di Federica Niola
autrice di Jazmina Barrera, Quaderno dei fari, Roma, La Nuova Frontiera, 2021 (da Cuaderno de faros, Ciudad de México, Tierra Adentro, 2017)
I fari piacciono a tutti, dice Barrera, non sono una passione originale. Ma questa collezione di fari, cominciata durante una gita al Yaquina Head Lighthouse (Oregon, USA), mentre la scrittrice leggeva To the Lighthouse di Virginia Woolf, era destinata fin dall’inizio ad assumere le forme di un’ossessione votata all’accumulo: edifici, riproduzioni di fari, mappe, ma anche storie delle torri e dei loro guardiani, dell’illuminazione, e naturalmente esperienze di lettura. Il risultato, a distanza di anni, è questa specie di camera delle meraviglie dei fari, che riunisce e riordina la collezione di Jazmina Barrera in una sorta di diario di viaggio diviso per fari visitati. Sotto i nomi dei fari che scandiscono i capitoli si susseguono e si intrecciano esperienze di «gite ai fari» fisici e letterari, fari del passato, descrizioni delle lanterne e del loro funzionamento, storie di guardiani, reali o immaginati, e soprattutto riflessioni che l’accumulazione di oggetti e di parole ha suscitato.
La scrittura, tra le altre cose, è anche un modo per arginare e ricomporre il disordine dando un ritmo e un senso proprio all’accumulo, ma nel riordinare il caos Barrera si sottrae allegramente alla diffusa e ostinata tentazione di voler catalogare i libri secondo i generi, cambia registro, argomento, tono, ritmo, spesso più volte nella stessa pagina. E tutto questo, venendo a noi, bisogna tradurlo.
Per farlo bisogna scervellarsi, capire i meccanismi delle lanterne studiando fotografie e leggendo manualetti, e siccome Barrera è precisa, bisogna rintracciare le parole italiane per nominare gli elementi tecnici e architettonici, scoprendo, per esempio, che la plataforma de observación, il terrazzino in cima al faro da cui si osserva il mare, è indicato quasi sempre con il termine generico «ballatoio».
Bisogna consultare un gran numero di traduzioni per riportare nel modo migliore le citazioni, che sono tante (per un libro breve): classici vari, da Svetonio all’Odissea, ma anche autori come Joyce, Woolf, Melville, tradotti da molti traduttori, passando per qualche poeta e qualche testo mai tradotto in italiano (di Scott, di Stevenson, per esempio) da rendere andando a cercare l’originale inglese (senza parlare delle complicazioni in biblioteca durante la pandemia).
Ma soprattutto bisogna cercare di non perdere la tensione lieve, l’evanescenza che domina il libro, i passaggi di tono che avvicinano dati e divagazioni creando un andamento ondivago, senza spigoli.
Bisogna passare dalla lingua che descrive i fari più importanti della storia, nitida, documentata e distesa, a quella che li racconta descritti da altri, adattata di volta in volta agli autori e ai libri citati; dalla scrittura articolata e lucida delle riflessioni, al tono intimo di alcuni passaggi. Per intenderci: dal resoconto della gita al Blackwell Lighthouse (Roosevelt Island, New York), con la sua cupa ombra di carceri, ospedali e manicomi, si passa al succinto riassunto di Le Phare du bout du monde di Verne, seguito da quello molto più particolareggiato dell’ultimo racconto incompiuto di Poe, pervaso di angoscia, che Barrera decide di completare; dal birdwatching salvifico di Franzen nell’isola Masafuera di Farther Away con le ceneri di Foster Wallace da spargere, alla lezione interiorizzata del limite e dell’incompletezza, che si conclude con un elenco numerato di fari che l’autrice si rassegna a non vedere mai, perché sono perduti, perché richiedono troppo tempo, perché non esistono o perché non ne avrà notizia.
Bisogna poi rileggere separatamente, più volte, le parti narrative, per verificare di non essersi lasciati distrarre dai dati tecnici o storici, dalle citazioni che ancora non sono state risolte, perché i cambiamenti sono fondamentali ma lievi, ed è facile perderli. Infine bisogna concentrarsi, nei giorni più affaticati che fanno perdere il ritmo della traduzione, per risolvere tutto quello che manca.
“Bisogna” per modo di dire, ovviamente. Per dire che io ho fatto così, stavolta.