di Fabrizio Grillenzoni
Ho cominciato con una Lettera 22 (quella della foto di Montanelli, ritornata prepotentemente in auge negli ultimi tempi), ho continuato con una Lettera 44 (quella che ha dato il nome al monumento a Vittorio Emanuele III a Roma), poi, precursore, sono passato a un Commodore 64 (caratteri verdi, stampante a nastro continuo, bordi da staccare). Insomma un po’ da lontano vengo. Ho smesso per quasi vent’anni, preso da altro.
No, per la verità non ho proprio smesso, perché alla soglia degli anni ottanta sono entrato nelle istituzioni europee come traduttore. E questo vale una piccola premessa, chissà pertinente in fatto di traduzione non letteraria. In quegli anni della Europa felix appena più ampia di quella carolingia vigeva il diritto alla propria lingua. Non esistevano le lingue veicolari o le lingue di lavoro (oggi inglese, francese e tedesco) e ogni documento doveva essere fornito in tutte le lingue ufficiali, perché tutti, funzionari, parlamentari e anche destinatari nazionali dei documenti potessero leggerli e commentarli nella propria lingua. Il lavoro del traduttore su testi per lo più legislativi, pieni di «visti» e «considerati», non era certo entusiasmante, ma faceva parte di un sistema di diritto linguistico che in qualche modo meritava una riflessione: andava a favore della Babele, eretta a valore. Il traduttore poteva sentirsi il tramite di questo sistema e della realizzazione di quel valore. Oltre a dover conoscere soprattutto il sistema giuridico del proprio paese e la terminologia della propria lingua. Si può dire allora, parlando di traduzione in generale, che ci si addentra su un terreno di diritto culturale? Ho il dovere di conoscere le lingue o anche il diritto di accesso a testi prodotti in lingue diverse dalle mie? Il traduttore è un semplice operatore culturale o anche il tramite della realizzazione di un diritto anche se non scritto? E chi decide cosa deve essere tradotto? Cioè chi decide a quali testi ho accesso nella mia lingua? Domande che forse meriterebbero un tentativo di risposta. Comunque ho rapidamente abbandonato la traduzione comunitaria per occuparmi d’altro. Fortunatamente, mentre le lingue comunitarie si moltiplicavano e per tutta risposta i testi in tutte le lingue si riducevano, e cominciavano i primi esperimenti di traduzione automatica. Ho frequentato il Sistran: faceva piuttosto pena, meglio di molto l’attuale deprecato Google.
Ho ricominciato nel nuovo millennio. I titoli, dall’inizio, li arrotondo a cento, valli a contare con precisione.
Niente di letterario, sola eccezione Fuori le mura (Editori Riuniti 1973, dal francese Hors les murs, 1970), una raccolta di racconti e articoli di Vassilis Vassilikos, l’autore di Zeta, amico fraterno e compagno di lotte di Grigoris Lambrakis, lungamente esule durante la dittatura del colonnelli in Grecia. Scritti poetici e analisi penetranti, il tutto impreziosito da una prefazione di Italo Calvino (oddio, l’avevo dimenticato), testimonianza di apprezzamento letterario, di amicizia e di solidarietà.
Saggi, di tutti i tipi. Comincio, insieme con Silvia Calamandrei, con La politica dell’escalation nel Vietnam, Il Saggiatore, 1967 (The Politics of Escalation in Vietnam, di Franz Shurmann, Peter Scott e Reginald Zelnik, 1966), finisco, per ora chissà, con Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, di Serge Latouche, Bollati Boringhieri, 2020 (Comment réenchanter le monde, 2019). Nel mezzo, economia, sociologia, antropologia, analisi politiche, poca filosofia, e storia: uno per tutti La caduta della Francia di William Shirer, Einaudi 1971 (The Collapse of the Third Republic. An inquiry into the fall of France in 1940, 1970), anche in questa occasione con Silvia Calamandrei, oltre a Luciana Pecchioli. Per maggiori dettagli, se venisse la curiosità, può aiutare l’Opac del Sistema bibliotecario nazionale.
Intanto due parole sulla frustrazione del traduttore non letterario. Episodio: reduce da due traduzioni per Laterza, vengo invitato a una tavola rotonda in casa editrice sulla traduzione, e non passano dieci minuti che mi sento di troppo. Tutti letterati, traduttori di poesia, alle prese con giganti della letteratura mondiale. Mi faccio piccolo e alla prima occasione me la svigno. La mia, di traduzione, proprio non ha cittadinanza, l’invito deve essere stata una svista. Intendiamoci, frustrazione senz’altro, ma acrimonia neanche un po’. Nelle tre lingue che credo di conoscere abbastanza bene leggo letteratura in versione originale, e penso assai spesso all’impresa dei traduttori, un lavoro impervio, se non estenuante, attento necessariamente allo stile, alle prese con idiomi, livelli linguistici, dialoghi, descrizioni. E per le lingue che non conosco, mettiamo il giapponese, della cui letteratura sono un amante, mi capita spesso di apprezzare, ancorché alla cieca riguardo all’originale, la qualità delle traduzioni. Non li conosco, ma Giorgio Amitrano e Antonietta Pastore hanno fatto un lavoro di qualità eccezionale sul mio amatissimo Murakami. Insomma quella del traduttore letterario è una figura professionale che apprezzo e ammiro.
Poi entriamo in una libreria, una di quelle che sopravvivono, una di quelle sterminate, e superata la prima parte dell’offerta letteraria ce ne andiamo al reparto saggistica. Gli scaffali sono pieni, ben ordinati per argomento, e i titoli di autori stranieri sono un’immensità. Non sarà che il traduttore di saggistica rende un qualche servizio?
Chi è questo essere che riceve un testo in una lingua diversa dall’italiano, mettiamo Teoria e pratica della non violenza, un’antologia di scritti di Gandhi (lavoro più che complesso del 1973 per Einaudi, ancora in tandem con Silvia), e lo restituisce dopo qualche mese in italiano? Come affronta le pagine? Che cosa deve sapere dell’argomento? Come deve rimediare a quel che non sa? Dove deve andare a cercare le notizie, i documenti che sono necessari a una buona comprensione del testo? Come reperire le fonti citate? Come inquadrare il contenuto nel periodo in cui è stato prodotto? Come rendere la terminologia della teoria gandhiana? Rispondi a queste domande e viene fuori la figura del traduttore di saggistica. Come definirla questa figura? Operatore linguistico-culturale? E che qualità deve presumere di avere? Prima, senz’altro, una buona/ottima conoscenza della lingua di partenza. Secondo, la capacità di percepire il livello linguistico dell’autore per cercare di renderlo al meglio. Terzo, conoscere sia pur in modo non approfondito l’argomento in questione. Quarto, una familiarità con l’esercizio di ricerca, in biblioteche o in rete. Quinto, essenziale, avere una rete di supporto, in chiaro: amici e conoscenti in grado e disposti a sciogliere dubbi.
Affrontare le pagine. Preferibile non leggere l’intero testo. Scorrerlo sì. Assorbirne il contenuto. Estrarne il filo del discorso. Misurarsi mentalmente con la/le tesi sostenute. Riflettere sullo stile. Sul livello linguistico. Immaginare una resa che lo rispecchi. Scegliere un tono. Prendere un periodo, mettere giù o immaginare il periodo italiano. Riflettere sulla lunghezza dei periodi, scegliere nel caso una strategia di separazione, di raccordo. Insomma capire con chi si ha a che fare. E cominciare.
Conoscere l’argomento. Se si è degli specialisti, diciamo di economia, nessun problema, si traduce di economia. Un problema però c’è e come. In nessun campo si traduce abbastanza da offrire al traduttore di che mettere insieme il pranzo con la cena. Allora si traduce di tanto in tanto, ed è consigliabile, molto consigliabile, fare anche un altro mestiere, magari quello di professore di economia, e tutto va bene. Ma se di mestiere si fa il traduttore, gli argomenti ti vengono dalle case editrici, certo compatibilmente con il tuo profilo generale. Allora devi fare i conti con la disciplina, rispolverare gli studi, tirare giù qualche libro dagli scaffali. Ne vengono fuori, prima, insieme con Carlo Argenti, Storia del pensiero economico di Maurice Dobb, Editori Riuniti, 1974 (Theories of Value and Distribution since Adam Smith, 1973), e poi, saltando al terzo millennio, L’invenzione dell’economia di Serge Latouche, Bollati Boringhieri, 2010 (L’invention de l’économie, 2005). Ti rifamiliarizzi con i classici, da Aristotele al precapitalismo a Smith a Marx alla modernità. E se hai qualche dubbio un buon amico specialista c’è sempre: peccato che al povero traduttore i ringraziamenti siano negati. Approfitto dell’ospitalità: la filosofia non è decisamente la mia, di disciplina, e il caro amico filosofo che ha riletto Gli universali di Étienne Balibar, Bollati Boringhieri, 2018 (Des universels, 2016), lo voglio proprio ringraziare, anche se anonimamente. Mi ha detto che in fin dei conti non avevo fatto male, e una pizza gli è bastata. E via rispolverando. Il divertentissimo Anni ’70, la musica, le idee, i miti, di Howard Sounes, Laterza 2007 (Seventies. The Sights, Sounds and Ideas of a Brilliant Decade, 2006) ha voluto dire riguardarsi film per verificare il doppiaggio, da Cinque pezzi facili a Ultimo tango a Parigi a Lo squalo a Mean Streets a Brian di Nazareth. E riprendere in mano Hunter S. Thompson, Norman Mailer e il new journalism, John Updike e il suo Coniglio, Frederick Forsyth e Mario Puzo. E imparare la storia della costruzione delle Torri Gemelle e dell’Opera House di Sidney. E risognare l’epopea di Woodstock. Il bambino di Varsavia, di Frédéric Rousseau, Laterza 2011 (L’enfant juif de Varsovie, 2009) ha sollecitato la memoria della barbarie e fatto riflettere sulla potenza dell’immagine, attraverso le righe, tra gli altri, di Susan Sontag. Il traduttore scopre che l’immagine del bambino sta in un album allegato al rapporto del generale delle SS Jürgen Stroop, comandante della piazza di Varsavia, ai suoi superiori per illustrare la distruzione del ghetto e la deportazione degli abitanti. Immagini agghiaccianti, tanto più agghiaccianti in quanto qualcuno se ne faceva vanto. Per la sua impresa Stroop ebbe una promozione. Un caso in cui il traduttore si sente utile, mette a disposizione una documentazione di qualcosa di cui la memoria non va perduta. E si rifiuta di citare la fonte esecrabile della copia dell’album trovata in rete. Si può fare la cosa giusta anche traducendo. Anche due graphic novel, per non farsi mancare proprio nulla. Studenti contro il potere,di Pekar Harvey, Bhule Paul e Dumm Gary (Alet Edizioni 2008: Students for a Democratic Society, 2008): Berkeley, la musica country, l’SDS, i Weathermen undergroud: ripercorrere, ridocumentarsi su una bella stagione della propria vita. E Il dopo 9/11. La guerra al terrore, di Sid Jacobson e Ernie Colón, ancora per Alet, 2008 (After 9/11. America’s War on Terror, 2008): l’aggressione all’Iraq, le menzogne sulle armi di distruzione di massa, la carneficina, un’altra pagina da riaprire. Con in più un divertente esercizio, il testo deve entrare nelle nuvolette. E l’idea che forse il formato incoraggia la lettura dei giovani, forse.
Una delle ultime fatiche Quel che resta di Baudrillard, di Serge Latouche (Remember Baudrillard, 2019), in corso di pubblicazione da Bollati Boringhieri. Stavolta è la Francia della seconda parte del Novecento: Foucault, Lacan, Barthes, Derrida, Jarry con la sua Patafisica che affascina anche il nostro Eco, e ovviamente il protagonista Baudrillard, la società dei consumi e la teoria del simulacro, l’America dei deserti, la fotografia, lo scandalo dell’elogio della caduta delle Torri Gemelle. Riguardare, ripassare, grande interesse, chissà traduzione accettabile, un po’ di falsa modestia non fa mai male.
Un piccolo discorso a parte per Serge Latouche, inventore e teorico della decrescita frugale e felice. Di suoi libri ne ho tradotti una decina, siamo diventati amici, l’ho ospitato in campagna, ho presentato con lui un suo libro, Usa e getta, Bollati Boringhieri 2013 (Bon pour la casse, 2012), in un parco ecologico. Mi fregio – è sua l’investitura – del titolo di suo «traditore ufficiale». Unico caso in cui l’Autore si è materializzato (ho anche una foto insieme nel mio studio, lui in poltrona, è ben l’Autore, e io al sudato computer), con cui c’è stato riscontro, discussione, conclusioni comuni. Un’esperienza rara, spesso invano desiderata in altri casi. Ma c’è di più. L’«utopia concreta » della decrescita mi ha felicemente obbligato a frequentare un universo teorico fin lì a me sconosciuto, necessario per mandare in porto la traduzione. La convivialità di Ivan Illich, la Grande trasformazione di Polanyi, e poi Castoriadis, Anders, Ellul, Gorz, Panikkar e tutti gli autori che Serge definisce «precursori» della decrescita, un filone intellettuale controcorrente rispetto all’ideologia mainstream novecentesca, come pure all’economicismo socialista/comunista. Un viaggio intellettuale di traduttore/divulgatore. Gliene sono grato, spero valga lo stesso per i lettori.
Fin qui a memoria.
Le fonti. Già, le fonti. Per il traduttore di saggistica le fonti sono un caso tipico di amore/odio. Amore, perché un testo ben corredato di fonti, ricco di note, vale quasi sempre la pena della traduzione, difficile che sia un lavoro tirato via. Allora è incoraggiante mettersi all’opera. Anche odio però. Perché ogni riferimento, ogni nota, fanno sentire il traduttore come lo studente davanti all’odiato professore che esamina: bello sforzo, tu la risposta (il riferimento) la sai, dato che hai fatto la domanda, ma io, io ora dove me la vado a cercare la citazione? Una nota, lo sanno tutti, è fatta così: c’è un autore, quello citato, un titolo, una edizione, un numero di pagina. Mettiamo: Platone, Il Simposio, ed. tale (quella inglese, mettiamo), p. tale. Facile no? Esempio fatto non a caso: il buon Platone, e i suoi eredi, non godono più dei diritti d’autore (ci mancherebbe, anche 70 anni mi sembrano un’enormità) e dunque qualche meritevole ha messo la sua opera in rete. Dunque niente di più facile, si va in SMR (Santa Madre Rete), si scatena il segugio search, e il testo ricercato ti viene incontro. Ma attenzione: il nostro Platone, e con lui centinaia di classici, fa parte degli intraducibili; ovverosia: chi sei tu per azzardarti a ritradurre dall’inglese o dal francese, un testo del grande discepolo di Socrate? Ma non solo: tu non sei degno, questo è chiaro, e quando va bene di traduzione degna ce n’è una sola; o peggio se ce sono più d’una, perché tocca prendere posizione, magari tra due scuole di pensiero. Il freudiano Wo es war soll ich werden, ad esempio, ha avuto diverse traduzioni, quale scegliere? Mi è capitato di propendere per Dove era l’es deve subentrare l’io, ma solo perché Cesare Musatti era l’autorità da me più riverita. Insomma in casi come questi SMR semplifica, aiuta, ma fin a un certo punto.
Resta la domanda: come si faceva quando non c’era? Francamente rispondo boh, non ricordo, sembra impossibile. Un ricordo però ce l’ho, per quanto nebuloso. Paul Éluard, Antologia degli scritti sull’arte, Editori Riuniti 1973. Ricostruisco un elenco parziale di intraducibili: Aristotele, Boccaccio, Cellini, Dante, Engels, Ficino, Ghiberti, Leonardo, Michelangelo, Platone, Plinio il Giovane, Socrate, Stalin, Vasari. In questo caso l’autore aveva pensato bene di non mettere note, forse per non guastare l’eleganza dell’opera, o forse (cosa meno probabile, ma un po’ di egocentrismo…) per fare un dispetto a me. Invece nessun dispetto, il mese e passa dalla mattina alla sera ficcato alla Biblioteca di Storia dell’arte di Piazza Venezia è un ricordo tutt’altro che spiacevole, anche se, veramente, come uscirono fuori i testi non lo ricordo. Uno dei rarissimi casi in cui l’orribile espressione «Tempi eroici!» sembra pertinente. Ma anche se le note ci sono non si scherza. Martin Jay, Le virtù della menzogna, Bollati Boringhieri 2014 (The Virtues of Mendacity, 2010), ottimo saggio di filosofia politica attorno alla nozione di menzogna. Un poco di numeri: pagine 255, note 668, e non è un record, garantisco. Una cavalcata di grande interesse dai greci a George Bush jr, passando per Agostino e Kant, tanto per semplificare. Ancora una Biblioteca, stavolta la Nazionale, e una dolcissima amica dirigente che mi fornisce pile di libri a dispetto di tutte le regole. Altrimenti sarei ancora lì. Grazie di cuore anche a lei. C’è poi la religione seguita dalle diverse case editrici. C’è la religione della tolleranza, che insegna che per intraducibili si deve intendere i classici, i grandi classici, per i quali esistono traduzioni consacrate che non possono non essere reperite e riproposte. Per il resto dei testi citati, beh, veda un po’ il traduttore. Ma si sa, la tolleranza è merce rara, e le case più numerose seguono la religione fondamentalista: tutto il già tradotto non si ritraduce, si riprendono i testi pubblicati. E la pila in biblioteca diventa sempre più alta, e i ringraziamenti all’amica sempre più sentiti. Come anche al direttore della Biblioteca del rifugio di campagna, genio del prestito interbibliotecario.
La storia. Tradurre storia è un percorso simile a quello descritto: documentarsi sul periodo in questione, prendere i riferimenti più importanti, fornirsi di bibliografia. E soprattutto fare attenzione al lettore a cui il testo è destinato, perché ne va del livello linguistico che si sceglie. Due esempi: i manualetti di Trevor Cairns nella collana «Introduction to the History of Mankind» della Cambridge University Press per le scuole, Editori Riuniti 1978 (Alle origini della Storia, I Romani e il loro impero, Barbari cristiani musulmani, Il Medioevo, L’Europa scopre il mondo) e Il mestiere di cittadino nell’antica Roma, di Claude Nicolet, Editori Riuniti 1980 (Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, 1976). I primi, librini con tanto di illustrazioni, destinati alle scuole: allora linguaggio semplice, frasi corte, magari con qualche forzatura sull’originale. Insomma immaginare di parlare a una classe, tenere viva l’attenzione, interessare. Traduttore/educatore in questo caso, ben diverso da quello benjaminiano. Il secondo, ponderoso saggio di un’autorità della materia, che scandaglia la partecipazione del comune cittadino romano alla politica, con riferimenti a testi storici, letterari, epigrafici, giuridici, archeologici. Tutt’altro compito per il traduttore: molto studio, piacere della riscoperta del proprio latino, linguaggio adeguato al livello dell’analisi, magari con qualche compiacimento aulico, soprattutto tante verifiche. Una cara amica ex professoressa mi ha da poco sorpreso dicendomi che quei librini li aveva adottati, altro che verifica di vendite. E ho anche scoperto che gli Editori Riuniti esistono ancora, perché a distanza di più di trent’anni il Nicolet è stato ristampato: meraviglia contrattuale, il traduttore ha diritto a un emolumento se la ristampa è dopo vent’anni, prima mi era successo solo con il Gandhi di Einaudi. Lo Shirer, La caduta della Francia, già citato, grosso tomo tradotto per Einaudi a sei mani, fu in fin dei conti più agevole, storia recente, relativa dimestichezza universitaria. E comunque esercizio riguardo ai dettagli della storia militare, delle polemiche sulla necessaria ristrutturazione delle forze armate francesi dopo la prima guerra mondiale, del ruolo del primo de Gaulle sostenitore delle forze corazzate e dell’aviazione. E anche qui ricerche e ripassi.
Conclusione. Ritornando all’inizio. Pur decisamente negletti rispetto ai colleghi letterati, bando alle frustrazioni. E’ vero, quando dici «Faccio il traduttore» ti chiedono subito che romanzi hai tradotto, e al tuo «No, faccio saggistica» la risposta è «Ah», e il discorso finisce lì. Ma è vero che la vera traduzione è quella letteraria, e che il traduttore di saggistica è piuttosto un «compilatore», come due care amiche mi hanno voluto far osservare? Sinceramente, mi sono innervosito. La differenza tra i due lavori è evidente. Ma qualche rassomiglianza c’è, si voglia o no. Vedo male un letterario che traduce un romanzo russo senza conoscere la Russia, la letteratura e la cultura russe, come vedo male un saggistico digiuno di antropologia che affronta il testo di un antropologo come il grande Marc Augé (Straniero a me stesso, Bollati Boringhieri 2011: La vie en double, 2011): per una volta ho l’orgoglio di una dedica. E poi c’è l’esercizio linguistico. Quanti romanzieri scrivono di argomenti del massimo interesse con una lingua, un flusso narrativo che lasciano a desiderare? E quante autorità specialistiche scrivono in una lingua farraginosa? E in un caso come nell’altro entra in ballo la natura di traditore del traduttore. “Tirare su” un testo? Spezzare periodi? Pensare al lettore? Pensare a se stessi? Cari letterati, i dilemmi sono gli stessi. Magari mi si riproporranno nel centunesimo titolo.
Infine, a titolo di riflessione teorica sul nostro argomento, offro al lettore – ovviamente nella mia traduzione (chi vuole troverà i testi originali più sotto) – due passi dal già citato volume di Étienne Balibar Gli universali, nell’eloquente sottotitolo Le lingue si parlano:
l’attività di traduzione in realtà è piuttosto una combinazione paradossale di appropriazione e di spoliazione, o di spossessamento […] Ciò non è imputabile ai limiti personali dei traduttori (anche se a volte sono eclatanti: ma fondamentalmente nessun traduttore è mai all’altezza del suo compito, i più grandi lo sanno perfettamente), bensì alle impossibilità e alle disuguaglianze che sono strutturalmente inscritte nel rapporto tra le lingue, e che tuttavia forniscono al tempo stesso la motivazione e la risorsa della traduzione.
E più oltre:
Ma si potrebbe anche dire: nella pratica della traduzione i soggetti fanno contemporaneamente, e contraddittoriamente, l’esperienza dei vincoli semantici e sintattici che non possono trasgredire a piacere [ …] e l’esperienza delle libertà che si possono e debbono prendere, ispirandosi ad un idioma particolare, per trasferirlo in un altro e, nel caso (come spiegava Benjamin nel Compito del traduttore del 1923), per trasformare poeticamente una lingua data in modo che possa ricevere i significati di un’altra. (pp. 153 e 154)
l’activité de traduction est bien plutôt une combinaison paradoxale d’appropriation et de dépossession, ou de dessaisissement […] Cela ne tient pas aux insuffisances personnelles des traducteurs (même si elles sont parfois criantes : mais fondamentalement aucun traducteur n’est jamais « égal » à sa tâche, les plus grands le savent parfaitement), mais aux impossibilités et aux inégalités qui sont structurellement inscrites dans le rapport des langues entre elles, et qui pourtant fournissent à la fois le mobile et la ressource de la traduction. (Étienne Balibar, Des Universels. Essais et conférences, Paris, Éditions Galilée, 2016, pp. 174-175)
Mais on pourrait dire aussi: dans la pratique de la traduction, les sujets font à la fois, contradictoirement, l’expérience des contraintes de signification et de syntaxe qu’ils ne peuvent transgresser “ à volonté ” […] et l’expérience des libertés qu’on peut et qu’on doit prendre, en s’inspirant d’un idiome particulier, pour le transférer dans un autre et, le cas échéant (comme l’avait expliqué Benjamin dans « La tâche du traducteur » de 1923), pour transformer « poétiquement» une langue donnée de façon à ce qu’elle puisse recevoir. les significations d’une autre. (ivi, pp.175-176)
I concetti sono di un autore che apprezzo grandemente, le parole il frutto del processo di appropriazione e spoliazione che ho personalmente, faticosamente e piacevolmente affrontato.