La recensione / 1 – Un convegno ricco di idee (con finale a sorpresa)

Transito libero. Sulla traduzione della poesia, a cura di Caterina Graziadei e Duccio Colombo, Artemide, Roma, 2011, pp.181, € 20,00

di Giulia Baselica

I transiti fra le lingue che danno variamente forma alla parola poetica, le segrete verità racchiuse nella forma del verso e poi dischiuse in forme altre, in nuove cornici e in nuovi tempi e spazi, l’interrogarsi dinnanzi al mistero della voce eterna e universale della poesia, capace, sempre, di raggiungere i suoi lettori costituiscono altrettanti temi di riflessione dei diciotto interventi raccolti in questo interessantissimo volume.

Transito libero. Sulla traduzione della poesia è la preziosa testimonianza di un convegno dedicato alla traduzione della poesia e organizzato dall’Università di Siena nel 2007. Il convegno prendeva spunto da un’occasione speciale: il conferimento della laurea honoris causa a Evgenij Michajlovič Solonovič, uno dei maggiori traduttori russi di letteratura italiana, in particolare di poesia – Dante, Petrarca, Michelangelo, Ariosto, Alfieri, Parini, Belli, Carducci, Ungaretti, Quasimodo, Montale, Caproni, Spaziani, Giudici, Zanzotto – ma anche di prosa – Moravia, Calvino, Saba, Tomasi di Lampedusa, Landolfi, Rigoni Stern, Sciascia, De Filippo – insignito di molti premi per la traduzione, tra i quali il premio Quasimodo (1969) e il premio Montale (1983).

Un convegno originale perché suddiviso in due momenti, ognuno dal carattere distinto e complementare: la prima giornata dedicata al confronto tra gli studiosi intorno al tema della traduzione poetica; la seconda e conclusiva agli interventi sulla traduzione dei sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli, quindi al festeggiamento di Solonovič traduttore del Belli, «chiamato a uno scherzoso certamen con il traduttore in francese, Jean-Charles Vegliante» riferisce Caterina Graziadei nell’Introduzione.
I saggi contenuti in questo volume ci invitano a compiere un percorso vario e per molti aspetti sorprendente, per il suo inoltrarsi nelle profondità della riflessione sulla poesia e sul multiforme rapporto che questa intrattiene con la traduzione.
Sulla figura del traduttore di poesia si sofferma innanzitutto Andrea Landolfi (Poeta o traduttore? Carducci alle prese con Platen), precisando che il lettore volge un interesse e assume un atteggiamento diversi nei confronti dello scrittore e del poeta-traduttore. Se al primo egli è incline a imputare la colpa di aver sovrapposto all’originale il proprio io di scrittore, al secondo è disposto ad attribuire un’autorevolezza e un’autenticità indiscutibili. Tale sacro rispetto è pericoloso, osserva Landolfi, perché ostacola la lettura e la comprensione del poeta tradotto. A tale proposito Landolfi propone l’esempio delle liriche di August von Platen tradotte da Carducci La tomba del Busento e Il pellegrino davanti a Sant Just e inserite, di diritto, nel canone delle letture scolastiche di un tempo. Le traduzioni di Carducci sono autentiche ricreazioni poetiche, che lasciano avvertire la presenza della forte personalità del poeta italiano. E tuttavia, precisa l’Autore del saggio, «lo spostamento, la messa in ombra, l’appannamento dell’originale sono piuttosto opera dello Zeigeist», sono il riflesso di un’epoca, caratterizzata dal bisogno di certezze e di grandezza e connotata dall’orgoglio nazionalistico. Eppure Carducci si rivela pienamente consapevole del suo compito di traduttore e, sottolinea Landolfi, si sofferma sulle questioni inerenti alla traduzione poetica, riflettendo sulle sue scelte traduttive e concentrandosi sugli elementi formali dell’opera del poeta tedesco, infine dando prova di un atteggiamento moderno: Carducci non tenta di stabilire un rapporto di identificazione e neppure di somiglianza con Platen.
Sul versante opposto a quello del traduttore che pare imporre la propria voce poetica sull’originale si colloca il traduttore timido: è deprecabile la sua «paura dell’azzardo» – Ortega y Gasset parlava di pusillanimità del traduttore in opposizione al coraggio dell’autore, le cui invenzioni linguistiche, spesso veri e propri atti di trasgressione della norma, vengono corretti – cui si deve l’attuale proliferare di traduzioni «corrette, denaturate, apersonali».

Dell’interessante breviario che Landolfi pone a conclusione del suo intervento, rilevando e dimostrando la necessità, non soltanto, quindi, l’opportunità – con un’accurata e profonda analisi comparata della poesia di von Platen Das Grab in Busento e la versione carducciana – di rivedere le grandi traduzioni del passato, colpisce, in particolare, il punto terzo: «per rivedere una versione d’autore si richiede coraggio nel fare le proprie scelte; rispetto per ciò che il traduttore ha comunque fatto; prudenza nel cassare: spesso l’espressione “brutta” è comunque il meno peggio».

Mario Specchio si concentra sul ruolo del poeta-traduttore (Celan e Ungaretti. Appunti in margine a una traduzione), al quale è riconosciuto il vantaggio di comprendere meglio e con più immediatezza l’opera poetica altrui, anche se, talvolta, il poeta che traduce poesia, più di ogni altro traduttore, è esposto all’influsso e ai condizionamenti della sua stessa voce, che interferisce nella lettura e nella resa della traduzione. Di qui la fondamentale questione della fedeltà, cioè del rapporto tra fedeltà e bellezza di una traduzione, quindi del concetto di libertà e della relativa contrapposizione tra legittimità e arbitrarietà: «la libertà non è necessariamente votata a configgere con la fedeltà, la bellezza non implica geneticamente violenza o appropriazione indebita. Al contrario le traduzioni più belle sono spesso, paradossalmente, quelle più libere, quelle cioè, che si sono affrancate dal peso della “lettura” per liberare, appunto, lo spirito del testo. O il suo fantasma». Illuminanti le parole con cui l’Autore del saggio definisce il senso dell’atto di traduzione per chi traduce, (non importa se poesia o prosa): è «esperienza di una conquista – e di una perenne sconfitta – tanto passionale quanto incomunicabile, è un sapere non condivisibile, ciò che se ne può raccontare è solo ciò che accade nella periferia poiché l’essenziale non è contenuto né contenibile nelle parole». Richiama l’esperienza di Celan traduttore di numerosi poeti (tra i quali Esenin, Blok, Mandel’štam, Chlebnikov, Arghezi, Pessoa, Char, Apollinaire, Boucher, Shakespeare, Frost, Ungaretti), che nulla scrisse mai sulla sua opera di traduzione e per il quale tradurre altri poeti significava interrogarsi, all’infinito, sul senso della vita e, soprattutto, sul senso della morte.

Antonio Prete (Del tradurre. Due passaggi) mette in luce il vincolo, contraddittorio presupposto cui il traduttore che traduce poesia non può sottrarsi: l’impossibilità di infrangere l’unità di senso e suono, pur sapendo che la prima rinuncia impostagli dalla sua stessa lingua è proprio «la costruzione sonora del verso». Inoltre tradurre un classico, ci ricorda Prete, significa necessariamente ripercorrere la tradizione poetica della propria cultura, con l’intero suo patrimonio di modi espressivi, ricchezze metaforiche, forme metriche. Antonio Prete ci conduce infine a un’inconsueta rivelazione della poesia: quella della non parola, del silenzio – e si può cogliere, qui, il richiamo all’indicibilità dell’esperienza della traduzione sulla quale più volte torna Mario Specchio nel suo scritto – «tradurre il silenzio vuol dire rispondere con i propri silenzi, doppiamente propri, cioè appartenenti alla lingua in cui si traduce e alla lingua di colui che traduce».
Alcuni saggi propongono temi inerenti ad aspetti peculiari della traduzione di poesia e ci ammettono, idealmente, ad assistere a una sorta di laboratorio di traduzione, nel quale si affrontano problemi concreti. Uno di questi è la resa del verso: Remo Faccani (Appunti di viaggio sulla traduzione), partendo dalle riflessioni sull’opera di traduzione e di ricerca sulla traduzione compiuta da Michail Leonovič Gasparov, pone la questione del verso libero, definito «limite estremo che sia dato raggiungere [nel] processo di avvicinamento al ritmo naturale». Vi si fa ampio ricorso nelle traduzioni, e tuttavia, precisa Faccani, allontana i lettori dalla percezione del metro, diventando, e qui Faccani riporta il pensiero di Gasparov, «una sorta di lingua franca della traduzione». Alla riflessione intorno all’impiego del verso libero prende parte anche Duccio Colombo (Invece del metro. Del perché Anna Achmatova è tradotta male in italiano e di cosa ne consegue) il quale sottolinea l’orientamento generale a tradurre i versi di Anna Achmatova, regolari e rimati, con il verso libero, in realtà molto raramente impiegato nella poesia russa, precisa Colombo, fino agli anni Ottanta. Tale procedimento, rileva l’Autore, produce sulla percezione del lettore un effetto estraniante: quello di una poesia costituita non da versi, per di più resi in una versione intralineare, e la marca del verso finisce con l’identificarsi del tutto, ed esclusivamente, nell’enjambement. La conclusione che ne deriva è che «se e quando una traduzione metrica è impossibile, sia preferibile rischiare la vicinanza alla prosa piuttosto che azzardare recuperi improbabili».

Barbara Ronchetti volge l’attenzione all’essenziale importanza della traduzione del titolo (Esegesi di un titolo. Velimir Chlebnikov, Zmej poezda), osservando «il titolo scelto per un’opera tratteggia i contorni di possibili avvicinamenti al testo». La studiosa si confronta con i complessi problemi inerenti alla traduzione del titolo, innanzitutto, del poema Zmej poezda, composto dal poeta futurista russo Velimir Chlebnikov in una lingua elaborata dal poeta stesso, definita «stellare» ed esemplificata in un vero e proprio dizionario, nel quale vengono riportati i valori semantico-associativi dei suoni consonantici. Qui la ricerca di un’adeguata traduzione del titolo non può prescindere dal mondo cui il poeta dà consistenza mediante associazioni tanto suggestive quanto complesse e non sempre coerenti, da quell’universo parallelo costituito, oltre che dalle tradizioni letterarie non soltanto russe, bensì anche europee e orientali, anche dalle leggende popolari e da ogni sapere della cultura. Ma la traduzione poetica può anche essere esperienza ludica: è di Maria Sebregondi la proposta di un giocoso esperimento di traduzione o di esperimento di traduzione giocosa di un testo à contrainte, nel quale i giochi di parole sono elementi non soltanto stilistici, bensì anche cardini del testo stesso (Fare il verso al primo verso: versioni e perversioni del traduttore à contrainte). L’Autrice dà conto di un interessante confronto con gli allievi di un corso di traduzione all’Università La Sapienza di Roma sulle possibili versioni italiane del poemetto Le Chant du Styrène, composto da Raymond Queneau alla fine degli anni Cinquanta, come accompagnamento a un documentario sulla plastica e sul polistirolo. Da tale confronto nascono svariate proposte di traduzione, per esempio, sul primo verso, O temps suspends ton bol, parodia dell’incipit della celeberrima lirica di Alphonse de Lamartine Le Lac, O temps suspends ton vol. E analogamente parodica deve essere la traduzione italiana – osserva Maria Sebregondi – ché «la parodia si deve sentire con forza, la dissacrazione deve essere potente», con infinite invenzioni tanto giocose e divertenti quanto seriamente interessanti.

Vasto e profondo è poi l’interrogarsi sulla natura della traduzione poetica, per la quale Antonella Nedda (Una Mesopotamia interiore) introduce l’idea di «ripetizione», intesa come «richiesta ulteriore al testo», poiché, ci ricorda la studiosa, «in ogni ripetizione si nasconde una possibilità». Ogni traduzione è una rilettura del testo originale e in tale movimento, «che è rythmos, scorrere, cerca una verità, una possibile risposta». L’Autrice del saggio suggerisce il rimando alla pittura, quando l’atto di ri-lettura riguarda il dipinto; di qui il concetto di ekphrasis, che ella definisce «traduzione dello sguardo» e rivela che la storia dell’arte è stata la sua prima maestra di traduzione, in quanto il testo, la descrizione, il commento di un’opera artistica traducono un’immagine, a sua volta poi tradotta dalla mente di chi legge.

Se leggere è interrogare il testo, anche, e ancor di più, tradurre è porre domande, che si fanno sempre più incalzanti. Ma la domanda che rimane senza risposta è «che cosa spinge il traduttore a compiere una simile impresa?» Forse è l’impresa a cercare e a trovare l’eroe e non il contrario, se, come ricorda Stefano Dal Bianco (A Unison di William Carlos Williams tradotta da Vittorio Sereni), riportando le parole di Sergio Solmi, «la traduzione nasce a contatto col testo straniero, con la forza, l’irresistibilità dell’ispirazione originale», come un atto spontaneo e, nel contempo, necessario. Ma, soprattutto, «alla sua nascita presiede qualcosa come un vuoto di invidia, un rimpianto d’aver perduto l’occasione lirica irritornabile, di averla lasciata a un più fortunato confratello di altra lingua». Così, osserva Dal Bianco, la versione italiana della lirica di William Carlos Williams pare più una poesia di Sereni, per via dei motivi che essa esprime e ciò che rende il poeta italiano un grande traduttore del Novecento è «l’unione di fedeltà e di appropriazione». Lo studioso coglie nella versione di Sereni una sorta di traduzione del pathos visivo in pathos sintattico, determinando un innalzamento del tono generale. Così, commenta lo studioso, «la lingua della poesia italiana tra anni Cinquanta e Sessanta non è pronta per la poesia di Williams» e autentica è allora l’enunciazione di Steiner, in Dopo Babele, secondo il quale tra la prima fase del moto ermeneutico (il processo della traduzione), cioè l’atto di fede che induce il traduttore a cimentarsi nell’impresa, e la successiva, quella dell’aggressione al testo, può passare un tempo anche molto lungo, se la cultura della lingua d’arrivo non è ancora pronta ad accogliere in sé una nuova, dunque estranea, presenza.

La traduzione della poesia contempla e custodisce la memoria poetica, forse in parte addirittura identificandosi in essa. È quanto svela Laura Barile (La traduzione e le sue tracce. Morte e salvezza dal Canto di Simeone a Voce giunta con le folaghe) nella versione montaliana del Canto di Simeone di Eliot, nella quale sono presenti «alcune reti di lemmi» che rinviano alla cifra stilistica del poeta-traduttore e percorrendo le quali la studiosa giunge alle raccolte Ossi di seppia, (in particolare alle poesie contenute nella sezione Meriggi e Ombre III), e La bufera e altro, alle liriche della sezione Silvae.

Al dialogo ideale tra i due numi tutelari di tali profondi e vasti ragionamenti, il poeta Giuseppe Gioachino Belli e il traduttore Evgenij Michajlovi Solonovič sono dedicati alcuni interessanti contributi. Innanzi tutto il saggio di Alberto Olivetti (Liberi transiti nel romanesco di Giuseppe Giochino Belli), nel quale viene messo in luce il senso della poetica belliana. Il poeta romano guarda, ascolta, quindi ritrae, cioè espone, nel senso che cava fuori e recinge «ciò che è presente al fine di instaurare un suo significato formalmente riconoscibile». È lo stesso Belli a definire la sua opera, il suo procedimento poetico, come atto del ritrarre: «io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e la ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua, infine, non italiana e neppure romana, ma romanesca». Duplice atto di traduzione, dunque, la poesia del Belli, come atto, di nuovo, di ekphrasis e come resa in lingua romanesca. E tale stratificata e complessa opera di traduzione attira nella sua orbita un’autentica pleiade di poeti e traduttori-poeti come il peruviano Carlos German Belli, il quale coglie nei sonetti del poeta romano, osserva Antonio Melis (Da Belli a Belli) oltre alla straordinaria ricchezza del plurilinguismo che li caratterizza, anche alcuni temi connessi con un sentimento di religiosità profonda, ispiratrice, a sua volta, della scelta di tradurre il sonetto La risurrezzion de la carne.

Infine, il giocoso certamen in cui si affrontano Solonovič e Vegliante traducendo nelle rispettive lingue i sonetti belliani Er ciàncico, La stiticherìa, Er giorno der Giudizzio, Er bottegaro, Er caffettiere fisolofo, Er canto provìbbito, Er monno muratore, A padron Marcello, Er matarazzaro, Er geloso com’una furia, L’amore de li morti, Er passa-mano, Li rivortósi, La vita da cane. E se Jean-Charles Vegliante cerca di riprodurre nella sua versione «quel ritmo, quel suo ritmo inarrestabile e l’invenzione continua di una vera gestualità ricreata», Solonovič, per il quale tradurre Belli è un «piacere tormentoso», afferma che «di fronte a un materiale come la lingua della gente semplice, l’audacia delle soluzioni traduttive sfiora il rischio dell’eccesso. Non basta leggere la traduzione con gli occhi, si deve verificare con l’orecchio». Giocoso e serio, in ultimo, l’esperimento di Carlo Pestelli (I sonetti di Belli per voce e chitarra) che traduce in musica, con delicatezza, alcuni sonetti, Li casotti novi e La fittuccia, ricercando l’idea melodica in canzoni popolari e attivando un cortocircuito traduttivo che unisce in sé parola poetica, melodia e cultura popolare.