di Elisa Tramontin
autrice di Mario Levrero, Lascia fare a me, Roma, La Nuova Frontiera, 2018 (da Dejen todo en mis manos, Herederos de Jorge Mario Varlotta Levrero, 1996)
Il raro, lo “strano” Levrero. Scrittore, enigmista, libraio, fotografo, instancabile lettore di gialli, fanatico di Kafka e Raymond Chandler… Di per sé la biografia di Mario Levrero predispone alla sfida. Un “romanzetto”, come lui stesso lo definisce, di una settantina di cartelle, apparentemente semplice, ma chi traduce sa bene quanto dietro l’apparente semplicità si annidino le più pericolose insidie…
La lettura dell’originale era durata un soffio, un’indagine senza assassini né cadaveri in cui uno scrittore che fatica a sbarcare il lunario deve rintracciare per conto di un editore un certo Juan Pérez che si è scordato di mettere il mittente sulla busta del suo magnifico manoscritto. Il nostro detective improvvisato comincia così una discesa negli inferi della provincia uruguaiana. Spiccatamente ironico e sarcastico, Levrero delinea personaggi e luoghi divertendosi con tutti i cliché: il senso di colpa sempre latente dell’uomo uruguaiano, una democrazia che non merita di chiamarsi tale, il sistematico ripetersi di nomi di strade, piazze, testate giornalistiche, l’eterno ritardo dei mezzi pubblici… Tutte cose che avevo toccato con mano nel mio lavoro “sul campo” (quando per tradurre un romanzo di un altro grande scrittore uruguaiano, Mario Benedetti, avevo preso il volo verso Montevideo per finire a lavorare nientedimeno che sulla sua stessa scrivania…), ma come far capire, per esempio, cos’è la murga a chi non è mai stato in Uruguay e non ha idea di cosa rappresenti per un uruguaiano, evitando come la peste la famigerata NdT? Come rendere con la stessa manciata di parole l’atmosfera oltremodo antiquata del salotto di uno dei personaggi, evocata da una «poltrona importata da Hernandarias insieme al bestiame», laddove Hernandarias è il militare illuminato che introdusse il bestiame in Uruguay nel 1600? Come tutelare l’ironia di quel Juan Pérez che equivale al nostro Mario Rossi?
Nonostante tutto, la difficoltà del libro non risiedeva tanto in quei problemi specifici, quanto appunto nel renderlo un soffio anche per il lettore italiano.
Scrivevo e rileggevo, ma la traduzione non girava. Qualcosa, molto più di qualcosa, della sua ironia, del suo sarcasmo, si smaterializzava nelle parole italiane, perdeva brio, sembrava finto, distante. Eppure io e Mario Levrero abbiamo tante cose in comune: pessimismo, paranoie, ipocondria, goffaggine, sbandamenti onirici, smemoratezza, umorismo non sempre immediato… Poi sono incappata in un’intervista in cui diceva: «È un errore cercare fonti esclusivamente letterarie per la letteratura, come se un produttore di formaggi dovesse alimentarsi esclusivamente di formaggi».
Allora ho capito: dovevo attingere a quelle “fonti non letterarie” di cui è composta la vita quotidiana: la calata degli amici, le chiacchiere da bar, gli strilli del mercato. Dovevo frugare in quel bagaglio mentale e prendere il libro per le corna, astraendomi dalle parole e dalla sintassi di Levrero, e dunque immaginarmi le scene, i dialoghi e i monologhi interiori di cui è costellato il romanzo e interpretarli, calandomi nei panni di ogni personaggio, e riscriverli affinché, dalla rielaborazione, ne risultasse la stessa immagine, una sorta di inconsapevole (o incosciente?) applicazione del metodo Stanislavskij alle pratiche della traduzione. Dovevo riuscire a ravvivare la lingua con l’utilizzo di sinonimi di cui l’autore non aveva avuto bisogno per veicolare il suo pregnante umorismo, ma che noi nell’italiano bramiamo, cercando la parola che rendesse giustizia all’immaginario, all’atmosfera e al colore del mondo di Mario Levrero, nel quale mi si era finalmente aperto un varco, e in cui spero si infili volentieri anche il lettore italiano.