di Giulio Sanseverino e Marina Di Leo, autori di David Lopez, Il feudo, Palermo, Sellerio, 2019 (da David Lopez, Fief, Seuil, Parigi 2017)
Accedere al feudo dalle pagine di Il feudo significa ritrovarsi in una piccola città tra periferia e campagna, né adulti né ragazzini, né «fighetti delle case bene, ma neppure feccia dei quartieri bassi», a fumare canne, bere, giocare a carte, prendersi in giro; per la gioia di annoiarsi, senza mai annoiarsi davvero. E soprattutto significa addentrarsi in una lingua ritmica, sfuggente e proteiforme, qual è il parlato giovanile.
«Come parlano i giovani italiani di oggi?» ci siamo chiesti. E subito dopo: «Quali giovani? Dove?». Non volevamo perdere la carica espressiva di una lingua così autentica come quella sapientemente restituita da Lopez, ma neppure ridurre i personaggi a macchiette da banlieue ricorrendo a modi di dire già superati o, viceversa, troppo recenti e quindi a rischio di rapida estinzione. L’unica scelta possibile ci è parsa allora quella di affidarci alla lingua viva, nostra e altrui, sfruttando appieno le risorse della rete e chiedendo pareri a persone di varia età e provenienza. Frammentario com’è il panorama linguistico italiano, abbiamo dunque cercato di convergere su una sorta di koiné giovane, attingendo a regionalismi ormai abbastanza diffusi da suonare comprensibili all’orecchio del lettore medio. Così, ad esempio, là aussi sec diventa «tempo niente», un mec pas très commode è «un tipo non tanto sciallo» e i ragazzi stanno «in para» che uno di loro si faccia «sgamare».
Questo principio ha guidato anche altri aspetti della traduzione, come la scelta finale, a lungo ponderata, di non tradurre i soprannomi dei personaggi, tranne uno, che sarebbe rimasto impenetrabile alla maggior parte degli italiani: Lahuiss, verlan, cioè inversione sillabica, di çelui-là («quello là»), un personaggio duplice, a metà tra il feudo della combriccola di Jonas e frequentazioni più altolocate. Non potendo riproporre l’inversione sillabica, né volendoci accontentare di un improbabile Tizio o Caio, abbiamo optato per «Truc», soprannome che, pescando nell’ampio bacino semantico del termine francese, mantiene la genericità di «coso» e, rievocando l’equivalente l’italiano «trucco», ne suggerisce il carattere di doppiezza.
Insomma, un po’ come negli incontri di pugilato che puntellano la narrazione del protagonista Jonas, affrontare la traduzione di Fief ha richiesto parecchio fiato e continui aggiustamenti di tiro, nonché allenamento per spostarci con scioltezza da un registro all’altro, assecondarne l’oralità, schivare la punteggiatura tradizionale (quasi inesistente, nei dialoghi), pronti a piegarci a uno stile asciutto, rifinito per sottrazione, senza esasperare la stereotipia delle espressioni da gang né smorzarne la carica di testosterone.
Allo stesso tempo occorreva rimanere minuziosi e precisi nella scelta dei traducenti, in particolare quando si entrava nelle sfere di competenza dei protagonisti, come il fumo, il rap, la boxe. E se non stupisce che Jonas padroneggi appieno la terminologia da palestra, nominando con appropriatezza esercizi e muscoli, più spiazzante è ritrovare il medesimo lessico nella descrizione di un rapporto sessuale: un passaggio, quest’ultimo, tra i più impervi da tradurre, costretti com’eravamo a tenerci nel solco ristretto di pochi lemmi asettici, quasi da manuale di anatomia, rinunciando in partenza al consueto repertorio di termini erotici o volgari.
Di contro, però, bisognava essere pronti a indietreggiare allargando la visuale ogni qualvolta la narrazione usciva dal perimetro del feudo, più mentale che fisico, della «banda di zulu». Jonas, infatti, sceso dal ring o dal letto, si esprime in modo vago, vuoi poetico, vuoi infantile: le sue rane cantano, invece di gracidare, e le infiorescenze del canneto diventano fiori. È da particolari così che vengono fuori le sfaccettature di un personaggio, ed è da questo, ci siamo detti, che si giudica la tenuta di una traduzione.