Piernicola D’Ortona
A proposito di: Giaime Pintor, La responsabilità dell’intellettuale. Scritti 1939-1943, a cura di David Bidussa, Torino, Nino Aragno, 2019, pp. 139, € 15,00
Più che per ricostruire la parabola di traduttore descritta da Giaime Pintor, la raccolta di scritti proposta dallo storico David Bidussa è utile per farsi un’idea della riflessione latamente culturale che caratterizzò gli ultimi anni di vita del grande germanista e che fino al luglio del 1943 fu disgiunta da un’autentica vocazione politica e militante, nonché recisamente contraria ad atti di eroismo e a quella “sete di trascendenza” che molti attribuivano alla sua “generazione perduta”. Se un filo conduttore esiste fra questi articoli, apparsi prevalentemente sulla rivista «Primato», riguarda senz’altro il concetto di decadenza, esplorato sia nelle sue basi filosofiche (Nietzsche) sia, soprattutto, nelle sue diramazioni letterarie (non solo tedesche, come nel caso di Ernst Jünger, ma anche francesi, con una ricchissima rassegna di casi che vanno da Drieu de La Rochelle a Montherlant). “Decadenza” si traduce in un progressivo e disastroso allontanamento da quei valori umanistici (e democratici?) che avevano costruito l’identità europea. Un’identità che appare sempre dietro le quinte, fino a profilarsi in absentia anche all’assemblea dell’Unione degli scrittori europei che si tenne a Weimar nell’autunno 1942: in un articolo – non a caso censurato dalla direzione di «Primato» – Pintor ricostruisce con toni spesso comici la sua scampagnata in Germania insieme a Elio Vittorini. La stoccata finale di questo quadro velatamente satirico riguarda la prosopopea nazista sulla letteratura come propaganda, contrapposta ai dialoghi intimi fra Pintor e Vittorini:
Con Vittorini che conosce “il mondo offeso” fu facile parlare di quegli argomenti che un congresso della letteratura europea non può affrontare; della letteratura come una onesta vocazione, e soprattutto dell’Europa: una cosa che ci pareva troppo grande e incerta e afflitta perché trecento signori riuniti a Weimar nell’ottobre 1942 potessero parlare in suo nome (p. 77).
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Roberta Sapino
A proposito di: Heinrich von Kleist, Il terremoto in Cile, trad. e cura di Stefania Sbarra, L’Aquila, Textus, 2019, pp. 64, € 8,00; Vittorio Imbriani, Mastr’Impicca, L’Aquila, Textus, 2019, pp. 148, € 10,00; Zsófia Bán, Veleno / Tre tentativi con Bartók, trad. e cura di Claudia Tatasciore, L’Aquila, Textus, 2019, pp. 68, € 8,00
Textus, casa editrice abruzzese che sul suo sito si definisce «piccola ma generosa», ha da poco lanciato una collana a cui questi aggettivi calzano a pennello. Si chiama «Grani», è diretta da Daria Biagi e conta per ora soltanto tre libriccini dall’aspetto esile e prezioso, la cui composizione materiale – bella carta spessa, una copertina dalla grafica essenziale e lucente – denota un gusto per l’oggetto-libro quasi controcorrente rispetto a tante pubblicazioni sul mercato. All’interno, piccole storie italiane o tradotte, per ora dal tedesco e dall’ungherese, precedute da saggi dei traduttori stessi (il cui nome è sempre indicato in copertina) o di altri scrittori (è Celati, ad esempio, a introdurci alla «fatazione del linguaggio» di Imbriani, p. 20), che aprono spiragli sul contesto storico e culturale, propongono – senza imporle – chiavi interpretative, mettono in luce sfumature linguistiche e tratti stilistici, illustrano scelte traduttive. Se non è immediato individuare un legame tematico, cronologico, geografico tra i testi proposti finora in questa collana, il senso dell’impresa è chiaro: portare sugli scaffali delle librerie per la prima volta o in forma nuova piccole storie importanti e guidare l’occhio del lettore tra le maglie della scrittura e della traduzione.