico italiano essenzialmente perché intendevano farsi un nome in campo letterario, Bragaglia pareva mosso soprattutto dalla mancanza di alternative e avrebbe presto perso interesse, dedicandosi piuttosto a diffondere le opere di O’Neill e altri testi anglo-americani. L’uso che ne avrebbe fatto Grassi come responsabile della «Collezione teatro», e il successivo allontanamento nel prosieguo della sua carriera, conferma quanto fosse duttile la categoria di “teatro irlandese”. È senz’altro interessante studiarne la diffusione in Italia, ma qui si vuole suggerire che la storia della categoria “letteratura irlandese” (e viene quasi la tentazione di chiamarla “etichetta”), e di come fu usata nell’Italia degli anni quaranta, dimostra che di un repertorio così fluido potevano appropriarsi, nonostante il divario ideologico che li separava, tanto gli intellettuali fascisti quanto gli intellettuali antifascisti, e con pari facilità. L’Irlanda era coinvolta nella guerra e allo stesso tempo neutrale, e il canone irlandese in Italia era altrettanto ambivalente: al contempo circoscritto e ampio, fascista e antifascista; lo si usava per scopi politici e lo si apprezzava per motivi estetici; lo si connotava, anziché esplorarlo. Non sorprende, quindi, che mentre l’attenzione per certi autori (per esempio Joyce, Yeats e Synge) sarebbe rimasta forte nell’Italia del dopoguerra, il discorso sul teatro irlandese, una volta svuotato dei contenuti politici, perse la centralità che aveva avuto nella scena teatrale post-fascista e di sinistra.
Fonti archivistiche e riferimenti bibliografici
Fondi archivistici consultati
ACL: Archivio Carlo Linati, Biblioteca di Como
AReR: Archivio Rosa e Ballo, Fondazione Arnoldo e Alberto Monbdadori, Milano
CGD: Carte Gian Dàuli, Archivio scrittori vicentini della Biblioteca civica bertoliana, Vicenza
FF: Fondo Enzo Ferrieri, Centro manoscritti dell’Università di Pavia
FR: Fondo Lucio Ridenti, Centro Studi del Teatro Stabile di Torino
FSDA: Fondo Silvio D’Amico, Museo dell’Attore, Genova
Dato che questo articolo tratta principalmente delle pratiche di mediazione degli intellettuali e professionisti di teatro, mi sono concentrato soprattutto su documenti prodotti da loro più che su quelli a loro dedicati (p. es. le recensioni). Questa operazione ha implicato un’attività di ricerca in vari archivi italiani. La storia dell’archivio di Bragaglia è avvolta nel mistero. Un Centro Studi Bragaglia fu attivo a Roma fino agli anni ottanta, ma da allora è inaccessibile e il suo patrimonio non è mai stato trasferito altrove. Fortunatamente, Bragaglia fu un episolografo instancabile ed è possibile trovare sue lettere in numerosi archivi italiani. Ho dunque attinto al Fondo Ridenti presso Centro Studi del Teatro Stabile di Torino e alle Carte Gian Dàuli presso Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza. Il poco esplorato Fondo Lucio Ridenti, in particolare, custodisce oltre 170 lettere scritte a Ridenti da Bragaglia o dai suoi collaboratori e si è rivelato particolarmente utile per stabilire la centralità dell’asse Roma-Torino nel revival irlandese e irlandese-americano in Italia. Tuttavia, le ricerche condotte all’Archivio Centrale dello Stato di Roma confermano l’assenza di altri materiali rilevanti a parte quelli scoperti da Alberti (1974) e Vigna (2008) a cui si fa riferimento nel testo, mentre altri archivi – il Fondo Alessandra Scalero di Mazzè (Torino), il Fondo Ferrieri presso il Centro manoscritti dell’Università di Pavia, l’Archivio Carlo Linati presso la Biblioteca di Como e il Fondo Silvio D’Amico presso il Museo dell’attore di Genova – conservano solo un numero limitato di documenti che riguardano questo tema specifico. Gli archivi della Siae non possiedono materiali pertinenti, ma custodiscono la serie completa del bollettino «Lo spettacolo in Italia», preziosa fonte di informazioni statistiche. Neanche l’Abbey Theatre Archive della National University of Ireland di Galway possiede materiali relativi alle rappresentazioni italiane. Documenti riguardanti gli inizi della carriera di Paolo Grassi sono altrettanto rari, e quasi unicamente limitati all’Archivio Rosa e Ballo della Fondazione Mondadori di Milano (AReB), che conserva moltissimi contratti, manoscritti, bozze, ritagli di giornale e alcune lettere. Mi sono quindi concentrato su quei pochi materiali che riguardavano specificamente i principali mediatori al centro di questo studio come pure quelli che trattavano della «Collezione Teatro», lasciando da parte alcune interessanti lettere sugli scrittori irlandesi che non erano indispensabili per l’argomento in esame.
Riferimenti bibliografici
Agresti 1925: Giorgio Bernardo Shaw, Commedie gradevoli: L’eroe, L’uomo del destino, Candida, Non si sa mai; traduzione italiana di Antonio Agresti, Milano, Mondadori
Alberti 1974: Alberto C. Alberti, Il teatro nel fascismo: Pirandello e Bragaglia, documenti inediti negli archivi italiani, Roma, Bulzoni
Alberti et al. 1987: Alberto C. Alberti, Paola Di Giulio, Sandra Bevere, Il teatro sperimentale degli indipendenti (1923–1936), Roma, Bulzoni
Alessio 1941: Luigi Alessio, Il teatro in America, in «Il Dramma», n. 345 (1° gennaio 1941), pp. 31–33
Baker 2006: Mona Baker, Translation and Conflict, London, Routledge
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