di Mario Marchetti
A proposito di: Nel paese di Cunegonda. Leonardo Sciascia e le culture di lingua tedesca, a cura di Albertina Fontana e Ivan Pupo, Firenze, Olschki, 2019, pp. 256, € 29,00
Come sempre Olschki ci offre un bell’oggetto libro, elegante, dalla bella carta color avorio, con pagine che lo sguardo riesce ad abbracciare senza sforzo. Completato da una copertina in cartoncino ruvido sulla quale campeggia la riproduzione di una xilografia del multiforme Pino Di Silvestro dove fanno capolino gli occhiali a pince-nez del diavolo della manettiana Tentazione di Sant’Antonio, che illustrava la sovracopertina della prima edizione di Todo modo (Einaudi, 1974). Ringraziamo la casa editrice per il piacere fornito ai nostri occhi e l’associazione Amici di Leonardo Sciascia per aver promosso la pubblicazione di questo terzo volume della collana «Sciascia scrittore europeo» e, last but not least, i due attenti curatori dell’opera. Che, fondamentalmente, è costituita da due sezioni di saggi, la prima sulla presenza delle culture di lingua tedesca nell’opera e nella vita di Sciascia, la seconda sulla ricezione dell’opera e del personaggio Sciascia in Germania. Sono tutti saggi stimolanti che inducono, tra l’altro, a ripensare a un periodo politico e culturale non così lontano, su cui sembra però calata non poca foschia. Ci soffermeremo su alcuni di essi che ci paiono riproporre nodi di particolare interesse per l’oggi.
Cominciamo subito col dire che tra Sciascia e la Germania il rapporto non è stato mai facile, e questo nei due sensi. È notorio il privilegio che Sciascia riservava alla cultura francese, in specie illuministica, ma anche alla cultura ispanica (basti pensare ad Amianto, racconto che ha per sfondo la guerra civile del ’36-’39, e la prefazione alla Veglia a Benicarlò di Manuel Azaña, l’infelice presidente degli ultimi anni dell’infelice Seconda repubblica spagnola, che Sciascia tradusse per Einaudi nel 1967). È Sciascia stesso ad esprimersi così nel 1984 in un’intervista originariamente destinata alla rivista «Italienisch»: «Non sono mai stato un marxista […]. Sì, ma non credo che la mia diffidenza verso la cultura tedesca derivi da Marx. È soltanto che Marx appartiene in maniera intrinseca alla cultura tedesca» (p. 210). Una ragione di questa diffidenza sta nella tradizione culturale tedesca così commista, almeno in passato, al suo splendido ma prevalentemente irrazionalistico e misticheggiante Romanticismo: non a caso Sciascia fu folgorato dal saggio di Peter Viereck ‒ poeta americano di origine tedesca e fortemente anticomunista ‒ Dai Romantici a Hitler (titolo originale Metapolitics: From Wagner and the German Romantics to Hitler, Knopf, 1941, poi pubblicato da Einaudi nel 1948 nella traduzione di Luciana Astrologo e Luigi Pintor) in cui si sostiene come il concetto di essenza o anima tedesca, das deutsches Wesen, abbia tratto origine dai circoli romantici per passare poi attraverso Wagner e finire estremizzato nel movimento nazifascista (questo aspetto è analizzato da Albertina Fontana nel pezzo È Possibile una fraterna vicinanza?, pp. 87-99). Niente, evidentemente, di più distante dallo spirito dei lumi idealizzato da Sciascia.
Ma veniamo al caso specifico del racconto-inchiesta La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975) della cui traduzione in Germania, Der Fall Majorana (Seewald, Stuttgart, 1978, trad. di Ruth Wright e Ingeborg Brandt) fu mediatrice la comparatista Lea Ritter Santini. Ce ne parla Ulrike Reuter in «Notevolissime testimonianze in mio favore» (pp. 5-26). Viene qui alla luce lo spirito indagatore di Sciascia, il suo bisogno di ricevere conferme per l’ipotesi secondo cui il geniale fisico, novello Mattia Pascal, avrebbe architettato la propria scomparsa nella consapevolezza dei rischi per l’umanità che le ricerche sull’atomo avrebbero comportato. Insomma con motivazioni profondamente etiche Majorana nel ’38, alla vigilia della guerra, si sarebbe sottratto al suo ruolo di scienziato al servizio di poteri che sfuggivano al suo controllo. Su questo libro piovvero critiche da ogni parte, prevalentemente per la ragione che all’epoca, cioè nei tardi anni trenta, non si sarebbe ancora potuto avere coscienza della potenza deflagrante della scissione dell’atomo. Lea Ritter Santini ottiene delle risposte dall’ormai ottantenne chimica Ida Noddack (morirà di lì a poco nel 1978) che parrebbero confermare l’ipotesi della consapevolezza, e lo stesso Werner Heisenberg in una risposta del gennaio 1976 piuttosto sibillina, trasmessa tramite la sua segretaria, sembrerebbe esprimersi nello stesso senso, ma poche settimane dopo morrà. Sciascia ovviamente è felice di queste testimonianze e Lea Ritter Santini racconterà tutto ciò in Uno strappo nel cielo di carta, pubblicato da Einaudi come postfazione alla Scomparsa di Majorana nel 1985 (in tedesco era già apparso nel 1978). Cosa colpisce oggi di questa vicenda? La vigile coscienza critica dello scrittore, che non fu semplicemente mosso dal gusto di scrivere ‒ su un fatto reale ‒ un giallo (magari di costume, come Il teatro della memoria sul celebre caso dello smemorato di Collegno, Einaudi, 1981), ma intese dare voce narrativamente a qualcosa che all’epoca era nell’aria e nei movimenti, la contestazione delle armi atomiche. Oggi che le testate nucleari infarciscono tutto il pianeta siamo anestetizzati rispetto alla loro pericolosità. Siamo seduti sulla dinamite, ma è come non volessimo neanche saperlo: il discorso annoia. E, soprattutto, intellettuali e scrittori se ne disinteressano. Sembra impossibile essere insieme scrittori di vaglia e scrittori impegnati. Sciascia è lì a dimostrare il contrario, contro tutti i capziosi teorici ‒ oggi sono legione ‒ del disimpegno o, meglio, del non impegno.
Prendiamo un altro caso, assai più scottante, quello de L’affaire Moro (Sellerio, 1978), un pamphlet d’intervento e, al contempo, squisitamente letterario, nel quale Sciascia, con le sottili armi della filologia, e praticamente da solo contro tutti, sostenne l’autenticità delle lettere di Aldo Moro prigioniero dei brigatisti. Era stato deciso, da poteri politici improvvisamente fattisi intransigenti, che Moro doveva essere sacrificato in nome della lotta al terrorismo: dunque le sue lettere non potevano essere autentiche o, al più, erano state scritte sotto costrizione. Fu un atto di grande coraggio quello di Sciascia e non sappiamo chi oggi sarebbe in grado di imitarlo. Il testo fu prontamente tradotto e prefato in Germania da Peter O. Chotjewitz (Die Affare Moro, Athenäum Verlag, 1979). Cadde in un contesto nevralgicamente sensibile alla questione, visto che la Germania era stata ‒ ed era ancora ‒ la patria della RAF (Rote Armee Fraktion), il gruppo anarco-comunista comunemente noto come “banda Baader-Meinhof”, combattuto dal governo tedesco con estremo rigore e durissime leggi eccezionali. Nel 1978, poi, Andreas Baader e Ulrike Meinhof si erano suicidati nel carcere di Stoccarda. Sciascia venne accusato da molte parti in Italia di aver fatto proprio lo slogan di Lotta continua né con lo Stato, né con le Br (Sciascia dichiarò se mai non con questo stato). Tutto ciò trovò larga eco nella stampa tedesca, accanto anche a prese di posizione favorevoli al punto di vista dello scrittore. Di questo e altro ci parla Domenica Elisa Cicala in Ritratti poliedrici di un «Einzelgänger» (dove il termine tedesco sta per “individuo solitario”, uno che va per la sua strada; pp. 139-50), articolo in cui si illustra la presenza di Sciascia sulla stampa tedesca (ovviamente anche riguardo al trattamento del tema della mafia nei suoi romanzi). Martin Hollender nel suo intervento in tedesco (se ne veda la sintesi italiana «Appena esprime la sua opinione, tutta la nazione reagisce» alle pp. 166-71) si sofferma sul noto giornalista e saggista Werner Raith (1940-2001) specialista di cose italiane, attestato su posizioni socialdemocratiche di sinistra, molto polemico nei confronti di Sciascia per la sua già citata posizione sul caso Moro e, in generale, per le sue valutazioni circa l’azione istituzionale e giudiziaria sulla mafia (casi Dalla Chiesa e Borsellino). Raith vede in Sciascia, pur riconoscendone il valore, un tipico rappresentante del risentimento covato da molti intellettuali italiani verso lo stato. Sempre sull’Affaire Moro interviene Albrecht Buschmann (Leonardo Sciascia, il linguaggio e il potere, pp. 199-208) con una lucida analisi che si conclude tuttavia criticamente sostenendo che lo scrittore «si fa portavoce di una demonizzazione del potere che non si accorda con le sue posizioni illuministiche». E, ancora, in «Forse una speranza non c’è» (pp. 209-13) Albertina Fontana sviscera la posizione del comparatista e romanista tedesco Ukrich Schulz-Buschhaus, il quale prende atto nello scrittore di un pessimismo totalizzante che non riesce a condividere. Una posizione avvicinabile a quella di Sciascia aveva assunto in Germania Heinrich Böll (1917-85) al quale si doveva L’onore perduto di Katharina Blum (Kiepenheuer & Witsch, 1974, tradotto per Einaudi da Italo Alighiero Cusano l’anno seguente), storia vera di una donna ingiustamente accusata di complicità coi terroristi la cui vita viene distrutta dalla stampa scandalistica. Il sottotitolo del romanzo è Ovvero: come può nascere e dove può condurre la violenza, ma, attenzione!, la violenza di cui si parla è quella dell’opinione pubblica, non quella dei terroristi. Come si capisce, siamo nelle vicinanze di Sciascia. Di questo e altro ci parla Chiara Nannicini Streitberger in «Partecipare alle vicissitudini del proprio tempo» (pp. 127-38).
Il quadro complessivo è molto variegato dunque. Quello che è certo è che il feeling tra l’opinione culturale tedesca e Sciascia non fu altrettanto idilliaco di quello che correva con gli intellettuali francesi. D’altronde in Francia non ci furono fenomeni paragonabili al brigatismo italiano e all’anarco-terrorismo tedesco. C’era però una cultura di lingua tedesca che Sciascia sentiva molto vicina, d’altronde la controparte era ormai tramontata. Ce ne parla Ivan Pupo nel suo bel pezzo Nel crepuscolo di un mondo, dove Sciascia viene visto attraverso il prisma del suo legame col mito asburgico. Tra le sue amate letture, magari più in ombra rispetto a quelle francesi e spagnole, c’erano infatti Joseph Roth, Franz Werfel, Heimito von Doderer, Robert Musil… E c’è anche uno scrittore tedesco (peraltro periferico, era originario della Slesia) molto amato da Sciascia, caduto in totale dimenticanza e da lui riscoperto e fatto pubblicare da Sellerio, Franz Zeise. L’Armada (1977; ed. originale Rowohlt, 1936) è il suo capolavoro, che ha al suo centro Don Giovanni d’Austria, il bastardo ‒ come si usava dire nelle famiglie regnanti dell’epoca ‒ di Carlo V, comandante della flotta spagnola che portò alla vittoria contro i turchi nella battaglia di Lepanto. Un romanzo sul potere che è «come memoria di un sogno», chiosa Sciascia (si veda L’«incubo cupo e corrusco del potere» di Laura Parola, pp. 47-65), ammaliato da questo testo misterioso scritto da un autore altrettanto misterioso che non poteva trovare spazio nella Germania nazista e che finì povero e demente in un ospizio di Amburgo nel 1961. Insomma un caso estremamente seducente per il nostro, tanto più che il libro era già comparso ‒ e poi scomparso ‒ come una cometa nell’editoria italiana: era stato pubblicato dalla torinese De Silva (quella di Franco Antonicelli e di Se questo è un uomo, rifiutato da Einaudi) nel 1947 nella traduzione di Anita Rho ed era stato recensito nel 1954 sul «Mondo» da Barbara Allason quando la casa editrice forse non esisteva più e il titolo era ormai introvabile. Fili intriganti a volte si intrecciano attorno ai libri e Sciascia amava seguirne le tracce.