Racconto, interpretazione, immaginazione. Tradurre la saggistica storica

UN NUMERO MONOGRAFICO

a cura di Bruno Maida

Gilbert Garcin, “Changer le monde”

Avvertenza: Gli articoli che compaiono con il logo dell’Università di Bergamo sono gli interventi alla giornata di studi “La traduzione di opere straniere e la storiografia italiana del Novecento”, a cura di Giovanni Scirocco e Massimiliano Vaghi (Bergamo, 30 gennaio 2020).

E’ difficile pensare oggi a una storiografia rassicurata da una distinzione tra vero e falso, e tantomeno da una separazione netta tra una scrittura scientifica e una narrativa. Al di là delle sue critiche alle teorie di Hayden White (Benigno 2008), penso che Carlo Ginzburg abbia ben riassunto il rapporto tra narrazioni di finzione e narrazioni storiche rilevando che dovrebbe essere inteso come «una contesa per la rappresentazione della realtà», ma non nei termini di una guerra di trincea bensì di «un conflitto fatto di sfide, prestiti reciproci, ibridi» (Ginzburg 2020). Viene da domandarsi se anche i rapporti fra testo storico e traduzione, fra storico e traduttore, non debbano essere osservati anche sotto questo profilo. Perché se quelle sfide, intrecci, mutamenti sono sempre il risultato umanissimo dell’incontro fra un traduttore e un testo, tuttavia viene naturale domandarsi quanto e fino a dove vale questa prospettiva nel momento in cui il testo è quello scientifico, nel nostro caso storico.

Prima di affrontare alcuni nodi che emergono dai contributi che vengono qui presentati, facciamo un passo indietro, perché indicare la genesi di questo numero monografico di «tradurre» permette di riconoscere il ruolo organizzativo e intellettuale rivestito da alcuni amici e colleghi, nonché aiuta a sottolineare come apparisse urgente una riflessione su saggistica e traduzione, in quanto terreno di lavoro e riflessione sostanzialmente non riconosciuto o trascurato. Di un numero della rivista dedicato specificamente alla saggistica storica la redazione discuteva poi da tempo, vuoi perché la componente degli storici è progressivamente cresciuta, vuoi perché tra tutti gli ambiti scientifici la storia è probabilmente  e per molti versi la più adatta per iniziare un confronto tra saggistica e traduzione: per la sensibilità verso il tema della narrazione, per il rapporto tra scrittura e autobiografia, per la costruzione di forme specifiche di racconto (divulgativo o meno) alle quali gli studiosi mostrano sempre maggiore attenzione e curiosità, e quindi per i problemi e per le opportunità traduttive che questi approcci portano con sé.

La spinta decisiva è venuta però dal gruppo che si è formato a Bergamo, il quale, grazie all’impulso e al coordinamento di Giovanni Scirocco, ha organizzato il seminario di studi dal titolo La traduzione di opere straniere e la storiografia italiana del Novecento, che si è tenuto presso quella Università nel gennaio 2019. Nelle discussioni tra quel gruppo di lavoro e la redazione di «tradurre» è emerso che la nostra rivista fosse l’approdo naturale per la pubblicazione degli atti. Quella “naturalezza” derivava anche dal fatto che, parallelamente e indipendentemente, un altro gruppo di studiosi legati alla rivista (Aldo Agosti, Frédéric Ieva, Bruno Maida e Gianfranco Petrillo, con l’assistenza editoriale di Didi Magnaldi) si era appunto messo a ragionare sulla possibilità di proporre ai lettori una riflessione sufficientemente organica su traduzione e storiografia. Il fatto che sia io a curare questo numero è dunque solo un riflesso formale di un procedere realmente collettivo (ma come sempre gli errori sono unicamente del curatore). Tuttavia, a me sta il compito di provare a offrire una possibile chiave di lettura di questi lavori, di come si parlino, si intreccino e propongano – almeno tale è la nostra impressione come redazione – nuovi percorsi di ricerca. Certo, va detto che alcuni saggi hanno affrontato in modo tangenziale l’intreccio tra storiografia e traduzione – così come i nodi problematici che ne derivano – rivolgendo maggiore attenzione alla dimensione disciplinare; una dimensione non meno interessante, sia chiaro, ma che mantiene in sospeso la relazione anziché indagarla. Ma d’altra parte, all’interno di un confronto con un carattere aurorale come questo, la messa a punto delle questioni metodologiche, che questi inciampi mettono in luce, costituisce un terreno altrettanto importante su cui interrogarsi.

Nel caso di un libro o un articolo di storia è sembrato a lungo che a dominare nella traduzione dovesse essere la resa del suo contenuto, la capacità di restituire il senso della ricerca e dei suoi risultati, perché in fondo l’obiettivo essenziale sarebbe stato quello di rendere accessibili i dati, le informazioni, le riflessioni, gli esiti disciplinari attraverso un trasferimento in altre lingue, specie se lontane da quelle tradizionalmente conosciute dagli studiosi o dai semplici lettori in determinate epoche (come il francese per il pubblico colto nell’Italia dell’Ottocento e del primo Novecento). Un po’ come se ci si trovasse di fronte a una materia inerte, senza vita propria, per così dire oggettiva, di quell’oggettività – per dirla con Benjamin, che «cosa come propriamente è stata» – che è stato il narcotico più forte dell’Ottocento (Benjamin 1986, 600: Die Geschichte, welche die Sache zeigte, «wie sie eigentlich gewesen ist», war das stärkste Narkotikum des Jahrhunderts, Benjamin, 1991, 578). Da questo punto di vista, il traduttore e la traduzione di un testo storico sembrerebbero persino allontanarsi dal loro compito naturale, letterario, avere una semplice funzione di servizio, essere sostanzialmente passeur senz’anima, fino a sentirsi di troppo o come un ospite inatteso e non invitato: «È vero, quando dici “Faccio il traduttore” ti chiedono subito che romanzi hai tradotto, e al tuo “No, faccio saggistica” la risposta è “Ah”, e il discorso finisce lì», racconta Fabrizio Grillenzoni

Invece, la prima sfida del traduttore di storia che voglia intendere un testo è «far propri i presupposti storici di esso» perché solo così «se cattura la vita che c’è nell’originale e la restituisce in una forma nuova – è una forza in grado di produrre effetti, e in una lotta è come un’arma, pronta a incidere nel nuovo contesto in cui vede la luce», scrive qui Massimo Mastrogregori. Non si tratta di investire il traduttore, sempre e comunque, di una funzione civile e militante bensì di ricordare come la conoscenza del passato non possa fare a meno del suo rideclinarsi e ripensarsi nel presente, in un processo che investe i testi di storia e il loro eventuale uso pubblico di nuovi significati e interpretazioni.

La vicenda della traduzione italiana del saggio di Zeev Sternhell, Ni droite ni gauche (Sternhell, 1983), che Maria Grazia Meriggi ricostruisce, essendo lei stessa curatrice e traduttrice della seconda edizione italiana, ne è una plastica dimostrazione. Nel seguire il suo dipanarsi, diventa evidente come l’operazione editoriale e traduttiva definisca un campo di battaglia non solo linguistico ma politico e storiografico a un tempo. La seconda traduzione italiana, realizzata alla fine degli anni novanta, rappresentò un’intenzionale risposta ai voluti fraintendimenti e ai cortocircuiti che l’opera, apparsa in italiano un quindicennio prima in una prima veste traduttiva, aveva determinato all’interno di un dibattito politico italiano segnato da un percorso di legittimazione e sdoganamento del fascismo, un percorso perseguito nella cosiddetta seconda Repubblica con costanza e linearità. Ripubblicare Sternhell, insomma, significava davvero ritradurre quel testo non solo nel senso tecnico, ma depurandolo dalle stratificazioni politiche e dagli abusi (storiografici) che aveva conosciuto.

Ma non sono normalmente gli storici a tradurre i loro colleghi. Quando questo accade la scelta ricade su coloro che per studi, sintonia, consuetudine, si potrebbe dire persino affetto e amicizia, conoscono il contesto, la storiografia, le pieghe scientifiche e ancorché polemiche che hanno accompagnato la genesi intellettuale, le vicende editoriali e il dibattito che quella determinata ricerca ha conosciuto. E’ il caso di Frediano Sessi, che ci racconta il suo percorso di traduzione della fondamentale opera di Raul Hilberg The Destruction of the European Jews (Hilberg 1961), offrendoci un parallelo spaccato delle dinamiche editoriali che ne hanno accompagnato la pubblicazione in Italia. Da un lato, possiamo osservare la complessità di un processo traduttivo che si deve confrontare con tre ordini di problemi: l’opera viene tradotta in Italia trent’anni dopo la prima edizione statunitense mentre, nel frattempo, la storiografia sull’argomento è aumentata in modo esponenziale; The Destruction of the European Jews è stata nel frattempo tradotto in vari paesi, a partire dalla Francia e dalla Germania; costituisce un lavoro sistematicamente in progress perché Hilberg ci ha lavorato tutta la vita e dunque ha continuato a modificare, aggiungere, correggere, avvalendosi spesso delle occasioni offerte dalle traduzioni. Dall’altro, emerge il rapporto personale e non sempre facile tra i due storici, divisi da un oceano e collegati da lettere, fax e telefono – in un contesto comunicativo ben diverso e assai più lento di quello odierno – ma anche da scelte e valutazioni non sempre coincidenti.

Ma è il caso anche di Maria Matilde Benzoni, che, traducendo Serge Gruzinski, si inserisce in un dibattito che è materia viva del mondo globalizzato in trasformazione, in cui la contestualizzazione storica ha rilevanza politica pressoché immediata, come a rilevare l’eredità – nell’attenzione alle civiltà precolombiane – lasciata da Ruggiero Romano dopo la sua rottura con la nouvelle vague delle «Annales» illustrata qui da David Bidussa.

Per lo più, a tradurre la storia sono invece traduttori di professione, che non scelgono autonomamente i testi da tradurre ma vi sono chiamati dagli editori, i quali riscontrano in loro la professionalità necessaria, non necessariamente legata alla competenza disciplinare. «Quando si è giovani di belle speranze si pensa che gli editori debbano tradurre solo romanzi – scrive Paola Mazzarelli – e che tutto il resto non sia roba nostra», complice la «mitologia del tradurre letteratura che resiste imperterrita ancora oggi». E tuttavia nella storia professionale di un traduttore, l’incontro con la saggistica può riservare sfide e sorprese inattese. Sulle continuità e sulle differenze fra il tradurre narrativa e il tradurre storia, sul lavoro di bottega, sulla costruzione di una propria cassetta degli attrezzi, sul peso degli incontri umani necessari per comprendere nodi altrimenti difficilmente dipanabili solo aprendo altri libri, non posso che rimandare alle pagine lucidissime di Fabrizio Grillenzoni e, appunto, Paola Mazzarelli. Consiglierei però di accostare agli interventi di Grillenzoni e Mazzarelli la lettura dell’articolo di Mario Marchetti, L’arte dell’approdo. Sparse notazioni dal campo di un traduttore di saggistica, pubblicato nel numero 0 di «tradurre» (primavera 2011), a dimostrazione innanzitutto che la traduzione saggistica era nelle corde e nella mission (come oggi si direbbe) della nostra rivista ma che, ahimé, la letteratura ha avuto come sempre il sopravvento. Questo numero monografico è anche la risposta a una a una sorta di smemoratezza.

Secondo Marchetti i problemi che il traduttore di saggistica si trova a dover affrontare sono analoghi, se non identici, a quelli che lo investono quando si mette davanti a un testo letterario: «Rispetto assoluto del testo, attenzione somma allo stile, individuazione di una “voce” peculiare, la grana di quella voce, quella dell’autore appunto, con in più una competenza che si ha, o che ci si deve conquistare, sui tecnicismi specifici di una certa sfera di conoscenze» (Marchetti 2011). Insomma, deve entrare nello stile, nel lessico e nella sintassi disciplinare e diventare una sorta di Zelig. Per quanto riguarda la storia, penso sia necessario operare uno scarto rispetto a questa analogia o perlomeno non assumerla come un dato di fatto. Per farlo bisogna però domandarsi se esiste un linguaggio storico.

E’ un tema su cui si è interrogato in profondità Marc Bloch nell’Apologia della storia, la cui genesi e in particolare quella delle sue edizioni Frederic Ieva ricostruisce. «La storia, dunque, riceve la maggior parte del suo vocabolario – scriveva lo storico francese – dalla materia stessa del suo studio. Lo accetta, già consunto e deformato da un prolungato uso; peraltro ambiguo, sovente sin dalle origini, come ogni sistema di espressioni che non sia nato dallo sforzo severamente concertato dei tecnici» (Bloch 19818, 137; Son vocabulaire, l’histoire le reçoit donc, pour la plus grande part, de la matière même de son étude. Elle l’accepte déjà fatigué et déformé par un long emploi; ambigu d’ailleurs, souvent dès l’origine, comme tout système d’expression qui n’est pas issu de l’effort sévèrement conceté des techniciens (Bloch 1974, 119). Tuttavia lo storico parla e scrive con le parole del proprio tempo, cercando sempre di evitare, però, il suo peccato mortale ossia l’anacronismo. Ciò significa che la sua opera è incardinata nel presente, si rivolge alla società in cui vive lo studioso, e il passato e la conoscenza storica diventano strumenti per rispondere alle domande che lo storico si pone hic et nunc. La conseguenza è che lo storico compie un lavorio continuo che deve porre particolare attenzione alle stratificazioni che le parole e i loro riferimenti materiali conoscono e subiscono. Perché «la scienza storica non dispone, come la matematica o la chimica, di un sistema di simboli staccato dalle diverse lingue nazionali» (Bloch 19818, 140; notre science ne dispose pas, comme les mathématiques ou la chimie, d’un système de symboles détaché de toute langue nationale – Bloch 1974, 122) e dunque rispetto alle altre scienze ha maggiore bisogno della traduzione, o meglio di una traduzione non tanto per restituire le parole comuni ma per garantire un sufficiente livello di equivalenza di significato e di contenuto quando si affronta la storia delle istituzioni, delle credenze, dei costumi. A volte sarà necessario conservare i termini originari ma questa soluzione avrà spesso il carattere del minimo sforzo, un risultato pigro perché l’essenziale «consiste nel riprodurre i nessi profondi dei fatti, esprimendoli con giusta nomenclatura» (Bloch 19818, 142: est de restituer les liaisons profondes des faits, en les exprimants par une juste nomenclature – Bloch 1974, 123). Insomma, come ammonisce lo storico francese, «la passività è vietata» (Bloch 19818, 142; la passivité est interdite – Bloch 1974, 123).

Oltre al tema del linguaggio della storia, sono molti gli snodi significativi che gli articoli di questo numero affrontano, contribuiscono a delineare e invitano a studiare: quali politiche culturali sottendono la traduzione e la pubblicazione di determinati libri di storia? Quali sono stati i protagonisti culturali, politici ed editoriali nel processo di diffusione di una conoscenza della storiografia straniera in Italia nel Novecento? Attraverso quali percorsi e scelte sono state costruite le collane storiche delle diverse case editrici? Quali libri non sono stati tradotti e perché, malgrado la loro riconosciuta rilevanza? Come si sono via via definiti i campi di battaglia storiografici sul versante della traduzione? E che cosa la traduzione o la mancata traduzione ci racconta di un determinato fenomeno o periodo storico? Il ponderoso saggio di Gianfranco Petrillo – da utilizzare con la consultazione della bibliografia realizzata da Didi Magnaldi e dallo stesso Petrillo – dedicato alle traduzioni nelle collane storiche italiane nel Novecento sarebbe sufficiente per comprendere quali sconfinate praterie si aprono agli storici dell’editoria, della traduzione e, direi degli storici tout court, assumendo queste prospettive. Sono temi che trovano parziali quanto ricche e suggestive indicazioni nei saggi di Carlo Carotti ed Elisa Rogante

E’ altrettanto naturale che molti interrogativi rimangano in una dimensione sospesa. Non è solo un carattere stesso della ricerca e non è – per quanto abbia pesato sul lavoro di tutti – il difficile accesso in questo anno e mezzo alle biblioteche e agli archivi. E’ soprattutto il risultato di un approccio interdisciplinare che ha bisogno di essere messo a punto, di definire categorie ed equilibri, di trovare sguardi comuni o perlomeno proseguire un dialogo che, in ogni caso, appare estremamente promettente e denso. Tra i molti elementi in sospeso mi preme sottolinearne uno che si riferisce al saggio di Ieva. Perché l’Apologie pour l’histoire venne tradotta proprio in Italia per la prima volta nel 1950? L’incontro nel 1946 tra Franco Venturi e il figlio di Bloch, Étienne, ebbe probabilmente un peso nel far comprendere in Italia la grandezza dell’impegno civile e politico dello storico francese, fucilato dai nazisti. L’attenzione era rivolta soprattutto verso la produzione del Bloch medievista e fondatore delle «Annales». Tuttavia viene da domandarsi se nella casa editrice Einaudi non aleggiasse il ricordo così vicino di Leone Ginzburg e il dolore per la sorte parallela a quella dello storico francese. O forse nelle stanze di via Biancamano qualcuno pensava che la sconfitta della Francia nel 1940 richiamava ed evocava il nostro 8 settembre: «Dobbiamo dunque credere che la storia ci ha ingannati?» (Bloch 19818, 25; «Faut-il croire que l’histoire nous ait trompé?» — Bloch 1974, 9) mormorò uno degli ufficiali che osservava insieme a Bloch l’occupazione tedesca di Parigi mentre lo Stato Maggiore francese «si cullava nell’ozio» (Bloch 19818, 25; traînait son oisiveté, Bloch 1974, 9).

Ma lasciando l’incerto alle future ricerche, è utile riprendere il tema della traduzione storica come progetto culturale. Difficile sottostimare, da questo punto di vista, la figura di Ruggiero Romano che David Bidussa tratteggia nella sua veste di organizzatore culturale, regista di grandi progetti editoriali einaudiani (come la Storia d’Italia, gli Annali, l’Enciclopedia) ma soprattutto “l’uomo delle “Annales” in Italia» negli anni sessanta, diventando vettore della ricezione della lezione della rivista francese, con la quale ruppe all’inizio del decennio successivo, segno anche di un mutamento dei paradigmi storiografici prevalenti, in coincidenza del mutamento epocale al quale fa riferimento in chiusura del suo saggio Gianfranco Petrillo. La funzione di alcune figure intellettuali e editoriali nel veicolare novità storiografiche, attraverso la costruzione di strumenti di lavoro e allo stesso tempo svecchiando approcci e metodologie, emerge anche nel contributo di Alessia Castagnino sulla traduzione di un caposaldo della storiografia sull’Illuminismo da parte di un traduttore di prim’ordine come Paolo Serini.

Non meno rilevante e più vicina ai nuovi percorsi della storiografia è l’attenzione verso la dimensione globale della storia, come racconta, oltre a quello di Maria Matilde Benzoni, il saggio di Silvia M. Pizzetti sulla nascita della World History e sulla complicata ricezione nella storiografia italiana delle opere di Arnold J. Toynbee e William H. McNeill. Massimiliano Vaghi affronta invece alcuni temi relativi all’edizione italiana di The New Cambridge Modern History.

Vale anche la direzione contraria, come dimostra il saggio di Stefano Rosso, nel quale si evidenzia la sostanziale assenza di un impegno editoriale italiano (e probabilmente europeo) nell’ultimo ventennio del Novecento nel tradurre parte della amplissima storiografia statunitense sulla guerra del Vietnam, limitandosi, con rare eccezioni, a offrire al pubblico le opere giornalistiche e più divulgative. L’analisi di Rosso mette in luce alcuni nodi politici e editoriali: la volontà di chiudere con una stagione lunga e complessa, il fatto che l’inglese ha sostituito il francese come lingua degli studiosi e del pubblico colto, la diffidenza degli editori a investire su opere impegnative e molto lunghe, come sono quelle scritte dagli storici americani sull’argomento.

Le questioni della forma e del contenuto – che sempre e naturalmente si intrecciano ma che nel caso della traduzione saggistica assumono un peso specifico maggiore – potrebbero trovare il loro equilibrio in quanto scriveva nel 1765 l’abate senese Pietro Crocchi. Dopo aver tradotto i primi otto libri della History of Scotland dello storico scozzese William Robertson, Crocchi scriveva nell’introduzione: «L’Italia, patria di tanti famosi istorici, non mancherà senza dubbio di adottar questo [stile] nella sua lingua, ed il traduttore si farà gloria d’aver contribuito a fare in essa conoscere un soggetto di tanto merito» (Crocchi 1765, I-II, citato qui da Castagnino). E tuttavia, pur nella gratificazione di aver fatto bene un doppio servizio al lettore e allo studioso, non è sufficiente.

La traduzione entra in rapporto con la storia e con la storiografia anche sotto un’altra dimensione. Tradurre non è solo restituire, insieme al trasferimento linguistico, un tempo storico ma contribuire a comprenderlo. Christopher Rundle rappresenta con chiarezza questo nodo attraverso l’analisi del ruolo delle traduzioni durante il fascismo, uno dei temi peraltro che ha maggiormente impegnato i traduttori di saggistica in Italia. Le campagne dei fascisti e dei nazionalisti contro le traduzioni ebbero un ruolo sostanzialmente politico più che culturale, contribuirono a diffondere una determinata immagine del regime, divennero strumenti simbolici per cercare di impedire una rappresentazione culturalmente subalterna del paese. Allo stesso tempo, divennero anche elementi di primo piano nella costruzione della censura e in particolare nella costruzione dell’antisemitismo, della legislazione razziale e della sua applicazione (e su questo rimane un punto di riferimento Fabre 1998).

Nella lettura dei saggi contenuti in questo numero monografico non aspettatevi dunque un percorso lineare, una strada costeggiata da cartelli che indicano la direzione. Osservate questi contributi come fossero un cantiere, con tutta la confusione che lo caratterizza ma anche con un disegno complessivo a cui si tende. Per quanto ne so, è il primo tentativo di costruire intrecci e interrogativi sul rapporto fra traduzione e storia, indicare piste di ricerca e nodi interpretativi che possano rendere un buon servizio alla storiografia, alla traduttologia e soprattutto al traduttore che, come credo di avere imparato in molti anni di frequentazione di professionisti di questo mestiere, prima di tutto traduce. Ma ci sono tre parole, che nonostante tutto, secondo me, guidano questo percorso, e sono “racconto”, “interpretazione” e “immaginazione”.

La storia non è letteratura ma è racconto: lo è nelle sue radici più profonde e antiche, nelle sue ragioni epistemologhe, nel suo dovere di trasmissione di una conoscenza che è per sua natura fondamento di ogni comunità e del rapporto tra comunità diverse. La storia è il racconto intorno al fuoco. Quando diventa rispecchiamento narcisistico di una conoscenza per pochi perde la sua funzione etica, vorrei dire sociale, e nel caso migliore ci restituisce un avanzamento del nostro sapere. Non è poco, ma non è abbastanza (Maida 2013). In questo, a mio modo di vedere, risiede una delle sue missioni fondamentali e contemporaneamente il legame essenziale con la traduzione: entrambe non sono solo due pratiche, due mestieri da affrontare con costante senso critico e acribia, ma due strumenti primari per leggere il mondo, per renderlo più grande come respiro intellettuale e più piccolo perché superano e annullano i confini. In un’età di muri che si alzano abbiamo straordinariamente bisogno di storia e di parole capaci di attraversarli e insieme di abbatterli.

La storia è, nello stesso tempo e per quanto appena detto, interpretazione, perché non è cronaca e accumulazione dei fatti, bensì selezione e ricerca di senso. Ha scritto Enrico Terrinoni che la traduzione non è solo una specie di lettura ravvicinata ma una riscrittura mentale e per questo è «in primo luogo sempre una forma di interpretazione» (Terrinoni 2012). Ed è una riscrittura perché il passato (il testo prodotto in un certo tempo, in un certo luogo, in una certa lingua) incontra perennemente il presente, costruendo un dialogo ininterrotto. Anche per questo motivo, la più bella definizione di storia, per come la vedo io, rimane quella di Edward H. Carr: «un continuo processo di interazione tra lo storico e i fatti storici, un dialogo senza fine tra il presente e il passato» (Carr 1966, 35: it is a continuous process of interaction between the historian and his facts, an unending dialogue between thepresent and the past, Carr, 19612, 30).

La storia è infine immaginazione, che non significa fantasia: lo storico che fa sul serio il suo mestiere non riproduce né tantomeno inventa il passato, ma fornisce una ricostruzione il più verosimile possibile, operando una rigorosa critica delle fonti, utilizzando tutte le tracce possibili, studiandole e interrogandole, «per colmare le lacune, così come l’immaginazione dello scrittore lavora per andare oltre la realtà», come il traduttore (Maurizia Balmelli in Mazzarelli 2011). Per la storia non funziona la «sospensione dell’incredulità» come elemento costitutivo della fede poetica, come sosteneva Coleridge, al contrario è proprio il superamento dell’incredulità (Ginzburg, 2020, 92-93) che rende possibile la verosimiglianza dell’invisibile.

Bibliografia

Benigno 2008: Francesco Benigno, Dell’utilità e del danno di Hayden White per la storia, in Francesco Benigno, Giulia Calvi, Luca Baldissara, Luisa Passerini, Forme di storia di Hayden White, in «Contemporanea», XI, 3, luglio

Bloch 1974: Marc Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, Paris, Armand Colin

Bloch 19818: Marc Bloch, Apologia della storia, o Mestiere di storico, con uno scritto di Lucien Febvre, a cura di Girolamo Arnaldi, trad. di Carlo Pischedda (I ed. 1950)

Benjamin 1986: Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, a cura di Rolf Tiedemann, edizione italiana curata da Giorgio Agamben, trad. di R. Solmi, A. Moscati, M. De Carolis, G. Russo, G. Carchia, F. Porzio, Torino, Einaudi (ed. or. Gesammelte Schriften, hrsg. von Rolf Tiedemann und Hermann Schweppenhauser, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1991)

Carr 1961:Edward H. Carr, What is History, London, Macmillan, 19612

-1966: Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, a cura di Robert William Davies, Einaudi, Torino, trad. it. di Carlo Ginzburg

Fabre 1998: Giorgio Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Silvio Zamorani editore, Torino

Ginzburg 20203: Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano (I ed. 2006)

Hilberg 1961: Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Holmes & Meier, New York

Maida 2013: Bruno Maida, La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia, 1938-1945, Einaudi, Torino

Marchetti 2011: Mario Marchetti, L’arte dell’approdo. Sparse notazioni dal campo di un traduttore di saggistica, in «tradurre. pratiche teorie strumenti», n. 0 (Primavera)

Mazzarelli 2011: Paola Mazzarelli, «Il ritmo è un faro». Chiacchierata con Maurizia Balmelli su Suttree di Cormac McCarthy, in «tradurre», n. 0 (Primavera)

Crocchi 1765: Pietro Crocchi, Introduzione, inWilliam Robertson, Notizie preliminari alla storia di Scozia […]. Tradotto nella Lingua Italiana dall’Originale Inglese, Amsterdam [Siena], s. e., 1765 (trad it. di Pietro Crocchi dei primi otto libri di The History of Scotland during the Reigns of Queen Mary and King James VI […], London, Andrew Millar, 1759, vol. 1)

Sternhell 1983: Zeev Sternhell, Ni droite ni gauche. L’idéologie fasciste en France, Paris, Éditions du Seuil

Terrinoni 2012: Enrico Terrinoni 2012, Per un Ulisse democratico, in «tradurre. pratiche teorie strumenti», n. 3 (Autunno)