QUALCHE CONSIDERAZIONE SULL’USO DEGLI ANGLICISMI IN ITALIANO
di Alessio Mattana
Nello scorso numero di «tradurre» Massimo Fanfani ha scritto un articolo ricco di spunti sulla seconda ristampa di L’italiano è meraviglioso (2019) di Claudio Marazzini, ordinario di Storia della lingua italiana presso l’Università del Piemonte orientale e da oltre sei anni presidente dell’Accademia della Crusca. Come suggerisce il sottotitolo del volume, Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, l’intento di Marazzini è quello di lanciare un appello in difesa dell’italiano, la cui esistenza sarebbe in pericolo.
Diverse pubblicazioni sullo stato della nostra lingua, tra quelle uscite in particolare nell’ultimo lustro, hanno mosso dall’assunto che l’esistenza dell’italiano sia minacciata, e che le interferenze dall’inglese siano particolarmente perniciose. La questione è stata piuttosto dibattuta tra il 2015 e il 2017: il punto di partenza fu la famosa petizione Un intervento per la lingua italiana (#dilloinitaliano) lanciata dalla pubblicitaria Annamaria Testa, diretta all’Accademia della Crusca e sottoscritta da oltre settantamila persone. L’Accademia della Crusca, istituzione e osservatorio linguistico tra i più longevi e noti al mondo, ha recepito le istanze di Testa e si è da quel momento attivata per sensibilizzare il pubblico a un uso più consapevole degli anglicismi e in particolar modo a un utilizzo più sistematico dei termini o espressioni italiane di significato equivalente. Il gruppo Incipit, composto, oltre che da Marazzini e Testa, anche da Michele Cortelazzo, Paolo D’Achille, Valeria Della Valle, Jean Luc Egger, Claudio Giovanardi, Alessio Petralli, Remigio Ratti e Luca Serianni, si è distinto fin da subito per la sua energica attività editoriale: data al 2015 il volume collettaneo La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi (curato da Marazzini stesso con Petralli), e al 2017 L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, curato da Maria Agostina Cabiddu e, per quanto non diretta espressione del gruppo, certamente vicino ai suoi interessi, come testimonia il capitolo scritto da Marazzini sulla famosa sentenza n. 42/2017 della Corte costituzionale che sovvertì la decisione del Politecnico di Milano di tenere alcuni dei suoi corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in inglese.
La petizione di Testa e l’attività della Crusca sulla questione degli anglicismi hanno alimentato un più ampio dibattito sulla lingua italiana. Dal 2016 il sito della Treccani ospita una sezione intitolata Il Bel Paese dove l’OK suona, in cui una rosa di studiosi ed esperti della lingua (tra cui anche la traduttrice Licia Corbolante) offre diverse prospettive sull’argomento anglicismi, alcune più aperte verso le contaminazioni a cui ogni lingua è soggetta, altre (la maggior parte) decisamente critiche verso l’apporto dell’inglese, il quale viene spesso percepito come una vera e propria minaccia. In un intervento del 2016 per Internazionale, Tullio de Mauro parlò apertamente di un’«ondata anglizzante», spostando saggiamente la prospettiva dalla percentuale di parole nel lessico, il valore assoluto tipicamente usato per valutare l’impatto degli anglicismi “crudi” in italiano (valore che nel vocabolario italiano si attesta a circa 3.500 lemmi), ad altri parametri: la frequenza nell’uso comune degli anglicismi in «locuzioni formali e ufficiali (education, jobs act, question time, spending review, spread, welfare e via governando)»; la rilevanza dei «campi semantici investiti dall’uso di anglismi, da quelli tecnico-scientifici alla politica, dallo sport alla quotidianità»; e «l’eccezionale frequenza» degli anglismi nell’uso comune (De Mauro 2016). Sulla scorta di termini come il franglais e Denglisch, Antonio Zoppetti, studioso militante contro gli anglicismi, ha recentemente rievocato lo spettro dell’itanglese, una sorta di italiano irrimediabilmente adulterato da prestiti inglesi i quali, dato sufficiente tempo, trasformerebbero l’italiano in una lingua morta (Zoppetti 2017). La spinta del dibattito sull’uso dei prestiti inglesi in italiano si è ridotta dopo il 2017 senza però mai davvero perdere di attualità. Il gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca pubblica con cadenza regolare dei comunicati stampa nei quali viene gettata luce su diversi usi improvvidi dell’inglese nella comunicazione istituzionale e giornalistica: da ultimo, il cervellotico “switch off” apparso sul sito dell’Inps per segnalare un cambiamento nel modo in cui accedere ai propri servizi in linea.
Il coinvolgimento del pubblico più generalista nel discutere della sorte della nostra bella lingua trova il suo culmine proprio in L’italiano è meraviglioso, un libro che si presenta come un best seller già dalla copertina, nella quale campeggiano il titolo di «Presidente dell’Accademia della Crusca» e una benevola citazione di Corrado Augias. E best seller va considerato anche in termini di collocazione editoriale se Rizzoli, nel ristamparlo a poco più di un anno dalla sua prima uscita, lo ha annesso ai «Best Bur», la sua collana commercialmente più in vista e che vanta non solo pezzi grossi del romanzesco ma anche campioni pop della divulgazione scientifica come Roberto Burioni (con La congiura dei somari, Rizzoli 2018), Dario Bressanini, Piero Angela e Alessandro Barbero.
In virtù di ciò, e dell’importanza dell’argomento per la traduzione, desidero riprendere in mano le questioni di politica linguistica sollevate da Marazzini e presentate da Fanfani nel suo intervento su «tradurre», concentrandomi sull’impatto dell’inglese sulla lingua italiana e sul modo in cui questo è stato veicolato in L’italiano è meraviglioso. Prendo le mosse proprio dall’intervento di Fanfani, nel quale, pur venendo sottoscritte quasi tutte le argomentazioni di Marazzini, si fa cenno proprio verso la conclusione a una certa carenza di un «giudizio spassionato e obiettivo» da parte dell’autore e a un contestuale eccesso di severità verso «le interferenze delle lingue straniere» (così come verso «il ribollire dei dialetti» e «le infrazioni della norma») quando queste vengono identificate come le cause della crisi dell’italiano (Fanfani 2020, 11).
Credo sia opportuno rendere preventivamente palese la mia professione: sono docente di lingua inglese e assistente alla didattica in inglese (soprattutto presso l’Università di Torino, ma senza avere affiliazioni che non siano quelle derivate dalle collaborazioni stipulate per ciascun anno accademico). Si tratta di una scelta professionale effettuata dopo diversi anni vissuti all’estero e in particolare a Leeds, nel Regno Unito, per completare un dottorato di ricerca sulla cultura scientifica inglese nel Settecento. Va da sé che io sia dunque un osservatore “situato” e che il mio contributo non possa che offrire una visione parziale. Ciononostante, e con tutti i limiti imposti dalla mia conoscenza dell’argomento, vorrei provare a discutere alcuni dei problemi relativi alla questione dell’impatto dell’inglese sull’italiano affrontati in L’italiano è meraviglioso.
L’italiano tra estinzione ed espansione
Presentato in quarta di copertina come «un’analisi rigorosa e completa dello stato di salute dell’italiano contemporaneo», L’italiano è meraviglioso di Marazzini esplicita fin da subito l’assunto su cui poggia il volume: l’italiano è una lingua in gravissima crisi, forse persino a rischio di estinzione. «[È] facile intuire», leggiamo nella primissima pagina, «che la lingua italiana, nel mondo globalizzato, andrà incontro a una crisi di cui si manifestano ora i primi sintomi allarmanti» (Marazzini 2019, 7). Il libro traccia il profilo di una lingua italiana in manifesta difficoltà a causa della trascuratezza, quasi del disamore, dei suoi parlanti, e alla possibilità concreta che le caratteristiche dell’italiano vengano annullate dal dominio dell’inglese, lingua franca di questo nostro mondo globalizzato. Questa argomentazione poggia su un impianto retorico molto aggressivo che pone il volume più sul piano del pamphlet che su quello dell’opera di divulgazione. L’italiano viene descritto come una «lingua senza impero» (così il titolo del primo capitolo, pp. 13–40) poiché, diversamente dall’inglese, dal francese e dallo spagnolo, la cui espansione sarebbe dovuta a un’intensa attività guerresca prima e coloniale poi, il nostro idioma si sarebbe diffuso grazie «all’interesse verso la nostra cultura» (p. 15). La nostra cultura è stata negli ultimi anni trascurata proprio a causa della passione incontrollata di tanti, troppi dei nostri parlanti per tutto ciò che è anglofono, e così il futuro verso cui s’avvia l’italiano è «piuttosto buio», come recita il titolo del secondo capitolo (pp. 41-104). In breve, il punto che Marazzini ambisce a veicolare ai suoi lettori è che l’italiano sia una lingua sempre meno importante sia in Italia sia nel mondo, e che la sua sopravvivenza futura poggi sul rinnovato amore che i suoi parlanti devono imparare a nutrire nei suoi confronti.
Se, come suggerisce un critico acerrimo del Global English come Robert Phillipson, una lingua globale si riconosce per l’accumulazione di capitale linguistico e simbolico e l’appropriazione dello spazio altrui (Phillipson 2017, 316), l’italiano non può davvero essere considerato minore nello scacchiere linguistico mondiale. Anche tralasciando la vexata questio dell’impatto linguistico dell’esperienza coloniale italiana – di certo non derubricabile a «un bel nulla» (p. 14; sull’argomento si veda Ricci 2005) – basti perlomeno considerare due fattori. Il primo è la fortissima emigrazione italiana, in particolar modo nel Novecento, con importanti conseguenze in termini di contatto linguistico (De Mauro 1991; Vedovelli 2011). Il secondo fattore è la rete strategica di promozione dell’italiano nel mondo, la quale è piuttosto estesa e che vale la pena analizzare nel dettaglio.
Che la lingua italiana si sia espansa anche grazie all’interesse verso la cultura italiana, letteraria e non, è un dato acclarato. Il prestigio del patrimonio culturale italiano svolge un ruolo chiave nel promuovere l’attrattiva generata dal nostro bell’idioma. Allo stesso tempo però non si può ignorare che ci siano dei fattori socioeconomici che pongono l’italiano in una posizione globale che si fa fatica a definire trascurabile. Come ha osservato Pietro Trifone in una recente intervista, anche in un momento di relativo calo di interesse verso l’italiano (soprattutto nelle università statunitensi, dove lingue come il giapponese attraggono sempre più studenti), «uno studente straniero su tre sceglie la nostra lingua per scopi professionali, comprendendo tra questi la stessa formazione scolastica e universitaria» (Fuduli Sorrentino e Trifone 2019; cfr. Giovanardi e Trifone 2012). L’italiano non è una scelta perdente in termini di mercato globale, ed è d’altronde a partire dall’appetibilità economica della cultura italiana che nella relazione dei suoi stati generali tenutisi a Firenze il 21 e 22 ottobre 2014, i gruppi di lavoro del Maeci (Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale) prospettavano un’ulteriore espansione della già estesa «rete mondiale» per la promozione della lingua italiana: rete allora comprendente, tra le varie istituzioni, 83 Istituti italiani di cultura, 44 scuole paritarie, 76 sezioni italiane delle scuole straniere e 176 lettorati di italiano presso università straniere, ai quali vanno aggiunti gli oltre 400 comitati della Società Dante Alighieri che organizzano corsi di lingua in tutto il mondo (Maeci 2014, 6-9). Il rapporto del 2017 ha confermato questi punti, sottolineando inoltre la presenza di un doppio binario di espansione: commerciale da un lato, specie attraverso l’italiano come mezzo per «esaltare la qualità e la bellezza» dei prodotti con marchio “made in Italy”; pedagogico dall’altro, con incrementi sensibili nel numero di studenti di italiano in Brasile, Ecuador, Emirati Arabi Uniti e Federazione Russa, uniti a prospettive di espansione verso bacini «prioritari» come la Cina, i paesi del Mediterraneo e i Balcani (Maeci 2017, 6 e 10). Più che una lingua in via di estinzione, l’italiano in questo senso ha i tratti di una lingua egemone.
Chi ha paura del Global English?
È al contempo altrettanto pacifico che l’inglese abbia una tendenza al cannibalismo tale da mettere in pericolo le altre lingue, non importa quanto grandi siano, ed è questo tratto che rende l’analogia di Swales tra l’inglese e il Tyrannosaurus Rex particolarmente azzeccata: i tirannosauri erano difatti capaci di cibarsi anche dei resti degli individui della loro stessa specie (Swales 1997). Il prestigio e la portata economica dell’inglese si situano in effetti su una scala talmente diversa da far porre automaticamente il problema della sua influenza su tutte le lingue del mondo. Nel secondo capitolo, intitolato, come s’è accennato, Dove va l’italiano: un futuro piuttosto buio, Marazzini identifica proprio nel dominio dell’inglese uno dei fattori, se non l’unico, di maggior rischio non solo per l’italiano ma per tutte le lingue europee, e segnatamente per quelle romanze: «Tutte le lingue d’Europa, in particolare quelle romanze, si trovano a fare disperatamente i conti con una prevalenza universale e quasi dittatoriale dell’inglese. […] La dittatura dell’inglese in sostanza mette a rischio tutti allo stesso modo» (p. 41).
Il lessico evoca esplicitamente la dittatura, una scelta curiosa dato che l’adesione all’inglese è meno una questione di coercizione che di adesione entusiasta, come del resto suggerisce lo stesso Marazzini in altre parti del suo volume. La situazione è certamente preoccupante, ma da qui a sostenere che tutte le lingue del mondo siano prossime a essere sostituite dall’inglese ce ne corre, e dunque non sorprende che i tanti che «identificano nella dominanza dell’inglese il ritorno alla condizione edenica» pre-babelica (p. 43) non vengono a loro volta identificati. Questo uso di affermazioni provocatorie non suffragate da riferimenti puntuali ha un po’ troppo spesso luogo nel lavoro di Marazzini, e si tratta di una scelta che l’impianto argomentativo de L’italiano è meraviglioso non giustifica a pieno. I lettori avrebbero, credo, meritato di saperne di più sulla florida letteratura emersa negli anni, anche da parte di studiosi anglofoni, sugli effetti del cosidetto inglese globale sulle altre lingue del mondo. Alcuni filoni si sono concentrati sia sulle possibilità di mobilità sociale che l’inglese garantirebbe a coloro che occupano i gradini più bassi della società, sia sui fattori che portano una lingua a scomparire, in modo da temperare la tendenza a leggere qualsiasi fenomeno di indebolimento linguistico come un risultato dalla pervasività dell’inglese (vedi ad esempio Brutt-Griffler 2005). Altre correnti hanno scritto di come la competenza in inglese permetta di evitare la cosiddetta fuga dei cervelli verso paesi più ricchi (Van Parijs 2000). E non mancano naturalmente le voci critiche, specie in relazione alle strategie culturali adottate nella diffusione dell’inglese su scala globale, cioè quando si parla di imperialismo culturale. Particolarmente rilevante in questa sede, poiché toccato da Marazzini con riferimento alle scuole Cambridge (pp. 101-103), è il discorso su un ente linguistico come Tesol (Teachers of English to Speakers of Other Languages), vero e proprio avamposto dei governi statunitense e britannico per propagandare l’uso globale dell’inglese e, attraverso esso, aumentare il raggio o l’intensità della propria sfera di influenza su paesi non anglofoni. Tali strategie, largamente applicate nel periodo della guerra fredda (Phillipson 1992), non sembrano aver minore importanza in tempi più recenti, come testimonia, ad esempio, il supporto dato nel 2008 dall’allora primo ministro inglese Gordon Brown a un’iniziativa di espansione globale di Tesol, supporto che Brown riteneva giustificato dal fatto che l’inglese sia the world’s language […] the pathway of communication and global access to knowledge, «il linguaggio del mondo […] la via della comunicazione e dell’accesso globale alla conoscenza» (in Hewings, Tagg 2012, 9-10; traduzione mia).
Anche solo concentrandosi sulle voci più critiche è possibile apprezzare maggiormente la complessità dei problemi generati dal Global English sulle lingue di tutto il mondo, e a partire da ciò trarre un parallelo con la situazione italiana. David Crystal, curiosamente mai menzionato nel lavoro di Marazzini, ha identificato il potere economico, tecnologico e culturale come la chiave del successo non solo dell’inglese ma anche di precedenti lingue globali come il latino e il francese (Crystal 2003, 7). Il già citato Phillipson è forse l’esponente più noto tra coloro che interpretano l’imperialismo linguistico dell’inglese nei termini del capitalismo globale, del soft power del prestigio e dell’egemonia che risulta da questi due fattori (cfr. Ives 2019). Phillipson è molto chiaro in merito: in Europa l’inglese è il linguaggio corporate dominante; la gran parte dei film che arrivano nelle tv e nei cinema sono prodotti hollywoodiani; diversi prodotti di grande consumo, dalla Coca-cola ai McDonald a Netflix, sono statunitensi; e la ricerca scientifica è di preferenza, quando non unicamente, condotta in inglese (Phillipson 2009, 336). E il problema poi diventa ancora più sfaccettato se si alza lo sguardo oltre il panorama europeo. Sempre di Phillipson, in un volume più recente, si veda allora l’analisi dell’India, un paese di straordinario multilinguismo nel quale l’inglese, lingua dei colonizzatori, permette una mobilità sociale costruita a tavolino tramite l’accesso alle università più prestigiose. Alla colonizzazione territoriale si è sostituita quella pedagogica, rendendo la conoscenza dell’inglese un requisito per il miglioramento delle proprie condizioni di vita (Phillipson 2016, 322). Questi sono a tutti gli effetti programmi di imperialismo culturale che attraverso la lingua impongono delle visioni del mondo al fine di universalizzarle (Balibar e Wallerstein 1988, 62), ma sarebbe sbagliato ritenerli esclusivamente appannaggio dell’inglese. Il cosiddetto language planning fu ad esempio ampiamente utilizzato nei paesi del blocco comunista, in particolare quelli sotto l’egida dell’Unione Sovietica e della Cina, per disciplinare il dissenso linguistico attraverso uno spettro di strategie, dalla coercizione diretta alle riforme alfabetiche e linguistiche alla promozione di programmi di apprendimento specifici (Andrews 2018).
Raffrontati a uno scenario così intricato e per certi versi contraddittorio, risultano dunque privi di mordente e scarsamente convincenti i lunghi j’accuse di Marazzini contro il Content and language integrated learning (noto con il suo acronimo Clil) e il Global English. Dico poco convincenti non perché Clil e Global English non rappresentino dei pericoli effettivi, quanto perché il modo retorico scelto per discuterli restituisce davvero poco della complessità dei problemi derivanti dall’applicazione di questi concetti. Si preferiscono spesso le frasi a effetto in chiusura di capoverso e paragrafo, frasi che, spiace scriverlo, suonano come provocazioni da campagna elettorale sovranista: un esempio su tutti è: «Dunque, via ogni timore. Creolizziamoci. Sarà un formidabile suicidio assistito» (p. 87). Espressioni simili sembrano cercare a tutti i costi lo scandalo dei lettori, lettori a cui però gli argomenti vengono presentati in maniera a volte poco precisa. È questo il caso della trattazione del Clil, definito da Marazzini come «una delle iniziative messe in atto nel corso degli anni dal MIUR», ossia dal ministero dell’Università e della ricerca (p. 99). Come sanno gli esperti di didattica delle lingue, il Clil non è stato ideato dal Miur «sotto la pressione di un culto dell’inglese» (p. 99), ma è una metodologia di apprendimento integrato creata da David Marsh e Anne Maljers nel 1994 al fine di coniugare l’insegnamento di materie non linguistiche all’apprendimento di una lingua straniera. Con la legge 107 del 2015, l’Italia è diventato il primo paese dell’Unione Europea ad aver legiferato in merito al Clil. Contrariamente a quanto si evince nel libro di Marazzini, ciò non vuol dire che il Clil sia obbligatorio nelle scuole né nelle università. Oltretutto, il Clil non sostituisce bensì affianca l’apprendimento nella lingua madre, e persino «affianca» è un’esagerazione: di solito le lezioni erogate con metodologia Clil, che in Italia si tengono solitamente in inglese e in francese ma talora anche in tedesco e russo, vengono compresse in periodi intensivi di dieci-venti ore all’anno, distribuite in periodi da tre a cinque settimane e riguardanti solo due o massimo tre materie curriculari, sempre che vi sia la disponibilità di insegnanti adeguatamente formati, i quali propongono questi progetti su base volontaria (cfr. Narwot-Lis 2019). Né va sopravvalutata la diffusione del Clil. Per quanto ormai datato, il rapporto Eurydice della commissione europea del 2006 rivela infatti che l’insegnamento Clil in Italia «è poco sviluppato o esiste da poco tempo in forma di progetto pilota» (Eurydice 2006, p. 43). La situazione non cambiò molto nei sei anni successivi: il rapporto di Indire (l’Istituto nazionale documentazione innovazione ricerca educativa) del 2012 ha rilevato la disponibilità di 16.000 docenti attivatisi per il Clil a fronte di oltre 700.000 cattedre in tutta Italia (Martinelli 2017, 3). Non esattamente una sostituzione dell’italiano da parte dell’inglese, dunque.
Ciò non significa che non manchino i problemi, o che il Clil non sia passibile di critiche: lo stesso rapporto Eurydice osserva che, come spesso accade con l’insegnamento delle lingue straniere nell’Unione Europea, l’inglese è predominante, con ovvi cali di interesse verso le altre lingue (Eurydice 2006, 56; cfr. Cook 2010, 115). Ma va altresì detto che le altre lingue straniere che vengono insegnate attraverso il Clil fanno parimenti leva sul proprio prestigio: nell’Unione Europea molte sono infatti le esperienza di didattica Clil in francese, tedesco, spagnolo e, naturalmente, italiano (Eurydice 2006, 56). Peraltro, l’idea di fondo di metodologie di apprendimento come il Clil (giusto o sbagliato che lo si ritenga come strumento didattico) è di migliorare la competenza linguistica in una seconda lingua in modo da padroneggiarla. I docenti interessati a proporre questo tipo di metodologia didattica in Italia sono tenuti ad avere un livello di competenza linguistica C1 certificato e aver maturato competenza didattiche nella creazione di moduli didattici in lingua straniera per almeno venti o sessanta crediti universitari, a seconda che il docente sia già in servizio o meno.
Tutto ciò è pensato per contribuire a un miglioramento nelle abilità linguistiche degli alunni, e, nella fattispecie dell’inglese, a evitare lo spettro di una lingua cruciale per la vita professionale usata in maniera raffazzonata: cioè quello che Marazzini chiama globish. Anche qui L’italiano è meraviglioso si muove sul crinale dell’imprecisione semantica, una mossa che, non potendo essere frutto di ignoranza da parte dell’autore, va giocoforza interpretata come squisitamente retorica. Il globish (o globese, se si preferisce il portmanteau italiano) non equivale difatti all’«inglese globale lingua franca» (p. 66), come suggerito dall’autore: trattasi invece di un concetto così poco concreto che l’Oxford English Dictionary neanche lo indicizza. Il globish è una creazione di Jean-Paul Nerrière, ingegnere informatico francese che una quindicina d’anni fa sviluppò un inglese semplificato di soli 1.500 vocaboli (Nerrière et al. 2005), un analogo del Simple English creato dal grande psicolinguista Charles Kay Ogden nel 1925. Con Global English (a volte anche chiamato International English) per contro, si intende una varietà linguistica con caratteristiche diverse da quelle dell’inglese britannico e americano. Le due cose non potrebbero essere più diverse, ma persino Fanfani scrive che: «[l]’inglese “globale”, infatti, è ormai una lingua basica ben diversa dall’inglese britannico o americano» (Fanfani 2020, 4). Il Global English non è semplicemente una versione imbastardita delle prestigiose varietà britanniche o americane ma una varietà linguistica a sé stante: la semplificazione della lingua è stata qui confusa con la variazione linguistica.
Viene dunque da chiedersi se il brandire parole come Clil e globish in questo modo non sia l’analogo linguistico delle evocazioni cospirazioniste del deep state da parte di Donald Trump o della fantomatica “teoria gender” regolarmente brandita da alcuni ben identificabili esponenti politici italiani. Il parallelo non vuole essere provocatorio ma cautelativo verso i lettori: nell’agone politico come in quello linguistico, il rischio è di cadere nella demagogia, dividendo in maniera netta tra noi, la nostra lingua e ipso facto la nostra identità, da una parte, e, dall’altra, i nemici dell’italiano, che incessantemente cercano di corrompere la nostra lingua e, dunque, la nostra identità. E di “nemici”, in effetti, ve ne sono diversi ne L’italiano è meraviglioso. Anche in argomentazioni assolutamente ragionevoli, come quella del 2017 contro la decisione di escludere l’italiano come lingua per la compilazione dei progetti per i finanziamenti dei Progetti di ricerca di interesse nazionale (i cosiddetti Prin), la retorica adottata da Marazzini polarizza gli amici dell’italiano contro i suoi acerrimi nemici senza ammettere sfumature intermedie. Un esempio lampante è quello della lettera diretta alla Crusca nel 2017 da un accademico di area umanistica proprio in merito alla questione Prin. L’autore raccontava di non aver scritto un articolo scientifico in italiano dal 1993, riconoscendo come sua lingua il dialetto della sua zona e relegando l’italiano alla sfera dell’informalità (p. 81). Questa interessante lettera non viene letta come una testimonianza, condivisibile o meno ma certo ricca di spunti di riflessione: viene invece descritta come significativa di «un incomprensibile quanto immotivato odio per la lingua italiana» (p. 81). Parimenti, ecco comparire «i nemici dell’italiano [che] alzano la voce» (p. 57) ogni qualvolta si solleva la questione del prestigio e dell’importanza della nostra lingua; e «numerosi», apprendiamo, sono i «nemici dell’italiano» (p. 96).
Affrontare le questioni linguistiche attraverso polarizzazioni così marcate significa intrattenere posizioni che, per quanto condivisibili, risultano scollate dalla realtà fattuale, che come al solito è molto più complessa dei modelli che proponiamo per spiegarla. Noi possiamo discutere per anni delle scelte linguistiche che i parlanti dovrebbero o non dovrebbero compiere, ma nel mentre il resto dei nostri compatrioti sceglie di studiare l’inglese per il semplice motivo che è necessario per la propria carriera lavorativa o accademica. Invitare dunque a boicottare l’inglese per scrivere articoli scientifici in italiano significa trascurare che, piaccia o non piaccia, nella maggior parte dei settori disciplinari, e sicuramente in quelli di molte scienze esatte, fare ciò equivale a rinunciare tout court alla propria carriera accademica. Certo, è suggestivo sia citare l’italiano di Galileo (p. 58) sia, come viene fatto da Francesco Sabatini nella prefazione alla curatela di Cabiddu del 2017, la lettera del 1767 con cui Charles Bonnet, biologo ginevrino, invitava il nostro Lazzaro Spallanzani a scrivere le sue ricerche scientifiche nella langue qui vous est la plus familière: c’est bien assés d’avoir à s’occuper des chose, il ne faut pas avoir à s’occuper encore des mots («la lingua che le è più familiare: è ben sufficiente doversi occupare delle cose, non è necessario doversi occupare anche delle parole» – in Cabiddu 2017, ii; traduzione mia). Ma utilizzare questi esempi come comportamenti virtuosi dimostra più interesse verso l’astrazione che verso le dinamiche del mondo reale, e non solo perché si parla di secoli fa, cioè di un mondo interamente diverso in cui, appunto, le lingue nazionali si stavano appena affrancando dall’egemonia del latino scientifico. Il punto è soprattutto che considerazioni simili non tengono conto di come funzioni il mondo del lavoro, accademico e non, e trascurano che la lingua con cui si è più a proprio agio nella comunicazione scientifica può essere diversa dalla propria lingua nativa: per molti è proprio il tanto vituperato inglese accademico. Da questo punto di vista, la percezione scissa che si può avere delle proprie lingue a seconda dei contesti (professionale, personale, sociale, eccetera) andrebbe studiata in maniera seria e senza preconcetti.
L’italiano e il rapporto con le lingue globali
Al netto di quanto si è detto finora, rimane certo il fatto che nel linguaggio burocratico, istituzionale e giornalistico gli anglicismi abbondino, talvolta nel loro uso più pigro, talaltra in modi più creativi e utili per la lingua di arrivo. L’analisi di Marazzini (pp. 51-55) vanta da questo punto di vista un approccio flessibile: con grande sensibilità linguistica vengono infatti distinti gli esotismi i cui concetti sono nuovi e dunque non facilmente esprimibili in italiano (come ad esempio wi-fi e stent) da quelli meno necessari (refreshare, competitor e maladministration ad esempio, nonché location, e moltissimi altri). Marazzini suggerisce che l’italiano stia venendo adulterato dall’uso di anglicismi non necessari: come parlanti staremmo quindi diventando sempre più incapaci di usare degli equivalenti italiani, i quali sono dunque destinati all’oblio.
In alcuni casi la linea tra buoni e cattivi è più difficile da tracciare. Un esempio interessante in merito credo sia endorsement, trattato da Marazzini (p. 53) e Fanfani (2020, 6-7) come anglicismo non necessario. Endorsement non può essere facilmente reso con “adesione” o “sostegno” perché in inglese indica anche la “investitura” di un candidato da parte di una persona che ha in mano un certo potere (economico o simbolico) e che può influenzare l’esito di una data elezione o l’ottenimento di una carica importante. In senso ancora più stretto, endorsement indica l’atto di apporre la propria firma a mo’ di garanzia: la persona che viene endorsed porta sempre con sé la firma dell’endorser (come succede, oltre che per la girata di un assegno, anche, ad esempio, per gli endorsement deals per modelli particolari di chitarra recanti il nome di un chitarrista famoso). Mi sembra che i giornalisti italiani, istintivamente o per propria competenza, usino questo termine quasi sempre in un inglese corretto e, quando abbinato ai verbi dare e ricevere (cioè nella maggior parte dei casi), in un italiano che a mio avviso funziona. Non essendoci un corrispettivo italiano che funzioni altrettanto bene tra quelli proposti da Marazzini e Fanfani, ben venga il prestito.
Dunque anche sui criteri si può discutere, con risultati diversi a seconda di chi compie l’analisi, e difficilmente si può dare a queste decisioni esattezza scientifica. Quando Marazzini si chiede perché certi anglicismi ci riescano «così irritanti» (p. 49), il criterio in effetti sembra spostarsi verso il gusto, un tema importante su cui tornerò nelle conclusioni. Per quanto accattivante, il nesso causale tra l’accoglimento di prestiti stranieri e la corruzione di una lingua non è però necessariamente verificato. Un primo aspetto da considerare è la tendenza a supporre un’equivalenza tra termini autoctoni e forestierismi che, come ben sa ogni buon traduttore, non è poi così immediata come può sembrare a tutta prima. Nel prestito food, ormai stabile sulle vetrine e insegne di tanti negozi, mi pare intervengano non solo questioni di globalizzazione linguistica (sia in termini di prestigio che di comprensibilità turistica) ma anche dei processi di risemantizzazione simili a quelli che avvengono nell’inglese britannico quando si utilizzano sostantivi o aggettivi italiani invece dei loro equivalenti inglesi per indicare alimenti prelibati (come nel caso di “calamari”, squid) o sapori particolari (come nel caso di “agrodolce”, bittersweet). Ciò che viene codificato con il forestierismo non è solo il referente specifico ma anche l’esperienza del mangiare e le relative marche di autenticità e bontà, oltre evidentemente a un certo grado di prestigio.
In secondo luogo, non bisogna dare per scontato che la ricezione dei forestierismi comporti una corruzione linguistica e un conseguente deterioramento della propria identità. Proprio l’inglese è l’esempio di una lingua che per ragioni storiche e culturali ha adottato moltissimi prestiti da una grande quantità di lingue, con diversi gradi di adattamento alla morfologia dell’inglese. Analizzando un campione di 92.500 lemmi dal nuovo Oxford English Dictionary, Philip Durkin ha identificato 29.300 prestiti da altre lingue (Durkin 2014, 24), per una percentuale del 32% circa. L’italiano impatta per poco più di 750 occorrenze, ma il latino supera le 13.000 e il francese ne conta oltre 6.000. La lingua globale che Marazzini teme corrompa irrimediabilmente l’italiano con i suoi prestiti è una lingua frankensteinia (Phillipson 2009). Lo è praticamente dalla sua nascita e c’è da chiedersi se parte del suo successo come lingua globale non dipenda da questo costante fagocitare le altrui lingue brano a brano, prima ancora che dalla sua capacità di esportare i suoi frammenti lessicali. Almeno in un caso quindi un’alta tolleranza ai prestiti non ha portato alla catastrofe identitaria.
Questo esempio che ho portato non ha valore generalizzabile, ma il punto è proprio che elaborare modelli per predire il futuro di una lingua è molto difficile. Bisogna accettare che le analisi di dati non hanno un valore predittivo assoluto, specie quando i dati non sono omogenei. Si capisce dunque che, come sempre accade con le questioni difficili, i modelli si scontrano con la contraddittorietà del reale, che è sempre ricco di anomalie inspiegabili. Persino la Francia, citata come una nazione con un senso di identità linguistica così forte da essere condiviso sia da Emmanuel Macron che da Marine Le Pen (p. 44), ha gran copia di anglicismi nel suo lessico. Già dalla seconda metà degli anni sessanta, il grande comparatista e sinologo René Étiemble lamentava la tendenza dei francesi a utilizzare anglismi in luogo degli equivalenti francofoni, ascrivendo questa scelta a mero snobismo (1966, 170-171). Ancora nel 1989, un altro critico, Maurice Pergnier, constatava una crescente preferenza per i prestiti dall’inglese, addebitandola al fascino che esercitano sui francesi le parole monosillabiche di cui l’inglese è ricco (1989, 43).
Si potrebbe allora dire molto prosaicamente che l’erba del vicino è sempre più verde. Mentre Marazzini scrive che i «cedimenti» francesi sono minori dei nostri (p. 43), nel suo rapporto Dire, ne pas dire pubblicato nel 2012, l’Académie Française identificò proprio la politica linguistica dell’italiano verso gli anglicismi come un esempio da seguire in termini di efficacia:
Comment se fait-il que l’italien, langue d’un pays bien plus inféodé, politiquement, aux Etats-Unis que la France, résiste mieux aux anglicismes que le français? […] Peut-être parce que les Italiens connaissent et parlent l’anglais bien mieux que les Français. Ils n’ont donc pas ce complexe d’infériorité qui pousse les Français à compenser leur incompétence linguistique par une vassalité langagière. L’anglais, les Italiens le laissent là où il faut qu’il soit : dans la langue anglaise, et non dans des anglicismes, subterfuge bâtard propre à des ignorants. (citato in Saugera 2017, 3)
Com’è che l’italiano, lingua di un paese politicamente ben più vassallo degli Stati Uniti che la Francia, resista meglio del francese agli anglicismi? […] Forse perché gli italiani conoscono e parlano l’inglese meglio che i francesi. Non hanno dunque quel complesso di inferiorità che spinge i francesi a compensare la loro incompetenza nelle lingue con il vassallaggio linguistico. Gli italiani l’inglese lo lasciano là dove deve stare: nell’inglese, e non negli anglicismi, sotterfugio bastardo tipico degli ignoranti. (traduzione mia)
Come osserva Valérie Saugera, l’Academie Française si cura poco del comportamento linguistico reale dei parlanti francesi. Il risultato è che i tentativi di disciplinare la lingua dall’alto spesso e volentieri non hanno successo perché la maggior parte dei parlanti, di fronte alle innovazioni, ha riadattato l’uso della lingua indipendentemente dagli eventuali dettami (2017, 5). A questo aspetto accenna anche Fanfani nel già menzionato articolo apparso su «tradurre», con un appunto conclusivo che sarebbe stato bello vedere discusso più a lungo: cioè che per quanto possano essere dirompenti, gli anglicismi (come anche «il ribollire dei dialetti» e «le infrazioni della norma») sono sempre stati regolati dai parlanti «per il meglio, ovvero per la vita della lingua» (Fanfani 2020, 11).
Possiamo rivolgerci proprio all’esempio del francese per apprezzare da una prospettiva storica come i parlanti italiani siano riusciti a calibrare l’uso della propria lingua preservandone la vitalità. Il periodo a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento vede ad esempio diversi scrittori italiani diffidare del francese come lingua internazionale, come si vede da questa bella osservazione di Giacomo Leopardi:
E in genere si può dire che la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione, e tutte le nazioni una sola persona. Non c’è più vestito proprio di nessun popolo, e le mode in vece d’esser nazionali, sono europee ec.: anche la lingua oramai divien tutt’una per la gran propagazione del francese, la quale io non riprendo in quanto all’utile, ma bene in quanto al bello. (Leopardi 1969, 73)
La sensibilità pratica del Leopardi si manifesta nel suo distinguere tra l’utile e il bello: sul primo è difficile intervenire, mentre sul secondo si può se non altro dibattere. Una decina di anni prima Ugo Foscolo era stato invece categorico. Nel saggio Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, invitava i suoi lettori all’amore per la patria attraverso l’amore per la lingua in un momento colmo di sotterranei sussulti pre-risorgimentali: «amate la vostra patria, e non contaminerete con merci straniere la purità e le ricchezze e le grazie natie del nostro idioma» (Foscolo 1933, 36). In anni di poco successivi Foscolo ritradusse A Sentimental Journey di Laurence Sterne, evidentemente perché qualcosa nei concetti inglesi, specie quelli di libertà, meritava di essere reso in italiano, ma in un italiano che fosse genuinamente fiorentino (Mattana 2015).
Come sappiamo, Foscolo passò gli ultimi anni della sua vita a Londra, esule in una nazione che nel Settecento aveva ospitato molti scrittori italiani per noi importanti anche se un po’ dimenticati, i quali migravano in Inghilterra a conoscere da vicino un modello di società gentile prima e di stato nazione poi, modello che molti di loro ammiravano e speravano un giorno di poter vedere applicato in Italia. Vengono in mente, tra i tanti, Paolo Rolli, Francesco Algarotti, Vincenzo Martinelli, tutti traduttori e scrittori stabilitisi in Inghilterra per lunghi periodi, e naturalmente Giuseppe Baretti, che tante pagine della sua Frusta Letteraria dedicò a bacchettare chi scriveva con lingua vacua e astratta. Proprio il Baretti auspicava per la sua lingua un maggiore uso dei prestiti, non solo dal francese ma anche dall’inglese:
Che bella cosa, se mi venisse fatto di svegliare in qualche nostro scrittore la voglia di sapere bene anche la lingua inglese! Allora sì, che si potrebbono sperare de’ pasticci sempre più maravigliosi di vocaboli e di modi nostrani e stranieri ne’ moderni libri d’Italia! E quanto non crescerebbono questi libri di pregio, se oltre a que’ tanti francesismi di cui già riboccano, contenessero anche qualche dozzina d’anglicismi in ogni pagina. (Baretti 1839, 72).
Nell’aprirsi all’influsso internazionale, osserva Baretti, si può correggere la tendenza dei suoi contemporanei italiani a lodare quelli che sono «abusivamente» chiamati gli «scrittori de’ buoni secoli», tra cui, ad esempio, figura Pietro Bembo (Baretti 1839, 71-72).
Tutto ciò solo per osservare, senza nessuna pretesa di esaustività e a mero titolo di spunto di riflessione, una serie di sviluppi curiosi nel nostro passato linguistico: che la nostra tendenza al prestito dall’inglese ha ragioni storiche che precedono l’ascesa dell’inglese a lingua globale; che anche di fronte a un’influente lingua internazionale come il francese e i tanti prestiti verso l’italiano, non si è venuto a creare alcun “itancese”; che l’uso di termini di provenienza straniera può essere un mezzo per rivalutare una tradizione letteraria composta da autori con una sensibilità linguistica e letteraria lontana da quella contemporanea; e, perché no, che la tendenza a importare anglicismi può essere una forma di resistenza conscia o inconscia alla norma linguistica, quando questa venga reputata dai parlanti inadatta a esprimere il mondo in cui vivono (in maniera analoga a quando, nell’Italia postunitaria, l’uso degli anglicismi assunse carattere di protesta contro le forme più puristiche della lingua da parte dei «ceti più colti delle città»: De Mauro 1991, 206).
Conclusione: gusto ridondante e parole rumorose
Prestigio è forse la parola chiave de L’italiano è meraviglioso: prestigio è quello delle accademie linguistiche italiana, spagnola e francese (pp. 10-11); è il prestigio, assieme al peso numerico, a rendere l’inglese la prima lingua al mondo (p. 14); furono le regole del volgare illustre a renderlo «lingua matura» dunque passibile di un «uso prestigioso» (p. 22); ed è il «buon senso» che deve guidarci nel raggiungere «un sano equilibrio tra le reali necessità del momento e il doveroso sforzo di mantenere prestigio e funzionalità per la lingua nazionale» (p. 57). La questione della perdita di prestigio linguistico da parte dell’italiano va poi al cuore del problema: «Il problema sta proprio in questo: nella perdita di prestigio della lingua nazionale agli occhi dei giovani e delle famiglie», causata (ed è proprio questo il verbo usato da Marazzini) da iniziative come l’esclusione dell’italiano dalla scrittura di progetti di ricerca come i Prin di cui sopra (p. 84).
Le vie attraverso cui il prestigio opera sono complesse, e ho già avuto occasione di suggerire che, a mio modesto avviso, la perdita di importanza dell’italiano è più congetturata che dimostrata. Di tutto questo discorso del prestigio nel volume di Marazzini però mi colpisce particolarmente l’auspicata riconcettualizzazione della lingua italiana: la si immagina custodita e tramandata da dei sacerdoti della lingua, i quali decretano quali cambiamenti siano accettabili e quali no, ispirati dallo spirito santo del senso di identità nazionale (p. 44). Questo desiderio si evince nella frase che più di tutte nel libro esprime il progetto linguistico di Marazzini e, a giudicare dall’aggettivo possessivo, di tutta l’Accademia della Crusca: «La nostra proposta è quella di una lingua libera, sì, ma trattenuta saldamente al guinzaglio, per quanto lungo, in modo che non vada dove vuole, o dove la porterebbero i parlanti più sprovveduti, o più innovativi, o più libertari» (p. 159).
L’apparente paradosso di una lingua libera ma anche non libera, cioè col guinzaglio lungo ma trattenuta saldamente per tenerla al sicuro dai parlanti sprovveduti innovativi libertari, mi sembra che sotto sotto celi un certo elitismo della lingua. Molti passi del libro sembrano suggerire questa lettura: ad esempio quello in cui Marazzini, raccontando che è «esperienza comune dei docenti dell’Università la correzione di tesi di laurea difettose proprio per le lacune che rivelano nella conoscenza della lingua», lamenta il fatto che «[u]no studente che non sa scrivere in italiano non [venga] allontanato» (p. 121), che sia finita «l’epoca in cui si arrivava all’Università dopo un percorso in un liceo di qualità» (p. 121-122) e che la «crisi nell’uso dell’italiano» sia anche da ascrivere alla «attenzione del sistema scolastico, sia nelle scuole superiori sia nell’università, […] rivolta agli studenti peggiori» (p. 122). In questo scenario, la soluzione è « restituire agli italiani il senso critico che permetta loro di guardare ai difetti della scrittura come a una deviazione disdicevole» (p. 159). Per raggiungere questo obiettivo, si legge nel capitoletto intitolato Chi comanda la lingua (pp. 105-129), si propone di ritornare alla «lunga tradizione italiana [che] ha elaborato regole largamente condivise, accordando piena fiducia agli scriventi colti», gli scriventi «che contavano»: e da qui si ritorna al «prestigio» di chi custodisce «la tradizione della lingua d’Italia», cioè la Crusca stessa (p. 105).
Questo interventismo illuminato mi pare poggi su una lettura arbitraria della situazione dell’italiano, una lingua che purtroppo molti dei nostri parlanti conoscono in maniera non soddisfacente. In attesa del secondo giro di rilevazioni previsto per il 2022-2023, il famoso rapporto del 2014 del Programme for the International Assessment of Adult Competencies (Piaac) dell’Ocse, citato da Marazzini (pp. 128–130) e già oggetto di preoccupate disanime da parte di Pellizzari e Fichen (2013) e di De Mauro (in un seminario del 2014), sottolinea come il grado di alfabetizzazione in Italia sia molto basso rispetto alla media Ocse: a seconda del tipo di rilevazione adottato, l’italiano risulta diciassettesimo su ventuno paesi (indagine Ials), ultimo su ventuno paesi dell’Unione Europea (indagine Piaac) e penultimo sugli undici paesi rilevati nell’indagine All (Gruppo di lavoro Piaac 2014, 242). Questi sono dati assolutamente preoccupanti. È però fuorviante presentare tali dati nello stesso paragrafo in cui si trovano, nell’ordine, la denuncia contro i molti industriali e politici che considerano l’italiano «meno importante» dell’inglese, il già citato passo sull’università e la scuola che si ostinano a formare gli studenti scarsi e la «sciatteria» dei mezzi della comunicazione, quest’ultima suffragata da un repertorio di solecismi fatti in diretta radiofonica o televisiva che, ammette Marazzini stesso, potrebbero essere nient’altro che lapsus (p. 126). I due fenomeni (la trascuratezza di alcuni parlanti e gli impietosi dati di alfabetizzazione) sono incommensurabili tra loro, ma a unirli si suggerisce che la lingua migliori con una maggiore applicazione dei parlanti nel non fare errori e rispettare la tradizione, e non tramite investimenti e riforme strutturali dei diversi livelli della pubblica istruzione e dell’università.
Verso la fine del volume questi giudizi sono stemperati da osservazioni linguistiche più caute, come quando, nella discussione sull’inflessione di genere femminile per le cariche politiche come sindaca, assessora o ministra, si afferma che bisogna rassegnarci alle oscillazioni linguistiche, poiché i «giudizi sul “bello” o “brutto” […] spesso evocati per giustificare una determinata scelta, sono soggettivi e scientificamente nulli» (p. 212). Ed è qui che vediamo all’opera una transizione verso l’asse bello-brutto, forse l’unico possibile nel momento in cui si riscontra che l’uso linguistico è scarsamente controllabile. Viene in mente Claude Hagège, il famoso linguista del Collège de France citato da Fanfani e spesso ripreso dai media per le sue battaglie contro gli anglismi, quando dice che [l]’anglais est une langue très laide à mon oreille, cioè «al mio orecchio l’inglese è una lingua molto brutta» (Simonin, Hagège 2009; traduzione mia). I giudizi di gusto sono leciti, più che leciti, e formare il gusto dei parlanti è forse l’unica chiave attraverso cui si può realmente influenzare la lingua. Come Leopardi suggeriva nella frase dallo Zibaldone riportata sopra, di fronte a una lingua globale come il francese si può dibattere sul gusto ma non sull’utilità: e come ci ricorda De Mauro, è proprio il gusto che secondo Leopardi avrebbe dovuto «tenere lontani gli scrittori dall’uso eccessivo di parole esotiche» (Di Mauro 1991, 9).
Orientarci sul versante del gusto ci permette di uscire dall’idea che la tradizione è un monolite e guardare alle «disdicevoli deviazioni», siano essi solecismi, regionalismi o anglicismi, come portatrici di informazione linguistica. Anna Maria Testa, citando la teoria dell’informazione di Claude Shannon, associa gli anglicismi inutili al rumore (noise, nella formulazione originale di Shannon), cioè a «un puro disturbo della comunicazione» (in Zoppetti 2017, iii). La formulazione è incompleta e rivederla ci può dire qualcosa di interessante sulle lingue: secondo Shannon, tanto più ridondante è un dato segnale (cioè tanto più è semplice, poiché gli stessi elementi si ripetono al suo interno per prevenire la perdita di segnale), tanto più è facile che questo giunga al destinatario nella sua interezza. Il rumore che interviene durante la trasmissione è tutto ciò di non pianificato che interviene dall’esterno sul segnale e lo modifica. Gli effetti sono due: diminuisce la comunicabilità (intesa come la possibilità di una decodifica non ambigua del segnale) ma, allo stesso tempo, aumenta la complessità del segnale, poiché questo è divenuto meno prevedibile. Il risultato del rumore è un segnale che porta con sé meno ridondanza e più informazione. Questa non è altro che quella che Shannon chiama entropia: cioè, nella sua formulazione matematica, l’ammontare di informazione attesa (Shannon, Weaver 1949). Il massimo della ridondanza è quando niente viene lasciato al caso: in una moneta che abbia testa su ambo le facce sappiamo già il risultato prima ancora di lanciare, e dunque l’informazione diventa zero.
L’italiano, come qualsiasi lingua o altro sistema di comunicazione, oscilla continuamente tra ridondanza e informazione. In questo senso, l’uso degli esotismi (come appunto quello dei neologismi, i regionalismi e le infrazioni della norma) non va condannato a priori ma visto negli effetti che genera in termini di ridondanza e informazione. Semplificando molto, nel momento in cui dei nuovi anglicismi vanno ad affiancarsi alle forme stabilite, la lingua aumenta la sua informazione totale, producendo maggiore imprevedibilità al prezzo di una diminuzione della comprensibilità generale. Le alternative italiane che si cerca di proporre contribuiscono ad aumentare l’informazione quando affiancano una forma importata usata in eccesso. Difatti, nel momento in cui un anglicismo sostituisce interamente una forma già stabilita, si è invece persa informazione e creata ridondanza. Anche la norma linguistica, così come il gusto, genera ridondanza: entrambi i concetti poggiano sulla fiducia che un dato messaggio sia conforme alle nostre aspettative. Evadere la norma ed evadere il gusto significa dunque creare informazione, naturalmente con il rischio (concreto) di diminuire la comunicazione. Mi piace pensare che fuori dalle discussioni accademiche, i parlanti calibrino questi complessi meccanismi da sé, forse senza accorgersene ma anche senza sforzo, stabilendo quando aumentare l’informazione e quando incrementare la ridondanza.
Facile a dirsi, ma il gusto e la norma intervengono automaticamente a valutare cosa è bene e cosa no in una lingua, cioè a esigere ridondanza affinché un dato messaggio sia conforme alle nostre aspettative. Nel leggere su repubblica.it un articolo non firmato a proposito di un passeggero trovato positivo al test antigenico per il Covid-19 nell’aeroporto di Milano Linate poco prima del decollo del suo volo, mi sono imbattuto in questo brutto periodo (plagiato paro paro dal sito dell’Aeroporto Internazionale di Malpensa):
Nell’aeroporto di Milano Linate, il test antigenico, realizzato in collaborazione con la Regione Lombardia, viene effettuato presso il presidio sanitario “Box Area Test Covid-19” presente al Piano Partenze, Zona Check-In, Porta 2, Area 1, presentandosi con 90 minuti di anticipo rispetto all’orario di partenza schedulato. (Repubblica 2020)
Ci sarebbero tante cose da notare: il «Box Area Test Covid-19», il «Check-In», la «Porta 2» (invece di gate!). Ma naturalmente l’occhio salta subito a quel «schedulato», che ricorda to schedule e, devo ammetterlo, mi ha fatto istintivamente storcere il naso: l’ennesimo esempio di lassismo nel linguaggio giornalistico. Ho però cercato sul vocabolario Treccani e ho scoperto che «schedulare» è un verbo non comune utilizzato nel campo dei trasporti, specie in quello aeronautico: significa organizzare la schedula del viaggio. Il verbo è dunque una derivazione di «schedula», cioè la tabella degli orari degli scali che un aereo deve compiere, e il sostantivo – se non erro – è cognato dell’inglese flight schedule. Trovo accattivante l’adattamento morfologico di questa espressione tipica dell’airspeak (cioè quella varietà dell’inglese utilizzata da tutti coloro che sono coinvolti in attività aeronautiche a prescindere dalla propria nazionalità), grazie al quale «schedula» ha preso un suono vagamente latino. E in effetti scedula (o schedula in latino medievale) era proprio parola latina: era il diminutivo di sceda e significava foglietto di carta. A noi è rimasto naturalmente «scheda», ma il suo diminutivo in -ula non mi risulta si sia attestato. Dal latino medievale è però entrato nell’inglese per indicare o un foglietto di accompagnamento o un’appendice a una legge parlamentare. Questo all’incirca alla fine del Quattrocento: poi, dal periodo elisabettiano in su, schedule stette a significare qualsiasi elenco ufficiale, assumendo infine, poco dopo la metà dell’Ottocento, il significato di «programma» che ha tuttora, e il relativo verbo to schedule emerse nello stesso periodo. Noi in italiano abbiamo già «programmare», che funziona benissimo nonostante l’etimologia diversa e più nobile. Dunque, tenerlo o non tenerlo? Se mi sforzo di superare la reazione istintiva che ho avuto verso «schedulato», reazione certamente mediata dal gusto che ho formato negli anni con le mie letture, forse può anche aggradarmi l’idea di avere degli incontri «schedulati» in agenda. Chissà che fra trecento anni (o anche prima, molto prima), quando certo il gusto per la lingua sarà mutato, «schedulare» non sia destinato a diventare il termine comune e «programmare» un sinonimo raro da usare quando si voglia alzare il registro: forse i nostri pronipoti sorrideranno nel leggere, in un articolo come questo, dei loro avi irritati per la somiglianza di «schedulare» con un verbo, a quel punto magari estintosi, proveniente da una lingua che un tempo era stata globale e che col passare dei secoli venne parlata soltanto dai suoi parlanti madrelingua.
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