La recensione / 3 – Le rose di Katherine Mansfield

Franca Cavagnoli, La voce del testo. L’arte e il mestiere di tradurre
Feltrinelli, Milano 2012 € 9,50

di Susanna Basso

The roses were in flower – gentlemen’s button-hole roses, little white ones, but far too full of insects to hold under anyone’s nose, pink monthly roses with a ring of fallen petals round the bushes, cabbage roses on thick stalks, moss roses, always in bud, pink smooth beauties opening curl on curl, red ones so dark they seemed to turn black as they fell, and a certain exquisite cream kind with a slender red stem and bright scarlet leaves.

Katherine Mansfield, scrive con mani lievi: allude, accenna, sceglie con grazia gli aggettivi. È spesso vaga – uno dei suoi aggettivi preferiti -, perché preferisce che il significato aleggi sulla cose. Sovente la sua prosa s’innalza a sfiorare la poesia e il linguaggio si fa sfumato. Chi traduce deve tener conto di questa leggerezza e scegliere parole lievi, anche per non appesantire la sintassi frugale, dall’architettura cristallina. […] Nella traduzione ho cercato di essere fedele a quella che mi sembra la duplice intenzione del testo di Mansfield: ho cercato di rispettare l’ariosa leggerezza della sua prosa e la grande importanza che la scrittrice dà al suono, al ritmo. […] Quanto al corpo sonoro del testo, qui la lingua italiana accorre generosa in nostro soccorso grazie alle continue assonanze e allitterazioni date dalle parole «rose», «rosa», «rosee», «rosso», cui si aggiunge anche «fiore», «ricciolo», «nere» e «scarlatte». Come ci ricorda Gertrude Stein, «una rosa è una rosa è una rosa», e Mansfield le sa far sbocciare sulla pagina in tutta la loro iconicità. La traduzione di questo brano deve porsi come obiettivo quello di far vedere e far assaporare anche nella nostra lingua il frutto di un gusto e di una tradizione diversi, consentendo allo splendore di un giardino neo-zelandese di far arrivare la sua luce e i suoi colori fino a noi (pp. 141-142).

Potrebbe bastare questo giardino neozelandese di rose e di allitterazioni per sapere che il libro di Franca Cavagnoli è prezioso, per avere voglia di leggere gli altri esempi di testi da lei selezionati con cura e tradotti con straordinaria competenza.

Ma c’è naturalmente molto di più; ci sono molte altre ragioni per ritenere La voce del testo un libro notevole sulla pratica e l’arte di tradurre. Prima di tutto, l’affidabilità dell’autrice che mantiene puntualmente la promessa fatta nell’introduzione: ideare un percorso di graduale difficoltà e offrirlo a chi abbia «una viva curiosità per la lettura» e sia «desideroso di accostarsi alla traduzione e di entrare nella sua officina».

Uno sguardo all’indice conferma al lettore l’ordinata sistematicità del progetto che parte dalla lettura, intesa come individuazione della «dominante» del testo, per passare al corpo centrale del lavoro, nel quale vengono studiati diversi generi di narrativa e proposti strumenti di lavoro adeguati per affrontarli, e approdare infine a una ricca analisi del tempo imprescindibile da dedicare alla revisione del testo tradotto.

Franca Cavagnoli ha dato voce a testi insigni e lontani tra loro quanto possono esserlo romanzi di Francis Scott Fitzgerald e Toni Morrison, J.M. Coetzee e V.S. Naipaul, David Malouf e Nadine Gordimer, ma in questo suo excursus dedicato al mestiere alterna analisi e suggerimenti prendendo in esame anche brani tratti dalla letteratura di evasione, da romanzi di intrattenimento: opere di autori come Ken Follett, Stephen King, Terry Brooks e Danielle Steel, per citarne alcuni.

Si interroga a lungo sulle strategie di riproduzione dell’oralità e della contaminazione attraverso riflessioni su alcuni tesori del genere quali The Catcher in the Rye (Il giovane Holden) o The Adventures of Huckleberry Finn (Le avventure di Huckleberry Finn), ma anche su Sozaboy, il capolavoro del perseguitato autore nigeriano Ken Saro-Wiwa. Sulle difficoltà e al tempo stesso sulla delicata responsabilità di rendere la lingua «marcia» del soldato bambino protagonista del romanzo, Cavagnoli afferma: «L’inglese si china sotto il peso di una Storia altra […], collocandosi lungo la linea di contatto tra due culture profondamente diverse; il narratore parla in una lingua che non è più la sua lingua madre e al tempo stesso non è ancora l’inglese, è qualcosa che sta in mezzo».

Più avanti, Cavagnoli riflette sulle strategie migliori da adottare traducendo letteratura per bambini e per ragazzi, proponendo passaggi da classici per l’infanzia come Peter Pan e The Wonderful Wizard of Oz (Il Mago di Oz), ma anche da romanzi umoristici per ragazzi, come How to Train Your Parents (Come addestrare i genitori) di Pete Johnson, o da un piccolo gioiello del bestiario di Jill Tomlinson come The Hen Who Wouldn’t Give Up (La gallina che non mollava mai). Di ogni brano l’autrice offre al lettore la traduzione, talvolta in duplice versione, argomentando puntigliosamente le scelte operate sul piano lessicale e sintattico, soffermandosi sull’uso dei tempi verbali, sottolineando tendenze del linguaggio colloquiale italiano, rimpiangendo la fresca vivacità del dialogo in lingua inglese, ricordando l’immaginifica poesia contenuta nell’onomastica della letteratura per ragazzi.

Nel capitolo dedicato ai classici vengono isolati paragrafi indimenticabili della grande tradizione del racconto modernista (da The Killers di Ernest Hemingway a Eveline e The Dead di James Joyce, da Prelude di Katherine Mansfield a Adolescence di William Faulkner) e si procede a un’indagine del testo che, portando alla luce parole chiave e sonorità, ritmi ed espedienti narrativi dominanti, mette in guardia dal pericolo di «mitigare la scrittura ruvida, scabra di certi autori ricorrendo all’esplicitazione, all’espansione o alla chiarificazione».

La traduzione, come diffusamente dimostra Franca Cavagnoli, non ha il compito di «porre rimedio» alla lontananza, bensì di lavorare nello spazio fecondo che si apre tra il testo fonte e quello tradotto e di «scavare nella lettera, aderire alla sintassi più impervia» nel tentativo di far sentire al lettore «la fragranza di uno stile».

Non sono sicura che si possa insegnare a tradurre, ma so che tanto si può imparare dalla pratica, dall’esperienza altrui raccontata con generosa sincerità, dalle discussioni con colleghi, dalle letture di qualsiasi genere e in qualsiasi lingua. Da tutto questo e da ogni situazione in grado di aprire nella mente spazi d’ascolto per il passaggio di parole in corsa. E se insegnare a tradurre è possibile, almeno in parte, almeno un po’, allora un libro come La voce del testo di Franca Cavagnoli ci racconta come.

Nel corso della lettura mi sono scoperta talvolta in disaccordo con le affermazioni di Cavagnoli. Questa, per esempio: «Prima di iniziare la traduzione di un racconto o di un romanzo è bene avere chiaro chi leggerà il libro tradotto. Il lettore di un racconto di Joyce è diverso dal lettore di un romanzo sui vampiri. […] Si può immaginare che il primo ami la letteratura che aiuta a capire, ad allargare la comprensione umana. È un lettore felice di incontrare chi è diverso da sé. […] Il secondo tipo di lettore ha altre esigenze: legge per evadere dalla realtà, per rilassarsi o appassionarsi a una storia che lo tiene col fiato sospeso» (p. 24). Non mi pare. Sono sicura anzi che possa trattarsi dello stesso lettore, ancorché senza dubbio in momenti diversi della sua giornata, della sua vacanza, della sua vita. Una distinzione così serenamente inappellabile tra chi legge cosa e a caccia di quali raffinate scoperte culturali o pigre evasioni non mi convince. Lascia fuori troppa dell’energia intellettuale comunque in gioco nella pratica della lettura. Non nego che esistano testi diversi, che Gente di Dublino di James Joyce sia diverso da Twilight Illusions di Maggie Shayne, intendiamoci. Ma non condivido il principio di programmazione strategica di una traduzione sulla base del giudizio, per non dire del pregiudizio, sul lettore cui sarebbe destinata. Preferisco che ogni traduttore se la veda di volta in volta con il testo che ha di fronte e con la propria testa, cioè con la propria responsabilità. E che ogni volta decida come lavorare per il lettore che, nell’atto di tradurre, egli rappresenta. Anche perché il cammino della letteratura è stato sempre ricco di sorprese, sfumature e mutamenti di rotta. Non tutti i classici sono riconoscibili dal loro grado di sperimentalismo e sofisticatezza stilistica. Come si traducono allora i grandi Daniel Defoe (tanto amato da James Joyce), Alexandre Dumas, Eugène Sue? Quando la storia cambia il lettore implicito di un testo letterario, ne modifica anche la «dominante» e di conseguenza le necessarie strategie di traduzione?

Non sono inoltre in sintonia con certi ripetuti «bisogna», «si dovrebbe» e «non si dovrebbe», «è bene» e «occorre», che intimidiscono la riflessione libera di chi legge, ma ho ammirato profondamente la ricchezza dei dati messi al servizio del lettore, la precisione d’intenti e la bellezza di pensieri come questo: «Tradurre richiede un volo dell’immaginazione, ma anche abilità che si conquistano libro dopo libro nell’officina della traduzione».

E naturalmente ho amato le sue rose, diverse da quelle di Katherine Mansfield , direbbe Wisława Szymborska (tramite Pietro Marchesani), «come due gocce d’acqua». Eccole:

Le rose erano tutte sbocciate: rose da infilare all’occhiello, rose piccole e bianche ma troppo piene di insetti per metterle sotto il naso di qualcuno, rose mensili di colore rosa con un cerchio di petali caduti intorno al cespuglio, rose centifoglie su steli spessi, rose muscose, sempre in boccio, bellissime roselline rosee e vellutate che si aprivano ricciolo su ricciolo, rose di un rosso così cupo che sembrava diventare nero quando appassivano, e una varietà di uno squisito color crema con un sottile stelo rosso e lucenti foglie scarlatte(pp. 140-1).