Reminiscenze e borbottii / 14

Il vecchio lettore

Dedicato con affetto all’amica carissima Angela Albanese. Un suo conterraneo, con ascendenze uguali alle sue, Giuseppe Gangale, amico e sodale di Piero Gobetti, circa un secolo fa, il 27 dicembre 1924, inorridito dalle nefandezze mussoliniane, denunciava sdegnato sul settimanale protestante da lui diretto, «Conscientia», «il dissidio che lacera l’epoca nostra tra fede religiosa, che vaga dispersa battendo, come rondine cieca, il capo dalle muraglie del tomismo alle muraglie cinesi d’Oriente, e pensiero filosofico che inaridisce in manganello [leggi: Gentile], o ombreggia la spaventosa tranquillità di Croce traducente, nell’incalzar della bufera presente, la favola de “lu cuntu de li cunti”». Una decina di giorni dopo Mussolini avrebbe dato l’annuncio ufficiale della stretta dittatoriale; qualche mese dopo, per fortuna, Croce si sarebbe in parte riscattato col Manifesto degli intellettuali.

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Il vecchio lettore, si sa, è un inguaribile snob. Ne è manifestazione il suo assoluto disinteresse per la televisione, di cui non possiede neppure l’apparecchio ricevente. Eppure, in quest’estate 2021, si è lasciato persuadere, presentandosene l’occasione, a vedere alcune partite dei campionati europei di calcio e, soprattutto, una tappa del Tour de France, essendo il ciclismo la sua più autentica passione sportiva. Tutto bene finché il commentatore non ha ritenuto opportuno farsi salire alle labbra, a proposito di qualcuno che, quella mattina, aveva poltrito a letto, un paragone col «piccolo principe del racconto di Giuseppe Parini». Ammettetelo: anche lo snobismo ha le sue giustificazioni. Per fortuna ci si può godere un’impresa ciclistica anche senza le voci che commentano e i telecomandi sono dotati di opportuno tasto per disattivare l’audio.

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Maschilismo a sinistra. La traduzione italiana più nota e diffusa del Capitale di Marx è quella pubblicata dalle Edizioni Rinascita (poi Editori Riuniti). Sia nel caso del Libro primo (1953) che in quello del Libro secondo (1954) l’attribuzione è mendace, almeno in parte. In entrambi i casi il grosso del lavoro fu svolto dalla moglie di colui di cui compare il nome in frontespizio. Del Libro primo si occupò Emma Mezzomonti, mentre la traduzione è attribuita al solo Delio Cantimori, che certamente vi ebbe una parte importante, ma non esclusiva. Del Libro secondo Giuseppina Saija. La quale raccontò molti anni dopo che il marito, Raniero Panzieri (che nemmeno conosceva il tedesco), visto solo il proprio nome a pubblicazione avvenuta, si era molto arrabbiato e avrebbe voluto «far cambiare la copertina». Pragmatismo femminile: «Ce l’hanno pagata? E allora basta così», lo avrebbe calmato Pucci. Più o meno lo stesso commento ha espresso nelle sue memorie Maria Teresa Regard a proposito di All’ombra delle fanciulle in fiore, attribuito per metà a suo marito Franco Calamandrei, che in realtà, durante e dopo la guerra partigiana, aveva abbandonato quella traduzione, per la quale era sotto contratto da Einaudi, per intraprendere una carriera giornalistica e politica che lo avrebbe portato lontano. Teresa lo aveva quindi sostituito, almeno per quella parte, ché poi l’opera fu completata da Rosellina Neri, regolarmente accreditata in frontespizio insieme con Calamandrei.

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– Straniero?

– Borgognone.

Questa precisazione sul sicario che Rigoletto assolderà per assassinare il duca di Mantova, seduttore di sua figlia, è del tutto superflua ai fini della vicenda: risponde a un’esigenza di political correctness risorgimentale, volta a escludere l’italianità di un criminale. Ne fu retaggio la sistematica alterazione della nazionalità di origine dei gangster italo-americani nelle traduzioni di gialli (e nel doppiaggio dei film) negli anni trenta e quaranta (e talvolta anche cinquanta). Oggi ci fa sorridere, come farà sorridere i nostri posteri la briga assurda odierna di tradurre negro o nigger con “nero” o “afro-americano” o alterando modi di dire e pregiudizi sulle donne nei testi che li contengono, sopprimendo così, anacronisticamente, un dato ineliminabile della mentalità del passato o addirittura mistificando pregiudizi tuttora correnti.

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Solo un grande narratore potrebbe forse far comprendere alle giovani generazioni l’ambivalenza del rapporto con l’America nutrito dai giovani della generazione del vecchio lettore.

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Si racconta che Kafka ridesse fino alle lacrime leggendo agli amici La metamorfosi, subito dopo averlo scritto. Čechov si lamentava che i suoi primi registi, Stanislavskij e Nemirovič, chiamassero “dramma” Il giardino dei ciliegi: «vi vedono tutt’altra cosa da ciò che ho scritto, e sono pronto a giurare che non hanno letto nemmeno una volta con attenzione la mia commedia». Mozart e Da Ponte non dubitavano minimamente che Don Giovanni fosse un dramma giocoso. Lo scarto tra la percezione che gli autori hanno della propria opera e l’impressione che essa fa sui suoi lettori o spettatori è indice di un problema che ha a che fare con la vita stessa e con la funzione che nella vita viene di volta in volta assegnata all’arte.

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Il tragico, e squallido, fallimento dell’esperienza sovietica sembra aver trascinato via con sé ogni speranza di società giusta, che la sua nascita aveva alimentato in grandi masse in tutto il mondo. All’orizzonte si profila intanto la minaccia della scomparsa dell’umanità, vittima delle sue stesse conquiste scientifiche e tecnologiche. Ma entro questo limitato orizzonte non si creda che ogni conflitto tendente ad appianare le ingiustizie sociali sia stato cancellato. Occorre soltanto leggere a fondo nei conflitti limitati che attribuiamo a ristretti, rozzi e culturalmente “superati” motivi ideologici e religiosi o a interessi “particulari”, corporativi. Lo stupefacente episodio dell’assalto al Congresso degli Stati Uniti, così imbarazzante per la grande democrazia americana, è spia di un malessere. Si tratta di un malessere sociale, prima che politico, che affligge il paese più avanzato del mondo nel momento in cui, in seguito alla globalizzazione che i suoi ceti dirigenti hanno perseguito e ottenuto in più di un secolo di epiche lotte, esso vede ridursi la propria centralità e apparente onnipotenza, già incrinata dal braccio armato del fondamentalismo islamico. Ridotto al livello degli altri paesi avanzati, per la prima volta il malessere sociale che lo ha sotterraneamente sempre minato assurge al livello politico, e con grande potenza simbolica, nel cuore stesso del potere di we, the people. E lo fa nel modo inconsulto, violento e plebeo con cui lo hanno sempre fatto le classi oppresse prive di “voce” e di organizzazione politica. L’attuale partito repubblicano può cercare di cavalcare il trumpismo, la protesta populista e corporativa, ma non riuscirà mai a trasformarla in azione politica coerente e conseguente dentro i canali di un sistema democratico che ha urgente bisogno di rinnovarsi. O ci riesce il partito democratico (se addirittura non nasce una nuova formazione politica con caratteristiche, per quanto mascherate, “di classe”) o l’America sarà sommersa da una tale catena di guai interni, anche gravissimi e tragici – di cui l’assalto al Congresso apparirà solo una timida anticipazione – da far crollare la sua già declinante centralità nel globo. Pandemie, ambiente e scongiurandi conflitti nucleari permettendo. Se, come è probabile e comunque auspicabile, il capitalismo troverà un antidoto alla sua folle distruzione dell’habitat umano, ci vorranno tuttavia decenni se non secoli perché si manifesti a livello planetario– in ogni caso attraverso tragedie sanguinose –  lo scontro di classe ora nascosto da ideologie economiche, religiose e razziali.

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E’ ricorrente da secoli, da parte di grandi intellettuali, il disprezzo per il potere, sempre bollato come iniquo e oppressivo, cui solo rimedio è l’individuale ritiro all’ombra del pensiero e del bello. Così l’iniquità e l’oppressione hanno tutto l’agio di prosperare e riprodursi. E ogni speranza di spegnersi. Dovesse l’umanità – come è augurabile – sopravvivere altri secoli, dovere degli intellettuali è alimentare sempre la speranza, foss’anche sempre vana. E battersi contro ogni iniquità e ogni oppressione.

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Una delle malattie più perniciose dell’umanità è il millenarismo, comunque travestito: ossia l’apodittica previsione di un capovolgimento delle sorti dell’umanità fissato per una data avvenire o in coincidenza di un evento qualsiasi – astronomico geologico politico – previsto in base a profezie, sacre o profane che siano. Sia l’attesa sia l’eventuale scadenza dell’evento atteso comportano sempre follie pubbliche e private talvolta agghiaccianti. (Una testimonianza eccezionale di follia privata è quella di Edmund Gosse in Father and Son). L’homo sapiens è comparso sulla terra all’incirca (l’esattezza di datazione di certi eventi lascia molto a desiderare) 300.000 o 350.000 anni fa. Abbiamo nozione dapprima nebulosa poi man mano sempre più precisa degli accadimenti umani a partire, sempre all’incirca, da 6.000 anni: ossia, più o meno, l’1,5 per cento dell’intera vicenda dell’umanità, quota che si dimezza drasticamente se si prende in considerazione solo la storia vera e propria, ossia quella di cui vi è traccia scritta, la quale copre solo gli ultimi 3.000 anni, sempre all’incirca. Il periodo successivo alla nascita di Gesù è durato, anno più anno meno, poco più di due terzi di questa era. E sulla base di fatti o detti verificatisi entro questo sputo di tempo si pretende di stabilire un esito finale – sia lieto o no – di tutte le decine e centinaia di millenni precedenti, trascinando dietro questa credenza gli uomini a compiere azioni il più delle volte tragiche, raramente ridicole.

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E’ come se, da un paio di decenni, la generazione del vecchio lettore fosse stata trasportata in un altro paese, appartenente sì alla sfera europea occidentale, ma con caratteristiche del tutto diverse da quelle alle quali era stata formata e abituata: mezzi di comunicazione, moneta, sistema politico, consuetudini, valori morali. Muovervisi, con le facoltà personali che si indeboliscono, diventa arduo. Pur chiamandosi allo stesso modo, italiana, anche la lingua è completamente diversa: paratattica, con lessico impoverito di lasciti letterari, da un lato, e arricchito, dall’altro, di calchi e imprestiti stranieri, pervasa di turpiloquio. Involgarita, insomma. Sta nascendo un nuovo volgare? Quanti secoli ci vorranno prima che sorga un altro Dante a nobilitarlo? Il vecchio lettore confessa di sentirsi a disagio e di non guardare con apprensione al proprio trasferimento definitivo, ormai prossimo, in tutt’altro paese.

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E’ troppo arrischiato e stupido tradurre il celebre detto gramsciano «pessimismo della ragione, ottimismo della volontà» in «materialismo nell’analisi, idealismo nei progetti»?

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La manifestazione più immediata e concreta del trionfo dell’amabile decostruttivismo, volto scientemente a sottrarre senso a qualsiasi tentativo di conoscenza (altra cosa è lo scetticismo di fronte all’attribuzione di senso generale – se non universale – al rapporto tra gli eventi stessi), è offerta dall’affermazione, ormai dilagante, del metodo di ordinamento delle mostre d’arte secondo temi invece che secondo personalità e/o diacronia come si faceva in passato: tutti i ritratti da una parte, tutti i paesaggi dall’altra, di chiunque e di qualunque epoca siano; tutti i rosa prevalenti distinti da tutti i gialli, da tutti i blu… E così via. Il più recente esempio osservato dal vecchio lettore è stata una mostra estiva alla Galleria d’arte moderna di Torino. I raggruppamenti tematici – e le loro insulse presentazioni nei pannelli introduttivi di ciascuna sala –, corredati da inserimenti di modeste opere secentesche in tema, contraddicevano forzatamente l’assunto, di fatto storicistico, del titolo complessivo della mostra, che raccoglieva un buon numero di bellissime opere del Novecento figurativo italiano dagli anni venti agli anni quaranta: Controcorrente, vale a dire ciò che si faceva mentre – cioè nella storia – da alcuni di quegli stessi o da altri pittori e scultori si andava alla ricerca dell’espressione astratta, avulsa dalla raffigurazione del reale. In quella precisa fase storica, in quella “temperie”, come amano esprimersi i critici.

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A fine agosto è circolato sui social l’acido testo di un articolo di Piergiorgio Odifreddi in morte di Roberto Calasso, presidente e direttore editoriale dell’Adelphi, nel quale si rinfacciava alla casa editrice la perpetuazione della separazione fra le “due culture”, ossia della subordinazione, vizio tipicamente italiano, della cultura cosiddetta “scientifica” (intesa come coltivazione delle scienze cosiddette “dure”) alla cultura cosiddetta “umanistica”. Accusa semplicistica e rozza, che sarebbe smentita a prima vista con la semplice lettura del catalogo, in cui spiccano, abbastanza recenti, i bei titoli dovuti a un fisico di valore come Carlo Rovelli. Odifreddi confonde due questioni diverse. Altra infatti è la natura dell’operazione realizzata con successo dai fondatori dell’Adelphi, tra i quali è da annoverare l’allora giovanissimo Calasso, all’interno della stessa cultura “umanistica” italiana. Si tratta del voluto smantellamento della linea razionalista e “progressista”, nutrita di storicismo, rappresentata nei decenni centrali del Novecento dalla Einaudi (di cui il più autorevole tra quei fondatori, Luciano Foà, era un transfuga), a favore di una visione immobilista e “decadente”, imperniata sulla concezione del mito archetipico (di cui è stato cultore insigne nelle sue opere lo stesso Calasso), sul concetto di ciclicità. Smantellamento riuscito. Ne consegue un insorgere di irrazionalismo che Odifreddi confonde, appunto, col rifiuto specifico delle scienze “dure”, mentre in realtà è opposizione a ogni aspirazione alla scientificità, anche in campo umanistico.

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– Vige il complesso di Narciso, non più di Edipo. L’esibizionismo e l’egocentrismo dilagano, largamente favoriti dai social. Se cominci a raccontare a qualcuno un fatto qualsiasi riguardante terze persone, il tuo interlocutore è capace di interromperti per dirti che è capitato anche a lui, e che…

– Ah, guarda, anch’io non ne posso più. Ma io non ci sto: io mi defilo, non mi faccio avanti. L’altro giorno mi hanno chiesto un’intervista. Ma a chi, a me? Ma per carità, io non voglio apparire. Mi ricordo che una volta, io…

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E’ paradossale che i modelli della comunicazione scritta e orale – la quale è d’altronde in sempre maggior affanno di fronte all’aggressività delle immagini e dello “stile” social – importati dall’America siano in realtà mutuati dalla grande retorica alessandrina tramandata da Cicerone. Il paradosso consiste nel contemporaneo totale abbandono, nel sistema formativo, di ogni modello della classicità greca e latina, fondamento per secoli della civiltà occidentale.

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E a proposito di civiltà occidentale il vecchio lettore ha la spudoratezza di esprimere la convinzione, del tutto uncorrect, che essa sia proprio superiore alle altre. Perché ha in sé, costitutivamente, la capacità di cambiare, e quindi la possibilità di correggere anche le proprie innegabili malefatte, mentre tutte le altre tendono alla fissità, nutrono l’ambizione di non cambiare, aderendo a un modello prefissato una volta per sempre; e sono invece costrette a cambiare – quando non a estinguersi – proprio dalla forza, materiale e ideale, di quella occidentale.

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Ancora a proposito di civiltà occidentale. A che serve l’etruscologia? A che serve la filologia bizantina? A che serve eseguire musica barocca? Rispondere a queste come ad altre domande analoghe significa decidere delle sue sorti.

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Si concludono con questa puntata le esternazioni senili del vecchio lettore. Il quale perciò non resiste più alla tentazione, a lungo contenuta, di tessere l’elogio di cinque oggetti desueti e irrisi nell’attuale formazione dei giovani. Elogio che si aggiunge a quello dello studio e della fatica che esso comporta, già elevato qualche anno fa. E, ovviamente, a quello dello studio, in particolare, della storia, che pervade tutte queste reminiscenze, tutti questi borbottii.

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Elogio del riassunto. Costringere una mente a fare il riassunto, entro spazi ben delimitati, di un testo significa costringerla a: 1. capire quel testo; 2. mirare alla sintesi e quindi concettualizzare; 3. trovare le parole adatte.

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Elogio della parafrasi. Costringere una mente a compiere la parafrasi di un testo (esempio vieto: la “versione in prosa”, trasporre in prosa dei versi) significa costringerla a: 1. capire quel testo; 2. pesare le sinonimie; 3. riconoscere metafore e similitudini; 4. apprezzare l’appartenenza di certi vocaboli alla tradizione letteraria e, per converso, di altri alla lingua d’uso; 5. accertarsi della proprietà o improprietà dei termini rispetto all’oggetto che intendono indicare.

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Elogio della memorizzazione. Costringere una mente a imparare a memoria un testo, specie se poetico, significa costringerla a: 1. capire quel testo; 2. sì, fare fatica e, sul momento, odiare e autore e poesia e insegnante; 3. rendersi conto degli accenti tonici e delle pause dettate sia dalla punteggiatura sia dalla metrica, quindi del ritmo insito in ogni espressione verbale (al contrario di quei fini dicitori che sono i giornalisti televisivi); 4. apprendere vocaboli e loro significato; 5. apprezzare le figure retoriche (anche quando non se ne conosce la denominazione); 6. essere felice, molti anni dopo.

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Elogio della composizione scritta (o tema). Costringere una mente a svolgere per iscritto un tema prefissato, significa costringerla a: 1. capire il tema; 2. mettere ordine nelle proprie idee (ossia organizzarle secondo criteri propri); 3. non temere di esporle o, almeno, distinguere tra idee lecitamente esprimibili e idee – giustificatamente o no – ritenute illecite; 4. cercare le espressioni adatte; 5. abituarsi a esprimersi in modo comprensibile.

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Elogio della traduzione. Nella primavera scorsa, in un incontro pubblico (su Zoom, ovviamente), Franco Nasi non ha esitato a definire «politico» l’impegno del suo libro più recente che reca un titolo che più apolitico non potrebbe apparire: Tradurre l’errore. Tradurre infatti significa prima di tutto comprendere; l’impegno alla traduzione, nella formazione, è impegno alla comprensione, non solo dell’Altro e del mondo, ma anche di sé. Forse è per questo che nel vecchio sistema scolastico (qualche lettore benevolo forse ricorderà: il peculiare petrolio che l’Italia aveva) i giovani destinati alla classe dirigente non facevano praticamente altro che tradurre. Il riassunto, la parafrasi, la memorizzazione sono forme di traduzione. Per otto anni, poi, dalle medie fino alla maturità, si traduceva quotidianamente dal latino e dal greco (o da una lingua straniera). E all’università si era in grado di capire rapidamente anche le cose più complesse e di esprimersi comprensibilmente e correttamente. Perfino nella tesi di laurea!

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Il vecchio lettore si augura che il lettore meno vecchio che lo abbia volonterosamente e pazientemente seguito fin qui abbia anche apprezzato la cura con cui ha cercato di evitare ogni termine semiologico, in particolare in questi elogi. E, ringraziandolo, reverente lo saluta.

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P.S. Sia chiaro: il vecchio lettore è perfettamente consapevole che le sue reminiscenze e i suoi borbottii sono stati solo flebili richiami di una tardiva retroguardia di un esercito in rotta da tempo, privi anche della stentorea epicità del corno di Orlando.