di Bruno Maida
A proposito di: Anna Ferrando, Cacciatori di libri. Gli agenti letterari durante il fascismo, Milano, Franco Angeli, 2019, pp. 304, € 37,00
Più che una storia degli agenti letterari italiani durante il fascismo, come lascerebbe intendere il sottotitolo, il libro di Ferrando è un’accurata ricostruzione delle vicende dell’Agenzia letteraria internazionale (Ali), dalla sua fondazione nel 1898 agli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra. A crearla e guidarla per mezzo secolo fu Augusto Foà, affiancato, tra le due guerre, dal figlio Luciano il quale, alla morte del padre nel 1948, ne prese la guida fino al 1951 quando, divenuto segretario generale di Einaudi, la lasciò in mano a Erich Linder.
È la storia della prima agenzia letteraria italiana – e una delle prime al mondo – nata e sviluppatasi in un tempo nel quale la decisione di pubblicare un volume di un autore italiano oppure di tradurre un’opera straniera era il riflesso del rapporto diretto (e per lo più asimmetrico) tra editore e scrittore. L’Ali ha un ruolo significativo nel processo di modernizzazione del mondo editoriale italiano grazie alla fitta rete di rapporti e collaborazioni europee e intercontinentali, alla qualità e novità degli autori che contribuisce a far penetrare nel mercato, ma anche alla capacità di reclutare e valorizzare traduttori.
Per comprendere la scarsa attenzione fino a oggi dedicata al mestiere dell’agente letterario e contribuendo a riempire un vuoto storiografico, Ferrando mette in luce alcuni nodi problematici, interrogandosi prima di tutto sulla sua figura in quanto intermediatore tra autore ed editore da un lato e mediatore dall’altro, ossia come soggetto capace di condizionare la formazione dei processi culturali in una dimensione nazionale e transnazionale.
La densa rete di rapporti dei Foà con editori, scrittori, traduttori, agenti nazionali e internazionali, che Ferrando ricostruisce in modo puntuale intrecciando un significativo insieme di fonti, pone l’accento su altre due questioni essenziali per la storia dell’editoria. La prima è la rivendicazione della dimensione duale del libro, in quanto prodotto a un tempo culturale e commerciale. La seconda è il rapporto tra agenti, traduttori e potere: un rapporto significativo all’interno di qualsiasi regime politico novecentesco ma ancora più nelle dittature, con il suo corollario di censura, autocensura, controllo dei prodotti stranieri e costruzione di un’offerta nazionalista e politicamente indirizzata.
Sotto questo profilo, l’Ali è doppiamente interessante. La sua storia e il suo carattere di proprietà ebraica che, nel 1938, venne colpita dalle leggi razziali è una dimostrazione delle tesi avanzate da Giorgio Fabre sul fatto che la svolta razzista della metà di quel decennio fu strettamente intrecciata con la costruzione del controllo librario da parte del fascismo, iniziato nel 1928 con la prima battaglia contro le traduzioni, considerate elementi di indebolimento del sentimento nazionale. Nello stesso tempo, se non proprio con un ruolo di opposizione antifascista, l’Ali e soprattutto Luciano Foà ebbero, secondo Ferrando, un ruolo di cinghia di trasmissione tra cultura e politica, introducendo con un lento lavorio un limitato ma significativo numero di opere invise al regime.
L’Ali è dunque un osservatorio privilegiato per ricostruire i meccanismi e le dinamiche di una parte significativa dei processi di produzione culturale dell’editoria italiana nella prima metà del Novecento (in appendice al volume è riportato l’elenco delle opere negoziate dall’Ali dal 1930 al 1945). Dall’intreccio delle collaborazioni e dei conflitti tra le diverse figure professionali (editori, agenti, traduttori) emerge un racconto appassionante, nel quale Ferrando dedica pagine di particolare interesse alla complessa rete di relazioni umane e culturali che i Foà costruirono con alcune delle più belle e decisive figure di quel mondo, come Alessandra Scalero, Erich Linder, Adriano Olivetti e Roberto Bazlen.