EMILIO CASTELLANI, TRADUTTORE DEL TEATRO DI BRECHT (E NON SOLO)
di Aldo Agosti
1. Gli anni della formazione
Il nome di Emilio Castellani (1911-1985) non è ignoto nella repubblica delle lettere: molti, quasi tutti forse, lo assoceranno alla traduzione in italiano di alcuni fra i più noti autori di lingua tedesca dell’Otto e Novecento; per non citare che i più celebri: Goethe, Thomas Mann, Arthur Schnitzler, Franz Kafka, e soprattutto Bertolt Brecht. A delineare mirabilmente in poche righe il senso più profondo del suo percorso intellettuale vale ancora il ritratto che cinque mesi dopo la sua morte gli dedicò Claudio Magris:
Castellani appartiene a quel leggendario gruppo di intellettuali e di traduttori a cui si deve una fondamentale mediazione della cultura tedesca, accompagnata, negli anni bui, da una lucidissima milizia antifascista e da un grande impegno etico-politico. Quando il regime fascista imponeva al Paese la dittatura e successivamente il letale asservimento alla Germania nazista, c’era in Italia, non appariscente e clandestino, un altro asse, che trovava nella cultura tedesca – in un’altra cultura tedesca, opposta a quella nazionalsocialista – un punto di riferimento ideale nella lotta per la libertà. La germanistica, sia quella universitaria sia quella militante, ha recato così un cospicuo contributo alla resistenza al totalitarismo. Castellani è stato una figura di rilievo di questa pattuglia. (Magris 1985)
A illuminare più da vicino la biografa intellettuale, professionale e politica ci aiuta oggi il suo archivio, non più di un grosso faldone di alcune centinaia di fogli, che chi scrive – nipote di Castellani per parte materna – ha potuto rintracciare quasi trentacinque anni dopo la sua morte, e che verrà ora depositato presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea a Torino. E’ un archivio molto selettivo e costruito da chi l’ha lasciato con aperta intenzionalità: risultato, certo, come tutti gli archivi personali, anche delle perdite che può aver subito in molti traslochi, ma sicuramente frutto di una scrematura effettuata negli anni. Non contiene documenti personali, non vi figura alcuna traccia della sua quasi venticinquennale attività professionale come dirigente della Rai, sono relativamente poche le carte del periodo compreso fra il 1960 e il 1982 e del tutto assente le corrispondenza con gli editori con cui collaborò in quegli anni. E’ probabile che, verso la fine della sua vita, Castellani lo abbia ridotto a dimensioni più contenute, quasi che abbia voluto tirarne per sé un bilancio e, per gli altri, far emergere della propria biografia intellettuale i tratti ritenuti più significativi, senza ometterne i momenti più tormentati e sofferti. Sono questi caratteri a rendere la fonte molto stimolante per chi l’affronta, sia pure con la consapevolezza che è una fonte parziale, e che alcuni momenti della biografia del personaggio dovrebbero essere ben più attentamente indagati e approfonditi, attingendo ad altre fonti. Per altro verso, il fatto che la parte di gran lunga più consistente di questo archivio riguardi la sua attività di traduttore mostra l’importanza che ad essa egli attribuiva e giustifica l’attenzione che può ricevere su questa rivista. Tutte le lettere citate nel corso di questo saggio con la sola data e l’indicazione del mittente o del destinatario s’intendono reperibili in questo archivio (APEC), con la precisazione che di quasi tutte quelle alla e della casa editrice Einaudi si trova copia nel fascicolo a lui intestato dell’Archivio Einaudi (AE).
Emilio Castellani nacque a Milano il 1° agosto 1911. I suoi genitori erano Luigi Castellani, medico otorinolaringoiatra, abruzzese per parte di madre, e Teresa Luisa (Gina) Bouland, figlia di un colonnello della guardia di finanza di origine savoiarda. Gina era nata ad Ala di Trento nell’epoca in cui la cittadina era situata esattamente sulla frontiera italo-austriaca, e conosceva benissimo il francese e il tedesco. Emilio (Mino, come fu sempre chiamato) ebbe due sorelle minori, Maria Luisa (Nini), nata nel 1913, e Enrica (Ru), nata nel 1917. Studiò alla scuola elementare Ruffini, a due passi dalla via con lo stesso nome in cui abitava, e poi al Ginnasio Liceo Manzoni. Sappiamo, dalle memorie della sorella Nini conservate nell’archivio della famiglia Agosti (APFA), che era uno studente modello, e che presto imparò il francese e il tedesco. Ma ciò che più lo appassionava era la musica: arrivò prossimo a prendere il diploma sotto la guida del maestro di pianoforte Carlo Lonati (che sarebbe stato anche il primo maestro nientemeno che di Maurizio Pollini – DEUMM, IV, 486): amava in particolare i Lieder tedeschi di Schubert, Schumann e Wolf, che suonava accompagnato dalla voce della sorella Ru, e fu proprio l’incontro con queste composizioni che verso i vent’anni destò in lui «un preciso interesse per il tedesco» e lo fece decidere di studiarlo (Castellani 1980a, XXIII).
La condizione agiata della famiglia Castellani fu seriamente messa in discussione dalla morte improvvisa di Luigi, nel 1928. Mino conseguì la maturità classica quello stesso anno, appena diciassettenne, ma la scelta della facoltà universitaria fu condizionata dalla necessità di conseguire presto l’indipendenza economica, e così cadde su giurisprudenza. Anche la sorella Nini interruppe gli studi per andare a perfezionarsi nella conoscenza delle lingue all’estero, e l’altra sorella, Ru, fece le scuole magistrali per potere presto insegnare. Mino non aveva alcuna particolare vocazione o interesse per gli studi giuridici, e quello che gli interessava era finire il più presto possibile, il che riuscì puntualmente a fare conseguendo la laurea in quattro anni, nel novembre del 1932: di conseguenza i suoi voti furono modesti, e quello finale di laurea di 98/110 (Archivio dell’Università degli studi di Milano, Registro carriere di Giurisprudenza, 1931-1932). L’argomento della sua tesi in diritto civile – il cui titolo era Del principio generale del dominio pubblico pagante e di alcune sue applicazioni pratiche nel campo del diritto d’autore – sembra ricollegarsi all’attività lavorativa che svolgeva part-time, come competente per la scelta dei pezzi d’ascolto, presso le edizioni musicali Carisch, che producevano prima spartiti e libri di musica e poi anche dischi (testimonianza della sorella Nini, trascritta, APFA). Ma le sue inclinazioni erano spiccatamente artistiche e letterarie. Dall’età di 19 anni scrisse anche delle poesie che, pur non essendo particolarmente originali, denotano l’evidente familiarità con le correnti più vive della poesia, non solo italiana, del primo Novecento: nelle sue carte ne sono conservate una ventina, per lo più del 1931-32 e poi degli anni compresi fra il 1938 e il 1944. Scrisse più tardi che quando si avvicinò agli studi letterari «fu quindi da dilettante e col sottofondo mentale di una passione frustrata». E’ certo comunque che, nutrendo «fin dalla prima gioventù un’intolleranza furiosa per il fascismo» e data «la ripulsione che gli ispirava il provincialismo della nostra cultura in genere» (Castellani 1980a, XXIII), negli anni universitari i suoi interessi andarono arricchendosi, e la cerchia delle sue amicizie ampliandosi attraverso la frequentazione di corsi e studenti di altre facoltà, soprattutto di lettere e filosofia. Ricordò in una testimonianza di molti anni dopo quale profonda impressione avessero lasciato su di lui le lezioni di Giuseppe Antonio Borgese sull’estetica del romanticismo (ein unvergessliches Erlbenis – un’esperienza indimenticabile – Castellani 1964, 29), e quanto l’amore per la musica tedesca, una volta rifluita l’onda dell’entusiasmo per Wagner, lo avesse aiutato a capire gli intimi rapporti fra romanticismo tedesco e romanticismo italiano (Castellani 1980a, XXIV). Ma certamente frequentò o almeno ascoltò qualche volta le lezioni di estetica e di storia della filosofia di Antonio Banfi e tra gli studenti di quei corsi figuravano giovani a cui per alcuni anni fu strettamente legato: Rémy Assayas, Enzo Paci, Luciano Anceschi. Uno dei luoghi di ritrovo di questi giovani «mal sofferenti del quadro di rispettabilità borghese toccato in sorte alle loro esistenze» (Castellani 1979) era lo studio in via Tertulliano di Pino Ponti (1905-1999), un pittore «che ebbe un precoce successo negli anni più bui del fascismo non per invenzioni stilistiche particolari ma per aver espresso con allegorie non molto velate la formazione di un’arte di protesta politica e sociale» (De Grada 1979). In una lettera scritta al pittore nel 1983 in occasione di una sua mostra a Bologna, Luciano Anceschi ha ricostruito vividamente l’aria di quegli anni: gli incontri, le simpatie, e il lavoro comune che si cristallizzarono intorno alla rivista «Orpheus» fra il 1932 e il 1934,
il momento culminante di una esperienza singolare vissuta in un clima singolare, in anni difficili, in cui alcuni giovani che […] si ritrovavano nelle biblioteche, nei caffè, ai concerti, e in particolare sotto i larghi portici della Facoltà di lettere in Corso Roma, a Milano […] si accorsero di avvertire comuni impulsi di insoddisfazione e stati di malessere verso la realtà in cui si trovavano a vivere. (Anceschi 1983).
Per mettere ancora meglio a fuoco questa esperienza, Anceschi rinviava allo «scritto di memoria, precisissimo», che Emilio Castellani aveva steso per il catalogo della mostra allestita dal Comune di Milano quattro anni prima, nel 1979, per ricordare il lavoro di Ponti. In quello scritto, Castellani presenta «Orpheus» come «una delle prime riviste giovanili del periodo fascista […] che si impostarono su una netta, seppur più o meno dissimulata, posizione antifascista», e ne ricorda le «molte ambizioni, moltissime presunzioni e intemperanze, precise intolleranze». Queste ultime avevano certo anche di mira il «tronfio bestialismo fascista» del decennale della marcia su Roma, ma le «teste di turco» contro cui si poteva più apertamente sparare erano «l’estetica di Croce e l’idealismo»: un compito, egli ricorda, che fu lasciato ai «“competenti” Paci e Anceschi, allievi di Banfi alla Facoltà di Lettere e Filosofia», mentre «i meno preparati alla speculazione filosofica-critica» – tra i quali collocava sé stesso – si rivolgevano «piuttosto alle cosiddette arti belle: letteratura, arti plastiche, architettura, cinema e musica». E’ molto significativo che Mino indichi come «la temperie da cui prendevamo le mosse» quella «dell’intimo, infuocato periodo della Germania di Weimar»:
Avevamo magari idee ancora molto vaghe intorno all’espressionismo, al Bauhaus, alla Neue Sachlichkeit […]. Ma quell’arte, e in particolare quel cinema e quell’architettura, provenienti da quello che sentivamo come il cuore tormentato dell’Europa, ci affascinavano per il messaggio di tonalità, d’impegno e di fraternità che, forse acriticamente ma certo intensissimamente, avvertivamo in esse. (Castellani 1979)
2. Il contributo alla cultura critica giovanile in epoca fascista
Il contributo individuale di Castellani a questa esperienza fu sicuramente importante. Lo fu certo, date le sue competenze, per le pagine musicali del periodico, soprattutto dopo che lo ebbe lasciato il musicologo Ferdinando Ballo – un personaggio che ritroveremo – il quale ne era stato il primo direttore. Su temi musicali la firma per esteso di Castellani comparve per la verità una volta soltanto, ma in modo molto significativo: recensendo il «Bollettino musicale» del febbraio 1933 stigmatizzò, della musica italiana contemporanea, «un bizantinismo sterile e vuoto, un ridicolo affannarsi dietro l’inesprimibile, accontentandosi di esercitazioni accademiche, di bravure tecniche, di maggiori o minori “stravaganze”»; e, polemizzando con Alfredo Casella, il quale sull’«Italia letteraria» aveva rivendicato alla sua generazione il diritto di restare fedele alla propria forma di espressione artistica, dichiarò che era pienamente lecito «esigere da un artista di essere diverso da quel che è stato finora». Citava in proposito musicisti come Hanns Eisler e Kurt Weill: proprio quei nomi che nella testimonianza del 1979, pur definendo la propria competenza come «dilettantesca», si sarebbe attribuito il merito di aver fatto comparire sulla rivista, ricordando che «nel 1933 il “gruppo” era riunito intorno allo spartito pianistico dell’Opera da tre soldi e scopriva le stupende ballate di Brecht, rinfocolato nel suo entusiasmo dai giovani ebrei tedeschi che la prima ondata migratoria aveva portato a Milano».
Gli altri interventi firmati da Castellani su «Orpheus» parlavano di libri. Il primo in ordine di apparizione, sul n. 1 del gennaio 1933 (pp. 22-24), era un’entusiastica recensione dell’Armata a cavallo di Isaac Babel’, nella traduzione di Renato Poggioli uscita da Frassinelli, il secondo una sostanziale stroncatura del romanzo dello scrittore francese Ramon Fernandez, Le pari (Paris, Gallimard, 1932: La scommessa), intriso dello «psicologismo [di] certa letteratura così detta d’avanguardia», nel numero seguente (pp. 17-18). Le due successive recensioni, apparse sul n. 6-8 della rivista, erano la dimostrazione della vastità delle letture di Castellani e insieme la spia di un certo suo impeto iconoclasta: di Proust, commentando il libro scritto su di lui da Lorenza Maranini, anche lei allieva di Banfi (Proust. Arte e conoscenza, Firenze, Novissima, 1933), riconosceva il merito di aver saputo «mantenere la sua arte ad una tale e così costante altezza […] quale nessuno degli altri grandi scrittori contemporanei ha mai potuto realizzare», ma al tempo stesso riteneva che fosse «da combattersi accanitamente la sua influenza sulla giovane generazione»; mentre al Dedalus di Joyce (la cui traduzione di Cesare Pavese, uscita per Frassinelli quello stesso anno, giudicava «buona, ma alquanto inferiore per qualità a quella francese della Savitsky») si diceva «imbarazzato ad attribuire – come in ultima analisi anche all’Ulysses – maggior valore di quello di una ghiotta curiosità da letterati». Questo ardore ipercritico non risparmiava nemmeno uno degli autori di culto della generazione di Castellani, André Gide, che come vedremo ebbe un posto significativo nel suo percorso di traduttore: Fallimento di Gide s’intitolava tout court il più lungo dei contributi letterari a «Orpheus» sul n. 4-6 del maggio-giugno 1933 (pp. 7-10), un commento al libro di Léon Pierre-Quint André Gide, sa vie, son oeuvre (Paris, Stock, 1932). Era una dura requisitoria contro il motto che si era dato l’autore francese, Ne jugez pas (Non giudicate): «precetto – scriveva in modo sferzante Castellani – che è una vera cuccagna per l’accidia fondamentale di ogni decadente, e davanti al quale noi sentiamo ora di dover reagire con tutte le nostre forze, perché non solo rimasto inascoltato nella realtà storica, ma contrario a quella che è la necessità fondamentale della nostra epoca» (p. 7).
Castellani considerò sempre l’esperienza di «Orpheus» una tappa importante del suo percorso intellettuale. Certo, in una lettera del 6 agosto 1947 a un compagno del Partito d’azione, Salvo Parigi, accennando a quell’esperienza ne scrisse con apparente distacco: «Lo spirito che informava “Orpheus” […] è quello che porta a credere che basti “fare” una rivista e scriverci su qualche articolo alla maniera forte, per essere in possesso dei titoli necessari a risolvere problemi di portata mondiale»; e ancora più di trent’anni dopo avrebbe ammesso il carattere «certo generico, notevolmente snobistico e velleitario» (Castellani 1979) del cosmopolitismo della rivista. Tuttavia non si può non restare colpiti dal fatto che in una lettera ad Anceschi dell’8 giugno 1983, scritta poco dopo la mostra di Pino Ponti a Bologna durante la quale cui si erano rivisti dopo molti anni, Mino menzionasse fra i tre suoi lavori a cui teneva di più (gli altri due erano l’introduzione agli scritti teatrali di Brecht e quella al teatro di Toller) l’articolo che – non firmato perché a partire dal numero 9 del novembre 1933, in «Orpheus» scomparvero le firme dei collaboratori, dovendo il loro apparire come un lavoro collettivo, di gruppo – aveva scritto sull’ultimo numero della rivista, l’11-12-13, nel gennaio del 1934. Si tratta certamente del pezzo intitolato Perché siamo soltanto critici, che, letto oggi, suona abbastanza ingenuo e fumoso: non riesce facile capire perché a quasi cinquant’anni di distanza l’autore lo considerasse una tappa così importante del suo itinerario intellettuale, anche se – a onor del vero – scriveva ad Anceschi di considerarlo «forse come testimonianza di quella che fu la mia straordinaria capacità di errare». Era, in sostanza, una severa requisitoria contro l’«arte pura»:
Solo tornando a considerare l’artista come inserito nel processo normale di produzione – questo ne era il succo – e non come necessariamente situato ai margini di esso, riportando così l’artista nella società e cancellando definitivamente tutti i residui di “bohème”, si potranno creare nuove, grandi correnti artistiche, diciamo pure nuove grandi “tradizioni” (p. 6).
Erano toni che riecheggiavano quelli del pezzo, intitolato Fronte unico, con cui si apriva quello stesso numero di «Orpheus», una lettera che la rivista aveva indirizzato alla consorella «Camminare…», il quindicinale di letteratura e filosofia fondato nel 1932 da Alberto Mondadori, a cui collaboravano, tra gli altri, anche Anceschi e Paci. Vi si faceva riferimento a un programma comune «che pone al centro della vita il problema politico inteso come problema sociale, […] che vede come logica conclusione del corporativismo il collettivismo».
In questo agitarsi abbastanza confuso di stimoli e di suggestioni, i temi che più sembravano stare a cuore a Castellani erano soprattutto quelli dell’espressione artistica in tutte le sue forme e declinazioni, ma principalmente in quella letteraria e figurativa. Terminata l’esperienza di «Orpheus», sembra che il suo gruppo promotore sia andato a costituire la redazione milanese de «Il Cantiere», la rivista romana pubblicata tra il marzo 1934 e il giugno 1935 considerata dal «Nuovo Avanti!», organo del Partito socialista italiano nell’esilio parigino, il più influente periodico della «sinistra fascista» (Colombo 2019, 254). Andrebbe fatto un riscontro più preciso di tutte queste riviste (da «Il Cantiere», appunto, a «Camminare…», a «Il Saggiatore» e altre ancora) – cosa particolarmente complicata in tempi di covid – per verificare se ed eventualmente su quali temi Castellani sia intervenuto anche in altre riviste. Ma ne sappiamo abbastanza per dire che fu partecipe di quella rete di riviste, circoli, iniziative culturali che si muoveva nel cono d’ombra della legalità fascista senza mai scalfirla visibilmente ma sfruttando i suoi spazi interni per far circolare impulsi di rinnovamento e di sprovincializzazione della cultura. Nella già citata lettera a Salvo Parigi del 1947 Castellani avrebbe scritto di sé e dei suoi amici di «Orpheus» in quegli «anni ’32-34, gli anni del cosiddetto “fascismo di sinistra”», riferendosi ai Gruppi universitari fascisti (Guf) a cui aderivano tanti giovani intellettuali: «non eravamo gufisti, certo»; anzi, «allora, se me lo avessero detto, l’avrei considerato un’offesa insopportabile»: «ma – ammetteva – dello spirito “guf” eravamo abbastanza profondamente penetrati». Così anche la loro collaborazione a «Libro e moschetto», il quindicinale dei Guf milanesi, altro non fu che un modo di usare le uniche risorse esistenti per dare voce a inquietudini esistenziali e culturali che in realtà già stavano entrando in rotta di collisione con il fascismo.
La ricostruzione più accurata e approfondita di quell’ambiente indica Emilio Castellani – senza peraltro indicare la fonte di questa informazione – come responsabile del Cineguf milanese (Colombo 2019, 525). In realtà a ricoprire questa carica era un altro Castellani, Renato, il futuro regista (Roberti 2003); ma che il cinema fosse uno degli interessi diventati centrali nel suo orizzonte è in effetti dimostrato da due interventi ospitati da «Corrente», il foglio fondato – con il sostegno finanziario del padre Giovanni, industriale tessile, senatore del Regno e ideatore dell’Enciclopedia italiana che da lui prese il nome – dal giovane Ernesto Treccani con il titolo originario di «Vita giovanile», che, da «rassegna del pensiero della gioventù mussoliniana» quale si era definito nel numero di esordio, era presto diventato il punto di riferimento dei giovani del Guf scontenti di «Libro e moschetto», non pochi dei quali provenienti dall’esperienza di «Orpheus» (Colombo 2019, 11-79). Il primo degli scritti di Castellani, del 30 aprile 1938, era una recensione entusiasta della «comicità dinamitarda» di Un giorno alle corse dei fratelli Marx; il secondo, che lasciava trasparire una solida cultura cinematografica, era un’ampia riflessione sulle «serate retrospettive» che Luigi Comencini e Alberto Lattuada avevano dedicato nella primavera del 1939 a una serie di film che spaziavano da Griffith ai classici dell’espressionismo tedesco, da Réné Clair a Yoris Ivens.
Su «Corrente» Castellani pubblicò altri due articoli: il 31 gennaio 1939 una nota sul libro di ricordi di Magda De Grada Terra di Siena (Como, Augustea, 1938), e prima ancora (15 luglio 1938) La lezione dello stadio, una recensione molto ampia di Les Olympiques di Henri De Montherlant (che raccoglieva in un unico volume, uscito da Grasset a Parigi, arricchendoli di un’ampia prefazione, i due saggi pubblicati nel 1924 in occasione dei Giochi olimpici di Parigi). Questo intellettuale francese dal profilo politico abbastanza ambiguo (inizialmente cattolico e nazionalista infuocato, fautore di una concezione eroica della vita ispirata da Nietzsche e di una retorica elitaria e individualista, ma a suo modo anche anticonformista e anticolonialista) sembra avere esercitato un certo fascino su Castellani. Già su «Libro e moschetto», infatti, il 10 ottobre 1936, aveva recensito un altro libro del ciclo Les jeunes filles (Le ragazze) – la cui traduzione, scrisse Montherlant a Castellani, era stata vietata dalla censura fascista – destando l’interesse dell’autore, che gli aveva indirizzato due mesi dopo una lettera personale piena di considerazione (e lo stesso fece dopo aver letto l’articolo su «Corrente»). Nella recensione Mino cercava diligentemente di illustrare al lettore la filosofia di Montherlant («glorificazione dello sport come mezzo di sviluppare non solo fisicamente ma anche intellettualmente la propria personalità […], ammaestramento, testimonianza di un risultato personale raggiunto e che si desidera mettere alla portata di altri»); ma quello che soprattutto ammirava dello scrittore francese era lo stile: «una scrittura puntualissima, una lingua estremamente raffinata».
Gli articoli di carattere squisitamente letterario e artistico pubblicati su «Corrente», in cui era difficile cogliere qualsiasi implicazione politica (come invece, in fondo, era possibile su «Orpheus») sembrerebbero in contraddizione con la definizione che in più di un’occasione, durante e subito dopo la guerra, Castellani diede di sé di «antifascista attivo» e perfino «militante comunista» fin dal 1938-39. Ma in realtà non necessariamente lo sono: sia perché potevano essere benissimo una mera copertura di un impegno politico clandestino, in linea con le direttive del «lavoro legale» in seno ai Guf che il Partito comunista d’Italia dava ormai da anni ai giovani insofferenti della dittatura, e che in alcuni casi, particolarmente in quello dell’Università di Roma (Natoli 2020, XVI-XXII), finirono per trovare terreno fertile; sia, ed è più probabile, perché erano l’espressione di una travagliata maturazione culturale ancora in corso che poteva coesistere con una scelta di campo antifascista già compiuta. Non abbiamo in proposito riscontri certi: ma si può dire tranquillamente che in tutta la sua vita Castellani non tese mai ad “abbellire” in alcun modo la propria biografia politica e intellettuale, e quindi non è affatto inverosimile che egli abbia avuto qualche ruolo nella rete cospirativa tessuta nel 1938-39 – con agganci sia fra i comunisti che fra i socialisti – da Raffaele De Grada ed altri personaggi che erano protagonisti attivi dell’esperienza di «Corrente»; e perfino che – più marginalmente – fosse già stato coinvolto in quel «Fronte popolare per l’unità d’azione» la cui disarticolazione aveva portato già nel 1937 agli arresti, tra gli altri, di Rodolfo Morandi e di Mario Venanzi (Colombo 2019, 44).
3. L’incontro con Giorgio Agosti
Intanto, conseguita presto la laurea, e scartata evidentemente l’idea di intraprendere le professioni forensi, Mino doveva cercare di guadagnarsi da vivere. Sicuramente continuò per qualche tempo a lavorare per le edizioni Carisch. Tradusse la biografia di Stalin scritta dall’autore azero-tedesco Essad Bey, di tono accesamente antibolscevico, che fu pubblicata da Treves nel 1935: risulta questa la sua prima traduzione firmata dal tedesco. Non è sua invece, ma della sorella Enrica (come è agevole ricostruire sul portale del Sistema bibliotecario nazionale), la seconda versione italiana (Milano, Bietti 1936: la prima era stata quella di Ciro e Michelina Trabalza del 1906 per Carabba) di Piccole donne della Alcott, che Stella Sacchini, nella nota alla nuova traduzione di questo classico americano per Feltrinelli del 2018 gli attribuisce, tratta in inganno dall’iniziale del nome proprio. Superati i 26 anni, fino al compimento dei quali come studente universitario aveva potuto rinviare il servizio militare, prestò servizio come ufficiale di complemento di artiglieria, seguendo i previsti corsi formativi. Fu durante uno di questi corsi, che lo aveva portato a Poirino per una missione, che seguì il suggerimento della madre e si recò a Torino per conoscere il figlio di una signora che lei aveva conosciuto in villeggiatura: questa signora era Cristina Garosci Agosti – che era, tra le altre cose, un’esperta traduttrice dal polacco – e il figlio era Giorgio Agosti (Borgna 2015, 104).
L’incontro tra i due futuri cognati (neanche un anno dopo, infatti, Giorgio avrebbe sposato Nini Castellani) è stato descritto da Agosti, in una lettera a Mino del 2 marzo 1940, con una metafora diventata quasi il paradigma del «riconoscimento tra uguali» – così l’ha definito Giovanni De Luna – che poteva avvenire fra intellettuali antifascisti: «Sebbene tutti noi viviamo isolati e chiusi nel nostro guscio come tartarughe, capita all’improvviso che, allungando cautamente la testa di sotto la corazza, incontriamo un’altra testa, che si è affacciata con circospezione», e bastava poco per percepire una sintonia di idee e di comportamenti. Nel caso di Mino – glielo aveva già scritto il 23 gennaio – era stato «un modo di portare la divisa con eleganza e con distinzione, va bene, ma –come dire? – con circospezione, che è proprio degli intellettuali non interamente adeguati al clima» (De Luna 1994, 3). Scattata quella scintilla, erano bastate poche ore per scoprire di avere in comune non solo un mondo di letture e di interessi musicali, ma una totale estraneità allo spirito del regime. Poco importava che avessero percorso fino a quel momento strade apparentemente molto diverse. Agosti aveva una formazione liberale gobettiana: aveva frequentato il Liceo D’Azeglio con molti dei giovani che sarebbero divenuti il nucleo torinese di Giustizia e libertà, il movimento liberalsocialista clandestino fondato da Carlo Rosselli, e capeggiato nel capoluogo subalpino da Leone Ginzburg. Poi anche lui aveva studiato giurisprudenza alla scuola di Solari e Ruffini, continuando a mantenere rapporti con il cugino Aldo Garosci, emigrato a Parigi e divenuto uno dei più stretti collaboratori di Rosselli (Borgna 2015, 201). Castellani aveva una formazione molto più letteraria e si era nutrito anche delle inquietudini del fascismo di sinistra, pur allontanandosene sempre di più. Percorsi paralleli ai loro, come quelli di personaggi più celebri quali Ginzburg (D’Orsi 2019) e Giaime Pintor (Calabri 2007), dimostrano che nel momento in cui il fascismo si avvicinava al redde rationem il confine tra le diverse appartenenze dell’antifascismo non organizzato si faceva sempre più poroso. Nacque tra i due un’amicizia fortissima, alimentata da qualche incontro e da uno scambio epistolare che, al momento in cui l’Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940, si era già rapidamente infittito. A questo carteggio, conservato nell’Archivio Giorgio Agosti presso l’Istituto per la storia della Resistenza in Piemonte di Torino, attingeremo di frequente nel paragrafo che segue.
4. La guerra e la Resistenza
Castellani fu richiamato alle armi l’11 maggio 1940, in forza presso il 30° raggruppamento di artiglieria, facente parte del corpo d’armata corazzato con sede a Mantova, uno di quelli che costituivano l’Armata dl Po, come scrive Mino a Giorgio il 19 seguente. Il raggruppamento, dopo essere stato per un breve periodo in Dalmazia tra aprile e giugno del 1941, fu fra i primi a partire con il Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR), tra il 10 luglio e il 5 agosto, e fu chiamato ad operare nella zona del Donbass, il bacino del Don.
«Ricordo quella sera con te e Terragni, nella vecchia casa di via Giacinto Carini. Voi infagottati nel grigioverde, sul punto di partire per una guerra che, in fondo, speravamo che ci liberasse dal fascismo», gli scrisse molti anni dopo, il 19 febbraio 1985, Giulio Carlo Argan, il critico d’arte pressoché suo coetaneo che aveva probabilmente conosciuto nell’ambiente di Pino Ponti e degli altri artisti che frequentava.
Giuseppe Terragni, un personaggio che Castellani aveva frequentato nella cerchia di riviste come «Orpheus» o «Corrente», era uno dei maggiori esponenti del Movimento italiano di architettura razionale (Miar), l’urbanista che aveva ridisegnato il volto della città di Como. Dalla guerra in Russia tornò irrimediabilmente provato nel morale e nel fisico e morì pochi mesi dopo, nel luglio 1943. Castellani, invece, ce la fece. Era partito schiacciato dall’angoscia. «Che cosa ci si prepara? Che orribile labirinto, che tremenda mancanza di certezze, questo è il nostro destino», aveva scritto a Giorgio Agosti già il 19 maggio 1940, prima dell’entrata in guerra dell’Italia; e (in una lettera erroneamente datata 9 giugno ma evidentemente del 10), al momento del suo annuncio: «So che tutto quello che oggi – finalmente – è cominciato è il preludio al mondo nuovo, a quello che con me o senza di me, potrà essere il mio mondo, il nostro mondo; ma l’abisso orrido e immenso in cui oggi siamo entrati è pieno di tenebre e di spavento. Mi sento debole, inetto. E’ un’impressione terribile».
Già qualche settimana dopo aveva però ricuperato un maggiore equilibrio: sempre a Giorgio Agosti scriveva il 18 agosto delle letture portate a termine o progettate, che spaziavano dalla storia (Salvatorelli, Perticone, la Storia della grande industria di Morandi), alla letteratura (Caldwell, Verga, Valéry), e assicurava di non essere «pessimista», anche perché – spiegava in modo nemmeno troppo velato – la vita militare, con il suo duro addestramento, poteva «veramente costituire un buon periodo preparatorio» per quando «a cose finite, bisognerà rimboccarsi le maniche». In questo senso rivalutava perfino i «santi sdegni» di Montherlant: «le sue idee erano balorde, o meglio non erano “idee”; ma quanto al resto [il valore della disciplina fisica per temprare il carattere] aveva molta ragione». Lo angustiava soltanto «l’unica, terribile preoccupazione di non sapersi adattare abbastanza a quello che i tempi esigono da noi» (corsivo nel testo).
Seppe adattarsi, eccome: in guerra diede prova subito di grande coraggio e sangue freddo, conquistandosi nel settembre del 1941 una medaglia di bronzo per un’azione nella zona di Kamenka, sul Dniepr.
Ufficiale capo di pattuglia OC – recitava la motivazione – si offriva spontaneamente per assicurare il collegamento con la divisone Wiching [sic] prima e con la 198a Divisione germanica poi durante le due azioni di allargamento e dilagamento della testa di ponte di Dnepropetrovsk vivamente contrastato dal nemico. Di giorno e di notte, su passerelle e su traghetto, attraversava ripetutamente il Dnepr, incurante sotto il tiro delle artiglierie e degli arerei nemici. Sempre presente nelle primissime linee, contribuiva con la sua opera a conferire la massima efficacia all’azione del suo raggruppamento. Bello [sic] esempio di alto senso del dovere e di sovrano sprezzo del pericolo. (http://decoratialvalormilitare.istitutonastroazzurro.org/#, consultato il 20 maggio 2020)</CM>.
In realtà, come vedremo, Castellani non visse senza un profondo travaglio interiore quella decorazione; e più della sua motivazione sicuramente apprezzò il commento del cognato Giorgio Agosti, che così gli scrisse il 15 gennaio del 1942:
Mi ha fatto un piacere grande, di amico, soprattutto per due ragioni (o soltanto per due ragioni): che te la sei guadagnata senza far accoppare nessuno o senza spingere altri a farsi accoppare, ma rischiando tu solo; che non è stata l’ubriacatura di un’azione violenta (in cui, così almeno credo non avendone alcuna esperienza, si finisce per non essere più noi e per agire quasi come automi), ma il sangue freddo dell’azione personale, solitaria e ragionata.
Anche al fronte Castellani non cessò mai di coltivare, per quanto possibile, i suoi interessi culturali e letterari: lo testimonia la corrispondenza con Giorgio Agosti e con la sorella Nini, che è fitta di riferimenti in questo senso. Un carteggio di grande interesse, che è stato analizzato con finezza da Giovanni De Luna soprattutto per il modo in cui illumina la formazione culturale di Agosti, ma del rilievo del quale Mino stesso sembrava precocemente consapevole. Scriveva infatti il 29 ottobre 1942 dal fronte all’amico cognato:
Ogni tanto, penso che ci sarebbe qualcosa di buono da cavare da un tanto nutrito scambio di corrispondenza in un periodo così denso d’interesse; ed è forse per questa recondita convinzione che mi ostino a conservare la maggior parte della posta che ricevo, e provo nel rileggerla una strana sensazione, mista di soddisfazione intima e di struggimento per questi anni tanto importanti che stanno volando via e incidono tanto profondamente nel nostro destino senza che noi possiamo quasi farci nulla.
E ancora a Giorgio scrisse da Vipiteno il 10 gennaio 1943, in una sosta del lungo viaggio che lo riportava a casa dalla Russia:
Sto leggendo Frieden, di Glaeser, miracolosamente ben conservato nella ben fornita libreria di Vipiteno: anche questo libro scritto per i giorni nostri. Ma in realtà si capisce, una volta che si attraversi o si sia attraversata un’importante esperienza di vita, come sia appunto la vita che dà significato ai libri – s’intende, ai libri validi – o meglio, s’intuisce tutta la verità della dialettica vita-letteratura. (Sempre in rapporti più o meno leciti con la letteratura, penserai tu di me, non è vero? Ma, condannato all’inazione come sono […]. non posso far altro che arginare con questo mezzo la continua ondata di preoccupazioni d’ordine generale che mi assilla in questi ultimi tempi).
In Russia Castellani si mostrava avido d’informazioni sulle novità librarie, chiedendo che gli fossero mandati libri e riviste – il libro di Gabriele Pepe sul Medio evo barbarico in Italia e almeno alcuni fascicoli della rivista «Argomenti» («la dirige Alicata, vero?») – , e a sua volta raccontava quello che leggeva, o almeno incominciava a leggere: dall’Orlando furioso di Ariosto alle Confessioni di un italiano di Nievo, da Uomini e folle di guerra di Angelo Gatti («ci sono delle pagine che possono far meditare chi non è abituato a farlo») ai Quaranta giorni del Mussa Dag di Franz Werfel, alla Logica del terrore rosso (Firenze, Le Monnier, 1939) di Tomaso Napolitano, prestatogli dall’autore, sottotenente presso il comando del Csir, del quale si diceva molto deluso, tanto più perché dichiarava di aver apprezzato l’equanimità di un saggio dell’autore del 1938, probabilmente Tecnica dei processi di Mosca (Roma, La Nuova Antologia, 1938). Con tutto ciò, il 13 marzo del 1942 si definiva «estremamente disordinato e alquanto svogliato» nelle letture, perché faticava a portare a termine lo Zibaldone di Leopardi e il primo volume del Don Chisciotte. Di quest’ultimo dava un giudizio che lascia intendere quanto solida e profonda fosse la sua educazione letteraria:
Ti do tutte le ragioni sul carattere nettamente secentesco di questo libro: l’umanità meravigliosa di D.C. e di Sancio è in realtà alquanto soffocata da tutte le soprastrutture e divagazioni di quel brav’uomo di Cervantes, del quale riesce difficile, per i profani di storia della letteratura e della civiltà spagnola, comprendere la genesi filosofica e sociale, mentre quella che resta schiacciantemente evidente è, purtroppo, soltanto la derivazione puramente letteraria dalla decadenza del nostro Rinascimento. Che agli stranieri faccio lo stesso effetto la teologia ecc. di Dante? Problemi interessanti per i loisirs di un guerriero.
Anche la sua passione musicale restava ben viva: «Strimpello con zelo il pianoforte (ne ho trovato uno a pochi passi dall’accantonamento), ristudio i valzer di Chopin e mi dedico persino a tradurre ritmicamente (dal tedesco) i testi di certe arie e pezzi d’opera russi (Glinka) stupendi, per farli cantare a un certo mio sergente dotato di una magnifica voce di basso, e già cantante di cartello. (15 maggio 1942)».
Gli stava particolarmente a cuore la pubblicazione della traduzione di Salammbô, l’opera di Gustave Flaubert che era stata pubblicata nel 1862, cinque anni dopo Madame Bovary, e che proiettava il lettore «dopo la quotidiana vita moderna nell’antichità più stranamente colorita, barbara di superstizioni misteriose e cruente»: «opera mirabile, possente, d’un respiro vasto seppur faticoso», l’ha definita Vittorio Lugli (Lugli 2005, 8556): e certamente, viene da aggiungere, di non meno impegnativa traduzione, tanto che molti anni dopo Castellani definì quel suo lavoro una «fatica non gratificante» (Castellani 1980a, XXIV). La versione gli era stata commissionata da tempo dalla Utet, lui l’aveva già quasi conclusa nel marzo del 1940, a quanto risulta da una sua lettera ad Agosti del 28 di quel mese. E sicuramente pochi mesi dopo la consegnò all’editore, corredata da un’impegnativa introduzione in cui dimostrava la sua stoffa di critico letterario. L’apparato critico gli stava particolarmente a cuore: «O provvedono a far compilare le note in base alla distinta che io avevo compilata […] o altrimenti pubblichino il libro senza note», scriveva alla sorella Nini poco dopo l’arrivo in Russia, il 4 settembre 1941. Alla fine le note furono affidate alla cura di Massimo Mila, e Castellani ne fu molto soddisfatto, incaricando la sorella di tenere i rapporti con lui. Nella primavera del 1942 ricevette le bozze. E una lunga lettera che scrisse a Nini il 4 maggio, anch’essa conservata in AGA, fa capire con quale cura scrupolosa seguisse gli ultimi passaggi prima della pubblicazione del libro: ne riportiamo, da una pagina che elenca ben undici raccomandazioni su punti specifici, un passo a beneficio di chi coltiva l’arte della traduzione:
«Falci tolte su…»: E’ brutto, ma non lo credo un idiotismo. «Prese»è generico (anche “prises”, dirai, è lo stesso , ma in francese segue un “dans les” che in italiano andrebbe reso con “nelle”, non già con «dalla», e allora si perde, con tutta quella filza di e, ogni rilievo di stile. «Ritolte» non ha senso o almeno non lo vedo. Giorgio non conosce qualche linguista, non un dilettante?, Dionisotti, p. es., non potrebbe fare al caso? (sottolineature nel testo).
Come e più che in altri casi, non è semplice giudicare la qualità letteraria di una traduzione che ha ormai quasi ottant’anni, tanto più di un libro che – per quanto lo si possa giudicare «un capolavoro» – è stato praticamente dimenticato rispetto alle oltre opere del suo autore. Resta comunque il fatto che la traduzione fu ristampata ancora nel 1954 e nel 1967, riscuotendo da questo punto di vista più successo di quella quasi coeva (1943) che per Einaudi fece un nome illustre, Camillo Sbarbaro, e che solo dagli anni ottanta ne tornarono a circolare altre diverse.
Castellani, che aveva trascorso in Russia tutto l’inverno e la primavera del 1942, ebbe la soddisfazione di avere materialmente tra le mani la sua traduzione nella tarda estate, mentre stava beneficiando di una licenza di quattro mesi, che passò a Milano: alla dedica che figura nel frontespizio a Giorgio Agosti, ne aggiunse una manoscritta sulla copia consegnata a lui e a Nini il 26 settembre 1942, che non si legge senza emozione: «Al Nu e a Giorgio, come chiusa e ricordo di questi quattro mesi di felice libertà provvisoria, e in attesa ormai certa di quella definitiva» (la sottolineatura è nel testo).
Intanto però, alla fine di settembre, finita la licenza, tornò in Russia, quando ormai l’esercito italo-tedesco stava soccombendo alla controffensiva sovietica. Essendo stato fra i primi a partire con il Csir, ebbe la fortuna di far parte dell’ultimo contingente di settecento «avvicendati» che, sostituiti da truppe fresche, tornarono in Italia alla fine del 1942. «Avemmo – ricordò poi lui stesso – l’inconcepibile fortuna di salire su un treno che, infilando per miracolo il percorso giusto (chi partì in senso contrario, cioè verso sud, trovò la strada tagliata dopo pochi giorni), doveva riportarci in Italia» (Pochi ritornano, in «Giusitizia e libertà», 29 agosto 1945).). Partì il 17 dicembre dalla stazione di Kantemirovka, la quale fu ripresa dai russi meno di un mese dopo, mentre per l’esercito italiano iniziava la disastrosa ritirata che avrebbe lasciato dietro di sé decine e decine di migliaia fra morti, dispersi e prigionieri.
Castellani non rievocò spesso la sua esperienza in Russia: lo fece con il suo nome quando nell’estate del 1946 firmò la prefazione al diario della ritirata scritto da Nuto Revelli, intitolato in quella sua prima edizione Mai tardi e uscito da un piccolo editore di Cuneo, Panfilo (Einaudi lo ripubblicò poi nel 1967 in un’edizione riveduta con il sottotitolo Diario di un alpino in Russia). Quello scritto dice indubbiamente molto dello stato d’animo con cui l’intellettuale milanese aveva affrontato la campagna di Russia, uno stato d’animo che tendeva ora a erigere a paradigma della generazione di «antifascisti ormai trentenni […] che sembrava condannata a una stasi perpetua»:
Combattemmo, pur sapendo che quella era una guerra inutile, una guerra che fatalmente si sarebbe risolta in un disastro, facemmo quello che si chiamava «il nostro dovere», ma esso era per noi un dovere di uomini, non di soldati. Era la nostra risposta necessaria all’appello di solidarietà, di dignità, di rettitudine che sentivamo salire verso di noi da una collettività sempre più offesa e avvilita. (Castellani 1946, 2)
Nuto Revelli, in una lettera privata del 27 luglio 1946 a Mino, mostrò di apprezzare il testo dell’amico (diventato tale durante la guerra partigiana), anche se sembrava preoccuparsi che la sua «narrazione» suonasse quasi come l’autoadempimento della profezia antifascista per la quale il regime, generatore di guerra, dalla guerra sarebbe stato travolto. Se Mino era andato in Russia già sperando che la sconfitta significasse la liberazione dal fascismo, Nuto voleva che si capisse che anche dalla dolorosa presa di coscienza indotta dalla tragedia della ritirata era nato – come testimoniava la sua personale esperienza – il riscatto di una generazione di italiani. Erano due sensibilità antifasciste diverse, che si erano fuse nel crogiuolo della Resistenza.
Ma accanto alla prefazione a Mai tardi restano, del significato che ebbe per Castellani la partecipazione alla guerra di Russia, due testimonianze più sofferte e tormentate. La prima è la recensione al libro di Mario Tarchi (pseudonimo di Giusto Tolloy), Con l’armata italiana in Russia (Livorno 1944), che a guerra ancora in corso aveva già pubblicata, firmandosi «Matteo», sui «Nuovi quaderni di GL» (luglio-ottobre 1944). In quella recensione Castellani ricordava l’angoscia di chi,
privo di ogni contatto con i suoi compagni e maestri di fede [si era dovuto adeguare] al vuoto tran-tran regolamentare e alle basse ma imprescindibili esigenze della vita di guerra: rinchiudendosi […] nella torre d’avorio dei suoi sentimenti e delle sue certezze, nutrendosi di letture e di riflessioni, preparandosi e migliorandosi per quanto gli era possibile in vista di quel domani che, malgrado tutto, doveva prima o poi affacciarsi all’orizzonte; tutto questo accompagnato dalla precisa e bruciante coscienza […] di contribuire anch’egli, per azione o omissione, alla negoziazione di quei valori ai quali credeva con tutta la forza della sua anima, e in nome dei quali (pensiero particolarmente ossessionante) alcuni dei suoi migliori amici languivano in quel momento nelle carceri fasciste (Soldati italiani in Russia, 118).
La seconda testimonianza è contenuta in una lettera del 20 luglio 1947 a un compagno che aveva conosciuto a Chambéry nelle settimane precedenti l’8 settembre, di nome Nalin, e mette l’accento su un’altra ragione di inquietudine:
Avevo già fatto […] molte esperienze: ad una ad una erano fallite, e il coronamento di questo fallimento era stata la partecipazione di me, militante comunista, alla campagna di Russia, con relativa medaglia al valore. Avevo, insomma, in quei mesi sempre vivissima (o sempre presente) la coscienza di aver mancato in maniera flagrante ai miei più elementari doveri morali […]. E’ inconcepibile un militante talmente incapace di proselitismo che, non solo non riesca a fare un proselite, ma finisca per lasciarsi prender nell’ingranaggio opposto, a combattere (passivamente finché si vuole, ma combattere) contro i portatori dei suoi ideali.
Tornato in Italia nel gennaio del 1943, Castellani trascorse un breve periodo di licenza a Milano, poi fu assegnato a una batteria costiera nei pressi di Noto, in Sicilia. Vi rimase fin quasi alla fine di marzo, poi, probabilmente grazie anche ai buoni uffici di un parente, un cugino paterno, fu trasferito appunto a Chambéry, in una zona della Francia che dopo lo sbarco anglo-americano in Algeria e Marocco era passata nel novembre del 1942 sotto l’occupazione italiana. Lì, scrisse più tardi, fu addetto «a uno schifoso ufficio di censura della posta estera»: «ho pagato con quel ripugnante lavoro la fortuna di essermi imboscato e di aver evitato la prigionia angloamericana e di esser tornato al Nord dalla Sicilia», scriverà all’amico Gustavo Malan il 15 ottobre 1983. A Chambéry era stato richiamato in servizio come sottotenente della guardia di frontiera Emile Chanoux, l’animatore del movimento per l’autonomia valdostana Jeune Valdôte, il quale era entrato sempre più apertamente in attrito con il centralismo del regime fascista. I due divennero amici: «Ho vissuto con lui mesi di attesa, di sfiducia, d’incertezza, e ore di febbrile ed ansiosa felicità», avrebbe ricordato Castellani introducendo un opuscolo di Chanoux, morto sotto le torture dei nazifascisti nel maggio 1944, Federalismo e autonomie, pubblicato durante la guerra partigiana, e ricordandolo con commozione «nella sua fierezza e insieme nel suo pudore di montanaro, nella sua umiltà di credente e nella sua consapevolezza di uomo moderno». Quando giunse l’8 settembre, non ebbero esitazioni: riuscirono a sfuggire ai tedeschi nascondendosi in una fattoria nella zona della Grande Chartreuse, e di lì, sempre a piedi, passando per la mulattiera del Col de la Seigne, a raggiungere prima Courmayeur e poi Aosta. Qui, informato che sulle montagne si andavano formando i primi gruppi di resistenza, Mino decise di raggiungere Torre Pellice, dove era sfollata la sorella Nini, che era stata raggiunta dalla madre e dall’altra sorella Enrica (Ru). Vi arrivò la sera del 24 settembre e, come scrisse quarant’anni dopo, «in quel momento iniziò la vita nuova» (Il mio 8 settembre, in allegato alla lettera a Gustavo Malan citata).
Giorgio Agosti lo presentò al gruppo del Partito d’azione che si stava organizzando nella cittadina piemontese: Mario Andreis, che già aveva conosciuto durante il servizio militare in Piemonte, e poi Franco Venturi, Vittorio Foa, Giorgio Diena, i fratelli Malan, Poluccio Favut, Dino Bolla, Sergio Toja, Willi Jervis. Alle prime riunioni di «quella specie di comitato provvisorio» del Pda che si era costituito a Torre Castellani aveva assistito – scrisse sempre in quella lettera a Malan – «in una posizione tutt’altro che ufficiale (dati i miei precedenti ero ancora censé di essere comunista)». Ma non tardò a integrarsi pienamente in quel nuovo mondo, e ciò non avvenne solo per effetto della rete di rapporti amicali che già prima dell’inizio della guerra lo aveva portato, attraverso Giorgio Agosti, ad avvicinarvisi: l’adesione al Partito d’azione fu lo sbocco di una crisi ideale che prendeva le mosse più lontano nel tempo. Già «negli anni ’38-‘39», infatti «non vedevo il comunismo (o meglio, le possibilità di avvenire del comunismo, almeno in Italia) – spiegò nel 1947 nella citata lettera a Nalin – che sotto la luce di movimento di effettiva democrazia: democrazia anche violenta ma democrazia»; e aggiungeva: «Nel ’43, poi, era veramente il momento più favorevole per vedere le cose sotto questo punto di vista: si poteva sperare molto più di oggi in un riavvicinamento sostanziale, in un reciproco arricchimento fra comunismo e democrazie occidentali: la lotta comune contro il fascismo offriva un piano immenso per sviluppare in questo senso una propaganda antifascista».
Possediamo poche notizie particolareggiate sulla partecipazione di Castellani alla Resistenza. A dispetto delle competenze acquisite in Russia e della qualifica riconosciutagli dopo la Liberazione di membro del Comando regionale piemontese GL con il grado di vicecomandante di Gruppo di divisione e ispettore, il suo ruolo fu certamente più politico che militare: Leo Valiani lo menziona come membro del Comitato esecutivo Alta Italia del Partito d’azione, in seno al quale, in occasione del dibattito sul ruolo dei CLN e sul loro possibile allargamento alle organizzazioni di massa, nel novembre 1944, lo ricorda schierato con l’ala sinistra del partito (Valiani 1971, 145). Il fascicolo del suo riconoscimento come partigiano combattente ne attesta la presenza nelle formazioni in Val Pellice dal 25 settembre al 1° novembre 1943 e ne riferisce il ritorno a Milano dopo quella data «perché chiamato a svolgere lavoro politico». Aggiunge poi che dal maggio 1944 organizzò e diresse «a Torino, in modo perfetto, la pubblicazione e diffusione della stampa destinata alle formazioni partigiane»: e su questo aspetto della sua attività lasciò soltanto pochi mesi dopo una testimonianza dettagliata e illuminante (Castellani 1945). Al momento culminante dell’insurrezione era ancora a Torino, chiuso in tipografia per preparare il nuovo quotidiano torinese del partito, «Giustizia e libertà», il cui primo numero uscì il 1° maggio 1945.
Al di là di questi dati – diciamo così – curricolari, se si vuol cogliere il modo in cui Castellani visse e sentì la stagione della Resistenza, in particolare di quella che lo vide partecipe attivo nelle valli del Pinerolese, è bene ricorrere al fermo immagine che ne fissò, come riflesso anche della sua esperienza diretta, in un bello scritto apparso nel 1949 sul secondo fascicolo de «Il Movimento di liberazione in Italia», la «rassegna bimestrale di studi e documenti» che l’omonimo Istituto nazionale cominciò a pubblicare proprio in quell’anno. Era una recensione di due romanzi, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, «libro sorridente di gioventù», e soprattutto L’Agnese va a morire di Renata Viganò, che gli sembrava «un libro partigiano al cento per cento, e quindi un libro da leggere per chi ha conosciuto la nostra guerra»:
Ricordiamo di quanti oscuri eroismi era intessuta […] la lotta di liberazione, quale potere esaltante essa esercitava nei confronti dei tipi umani più impensati […] La chiave di volta della nostra lotta fu proprio qui, nell’avere potuto superare, grazie alle Agnesi, il pauroso problema di collegamenti fra coloro che conducevano la lotta armata e le immediate retrovie; la nostra vittoria si decise qui, nell’aver trovato il materiale umano necessario a tessere, quella strettissima, infrangibile rete che copriva il tratto, breve ma micidiale, intercorrente tra prima linea e popolazione delle zone agricole, in montagna come in collina ed in pianura. («Il Movimento di liberazione in Italia», 1949, n. 3, 50- 53)
5. Tra politica e letteratura. Gide, Thomas Mann e la collana di Teatro di Rosa e Ballo
La fine della guerra significò anche per Castellani un faticoso ritorno alla normalità: una normalità precaria, in cui l’entusiasmo per la prospettiva della ricostruzione si accompagnava a inevitabili soprassalti di delusione, di «incertezza e quasi sgomento […] al veder riaffiorare tutta la massa immane dell’eredità fascista in ogni ganglio, in ogni arteria della cosa pubblica» (I segni della vergogna, in «Giustizia e libertà», 8 giugno 1945). L’impegno politico sicuramente continuò ad occupare un posto importante nel suo orizzonte per almeno tre anni. Un trafiletto della cronaca cittadina del «Corriere della sera» lo annunciava il 10 agosto 1947 fra gli oratori della «grande adunata di popolo» che quella sera avrebbe commemorato i quindici fucilati di piazzale Loreto: affiancava, come rappresentante di un Pd’A destinato a scomparire due mesi dopo, il democristiano Luigi Meda, il socialista Ferdinando Targetti e il mitico comandante comunista dei Gap Giovanni Pesce. Collaborò regolarmente alla stampa del Pd’A, e per un brevissimo periodo, quando questo era ormai vicino a sciogliersi, fu formalmente direttore dell’effimero settimanale dell’Unione regionale lombarda del partito, «Il nostro lavoro». Vi è almeno un riscontro certo della sua collaborazione al «Politecnico» diretto da Elio Vittorini, e precisamente al n. 10 del 1° dicembre 1945: una minuscola nota in corpo 6 precisa che alla preparazione dei servizi sulla Germania, a cui quel numero dedicava gran parte delle sue pagine, «ha prestato aiuto prezioso il dott. Emilio Castellani». Questo «aiuto» consisteva, oltre che nella traduzione dei brani di Toller di cui diremo e che è sicuramente sua, probabilmente anche in quella della Ballata del soldato morto di Brecht, del 1918 (Barbon 1987, 51 e 286), che però, come risulta da una sua lettera del 14 gennaio 1951 a Franco Fortini, fu sicuramente anche rimaneggiata da quest’ultimo. Con particolare frequenza scrisse sul quotidiano torinese «Giustizia e libertà», poi divenuto settimanale, sul quale, fra pezzi firmati per esteso e pezzi siglati con le sole iniziali, si contano almeno dodici suoi contributi, che spaziano su temi molto diversi: oltre a due recensioni (una è quella della Storia della Repubblica tedesca di Arthur Rosenberg) spicca una commossa commemorazione di Giorgio Latis, un giovane ebreo milanese caduto la sera prima della liberazione di Torino, con cui era stato a stretto contatto nei mesi della clandestinità a Milano e la cui biografia, ricca di interessi letterari e teatrali, assomigliava singolarmente alla sua.
Nel corso di questi tre anni, le sue posizioni politiche andarono definendosi in modo sempre più chiaro: il distacco dal comunismo, anche dalla sua versione italiana che seduceva in quel momento molti intellettuali, si era ormai consumato, senza livore ma con qualche amarezza per la totale chiusura che il Pci aveva mostrato nei confronti del Partito d’azione (fu questo il tema dell’articolo forse più “politico” che scrisse per «Giustizia e libertà», Togliatti e noi, apparso il 18 gennaio 1947), mentre la diaspora che accompagnava la dissoluzione del partito lo vide schierarsi sempre più decisamente con la corrente favorevole alla confluenza nel Partito socialista.
Durante l’attività clandestina si era legato di profonda amicizia a Franco Venturi. Le lettere che gli scrisse tra il luglio del 1947 e il marzo 1949 (conservate in AFV), quando Venturi era addetto culturale dell’ambasciata italiana di Mosca, oltre ad assolvere il compito esplicitamente affidatogli dal suo interlocutore di fornire ampi ragguagli sulle novità editoriali italiane, documentano bene questo itinerario, fornendo una cronaca vivace e disincantata della crisi del Pd’A. «Che razza di guazzabuglio questo partito, il vero “specchio della piccola borghesia”, una riedizione dello spirito di Bastian contrario; italiano fino al midollo delle ossa», scriveva il 14 luglio 1947; pochi mesi dopo motivava le ragioni della scelta compiuta a favore del Psi:
Non vedo altra via; tanto più che dopo Byalistock [la conferenza di fondazione del Cominform, l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti europei sotto la rigida direzione staliniana] e dopo quello che sta succedendo in Francia e anche in Inghilterra, l’esistenza di un forte partito di sinistra e non anticomunista nel terzo grande paese occidentale mi sembra una cosa di grande importanza, forse l’unica ragione di non disperare» (4 novembre 1917).
Sulla base di queste premesse, non stupisce che, nell’imminenza delle deciseve prime elezioni politiche della Repubblica, il 18 aprile 1948, dichiarasse a Venturi di sentirsi « stavolta […] ben deciso a non farmi prendere dalle Hemmungen [inibizioni, remore]» e a votare per il Fronte popolare, la lista di candidati socialcomunista.
In tutto questo tumultuoso periodo la sua posizione lavorativa era rimasta piuttosto precaria. Era tornato ad abitare a Milano, dove dal 1946 sino alla fine d’ottobre del 1947 lavorò all’Usis (United States Information Service), l’ente americano di propaganda culturale, ma continuava a mantenere anche rapporti assai stretti con Torino, e all’inizio di aprile del 1947 declinò – con evidente rammarico – una proposta di lavoro dell’editore De Silva, avanzatagli personalmente dal fondatore e direttore Franco Antonicelli, ritenendo «alquanto insufficiente» il compenso che gli era stato proposto (30.000 lire mensili). La sua aspirazione sarebbe stata, scrisse a Venturi il 14 luglio 1947 chiedendogli se potesse aiutarlo, «lavorare nel campo dei rapporti culturali italo-francesi». Presentò anche, forte delle elevate competenze linguistiche che gli erano proprie (all’USIS aveva perfezionato anche quelle in inglese) una domanda di assunzione all’Unesco, che evidentemente non andò a buon fine. Dal 1° novembre 1947 fu assunto alla Pirelli nella direzione dell’Ufficio pubblicità. Nonostante l’ironia con cui il 4 novembre 1947 annunciava a Venturi la cosa («Sono curioso di vedere […] se resisterò all’aria che si respira in quei Leviatani con orologio di controllo e spreco di dott., rag., cav. e simili»), la sistemazione, che gli era stata procurata da Paolo Polese, un giovane dirigente che proveniva dalla Olivetti, già rappresentante del Pd’A nel Comitato di liberazione nazionale della Lombardia e membro della Consulta, era piuttosto interessante. L’ambiente della Pirelli in quegli anni era vivace e fervido di iniziative, come la pubblicazione di giornali aziendali che lasciavano ampio spazio al dibattito politico, facendo della “democrazia pirelliana” un fiore all’occhiello. Proprio nei mesi in cui Castellani veniva assunto, la decisione di rinnovare il linguaggio pubblicitario e la comunicazione interna approdava alla pubblicazione di un rotocalco aziendale, la «Rivista Pirelli», che si poneva l’obiettivo di una dialogo costante tra il mondo dell’industria e della tecnica e l’universo dell’arte e della cultura (Pozzi 2012, 74-94). Era un ambiente che avrebbe dovuto essergli congeniale, ma per qualche ragione non lo fu, tanto che meno di tre anni dopo, come vedremo, lo lasciò.
Intanto, con la sconfitta elettorale del Fronte popolare il 18 aprile 1948, la passione di Castellani per la politica si intiepidì: del resto, in quei tre anni di dopoguerra, non era mai stata tanto forte da far passare in secondo piano l’altra e più autenticamente sentita, quella per la letteratura. Nel clima di vibranti speranze immediatamente successivo alla Liberazione, in un articolo pubblicato il 1° novembre 1945 sul quotidiano torinese «Giustizia e libertà», Letterati al bivio, già si interrogava sulla funzione della letteratura rispetto alla società, e notava che la letteratura contemporanea, «da Flaubert giù giù fino a Baudelaire e agli ermetici francesi e italiani», aveva posto «fino all’esasperazione» l’accento sull’individuo: auspicava perciò una nuova stagione, all’insegna di «un impegno più vasto, nella lotta per la ragione; ché senza questa non è concepibile libertà». L’angoscia, la disperazione e la solitudine, scriveva, erano sì dati imprescindibili della condizione umana, ma a farne «motivo di compiacimento», e a «legare i suoi destini a quelli della classe attualmente dominante», la letteratura contemporanea avrebbe consumato «il più vergognoso tradimento ai danni della cultura e della civiltà», riducendosi a «maniera, complicità, vergogna». Sicuramente, gli interessi letterari restavano quindi in lui quelli dominanti, e molto del suo tempo libero continuava ad essere impiegato nelle traduzioni, anche se di autori che in quello scritto del 1945 aveva stigmatizzato per avere esercitato della società una critica «puramente accidentale e involontaria o, nei casi più fortunati […] eminentemente contraddittoria»: tra questi aveva menzionato André Gide e Thomas Mann.
Già nel 1944, a guerra ancora in corso, era uscita dall’editore torinese Frassinelli la sua traduzione della Symphonie pastorale (Sinfonia pastorale) di Gide, che uno dei più eminenti francesisti dell’epoca, Ferdinando Neri, lodò in una lettera del 29 luglio 1946 quando la vide due anni più tardi perché rendeva «assai bene lo stile asciutto eppure modulato di Gide». L’introduzione portava la data 1° maggio 1943, ma Castellani specificava di aver compiuto la traduzione dodici anni prima – quindi nel 1931, quando aveva vent’anni – e di averla riveduta dopo altri due o tre per apportarvi poi, prima della pubblicazione, solo minimi ritocchi. Se riproponeva questa opera tutto sommato minore dello scrittore francese, scritta nel 1919, era perché non aveva dimenticato «il fremito di fraternità spirituale» che tante pagine di Gide avevano suscitato nella mia generazione, e perché «l’esigenza di scandalo [che era stato] il più profondo motivo gidiano» restava ancora «quello che, nel complesso, giustifica e ravviva il suo messaggio ai nostri disincantati occhi di europei della metà del secolo». Ben più carica di ammirazione era invece la «nota informativa» premessa a un altro libro tradotto da lui per Frassinelli, il Tonio Kröger di Thomas Mann. La nota era datata gennaio 1945: anche in questo caso la traduzione era stata fatta ben prima – forse addirittura prima della partenza per la Russia, oppure nel tempo lasciato libero dal «ripugnante lavoro» di censura postale toccatogli nei mesi passati a Chambéry -, da un Castellani che molti anni dopo, pur giudicandola «realmente azzeccata» e tale da «conservare tuttora una sua validità», confessava di averla intrapresa «ancora assai digiuno quanto a preparazione linguistica […] fidando nel vocabolario» (Castellani 1980a, XXIV). In quelle pagine introduttive del 1945 Castellani lodava soprattutto la straordinaria qualità letteraria del racconto, «quell’aura estatica, assorta e febbrile ad un tempo, indimenticabile e affettuosa» che ne facevano «il poema dell’adolescenza»; ma sottolineava che in esso, «e forse in esso più che in ogni altro, si potrebbero rintracciare ed individuare tutti i più validi motivi dell’opera di Thomas Mann; e come sempre avviene nel campo della letteratura tedesca, da questi si potrebbe agevolmente risalire a considerazioni generali sull’anima tedesca, sulla “deutsche Seele”».
Quasi vent’anni dopo, ricostruendo in una testimonianza il percorso che nella prima giovinezza l’aveva portato ad avvicinarsi alla cultura tedesca, Castellani indicò proprio in Thomas Mann, e in particolare nella sua Montagna incantata (Zauberberg), l’autore che aveva «esercitato l’influenza forse più profonda sulla sua generazione, preservando una buona parte della nostra gioventù dalla morte spirituale» in cui la stava trascinando il fascismo con «la sua sistematica falsificazione dei valori e il suo aggressivo antiumanismo»: Wenige Bücher haben […] eine tiefere Wirkung auf meine Generation ausgeübt. Sie bewahrten einen gute Teil unserer Jugend vor dem geistigen Tod, den der Faschismus mit seiner systematischen Verfälschung der Werte und seinem aggressiven Anti-Humanismus in anderen herbeiführte (Castellani 1964).
Ma in quella stessa sede ricordò come, dopo la vittoria di Hitler in Germania, il riversarsi all’estero – anche in Italia e particolarmente a Milano – dell’ondata degli esuli antinazisti avesse avuto «l’effetto di mostrare a una coscienza europea che sempre più chiaramente stava prendendo forma quanto fosse attuale il tragico problema della democrazia tedesca» (die Wirkung, das tragische Problem der deutsche Demokratie innerhalb eines sich immer deutlicher abzeichnenden europäischen Bewusstsein aktuell zu machen): in proposito citò l’impressione destata dal «fenomeno Brecht» e dalla «meteora Toller», come li aveva definiti la rivista «Scenario» di Enrico Rocca, e dall’audace rappresentazione che «il geniale confusionario Bragaglia» (der geniale Wirrkopf Bragaglia) aveva osato mettere in scena dell’Opera da tre soldi, sia pure sotto il titolo di copertura de La veglia dei lestofanti (Castellani 1964, 31).
Non fu dunque un caso che alla sua prima traduzione letteraria dal tedesco, il Tonio Kröger di Mann, egli facesse seguire nel giro di un anno quelle di Mass Menschen (Uomo massa) e di Hoppla! Wir leben (Oplà noi viviamo) di Ernst Toller e dell’Opera da tre soldi (Dreigroschenoper) di Brecht. A dargliene l’opportunità fu la piccola casa editrice milanese Rosa e Ballo che, grazie al ruolo propulsivo assunto da Paolo Grassi con la sua concezione innovativa del teatro di regia, già durante gli ultimi mesi della guerra si era lanciata nella pubblicazione di una collana denominata «Teatro moderno», nella quale nel solo 1944 erano comparsi ben 16 titoli. Castellani conosceva Ferdinando Ballo da molti anni, perché la sua casa, ricchissima di volumi, di riviste e di dischi, era frequentata già negli anni trenta da molti dei giovani intellettuali della cerchia di «Orpheus» (Sisto 2019, 294-297). Fu su suo incarico che tradusse «con febbrile partecipazione» (Castellani 1980a, XXIII) tre delle opere più significative della collana, scrivendo anche l’introduzione della seconda e della terza (Uomo massa fu invece introdotto da Vito Pandolfi). Il teatro della Repubblica di Weimar esercitava un grande fascino negli ambienti intellettuali dell’Italia che rinasceva a una vita culturale più libera e meno provinciale: non a caso anche Einaudi – o quanto meno la sua componente milanese, rappresentata in primo luogo da Vittorini – aveva messo gli occhi sugli stessi lavori e altri analoghi (Mangoni 1999, 460; Di Tizio 2020). Un giovane Vito Pandolfi, nella Roma ancora occupata, aveva messo in scena l’11 febbraio 1943 «una personale e sovversiva versione della proibita Dreigroschenoper», con il titolo cambiato all’ultimo momento in L’opera dello straccione, ricalcato su quello dell’opera settecentesca di John Gay a cui Brecht si era ispirato (Di Tizio 2020). Lavinia Mazzucchetti, germanista insigne che aveva pagato il suo antifascismo non dissimulato con l’allontanamento dall’insegnamento universitario, ricordò qualche anno più tardi:
Fu con grata sorpresa e calda comprensione che a Milano, nell’ultimo non dimenticabile periodo della Resistenza, io ascoltai i propositi e le speranze del gruppo di Paolo Grassi, Bruno Revel, Luigi Rognoni, Emilio Castellani, Giorgio Strehler ed altri, i sogni concretati poi dalla piccola tenace impresa editoriale Rosa e Ballo. Quei trentenni impazienti di attuare il proprio Sturm und Drang riportavano fuori dalle macerie la nostra giovinezza sconfitta e tendevano istintivamente la mano ai vecchi sodali tedeschi caduti nella prima tappa di una lotta non troppo dissimile. (citato da Sisto 2019, 297-298).
A rileggere oggi le sue introduzioni a Toller e Brecht, si ha ben netta l’impressione che proprio questo sentimento avesse una parte importante nell’indurre Castellani, che si disse «fierissimo e felice» del compito affidatogli, ad accettare le proposte di Grassi e a lavorarci evidentemente anche durante il periodo di clandestinità a Milano. Quando uscirono i libri, l’Italia era libera da pochi mesi, e l’intento di riallacciare un filo con «l’altra Germania», lo stesso così presente negli ultimi scritti di Giaime Pintor – traspariva chiarissimo nelle note introduttive del traduttore.
Toller non era mai stato tradotto in italiano. La sua era una figura emblematica della tragedia della mancata rivoluzione tedesca: protagonista della effimera Repubblica bavarese dei consigli nel 1919, presto schiacciata dal governo centrale tedesco, scontò cinque anni di carcere duro e una volta tornato in libertà non riuscì mai a integrarsi pienamente nella sinistra politica e intellettuale tedesca, né socialdemocratica né comunista. Emigrato dalla Germania per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche del nazismo, morì suicida a New York nel 1939. Il suo personaggio affascinò presto Emilio Castellani: già nel 1945 aveva finito per Rosa e Ballo la traduzione della sua autobiografia, Eine Jugend in Deutschland (Una giovinezza in Germania), che però non fu pubblicata. Ma alcuni brani, quelli del capitolo decimo intitolato Rivoluzione, apparvero – come si è detto – il 1° dicembre 1945 sul n. 10 del «Politecnico» di Vittorini. Fu poi proposta a Einaudi che la accettò nel giugno 1960, ma rimase nel cassetto per altri dodici anni. Una pagina della postfazione che Castellani scrisse per l’edizione apparsa finalmente da Einaudi nel 1972 e in cui quei brani ricompaiono identici, spiega con particolare intensità le ragioni di questo fascino, sconfinante quasi nell’immedesimazione:
La disperata certezza di Karl Thomas [il protagonista di Oplà noi viviamo] di fronte alla marcia inarrestabile del sopruso e dell’irrazionale […] è la stessa che vibrava in noi quando per la prima volta la leggemmo, più o meno contemporaneamente ai suoi drammi – mentre assistevamo alla fuga affannosa degli ebrei da una Germania fumante di roghi, e mentre nuovi focolai di rivolta, di resistenza, di libertà si accendevano a Vienna e in Spagna. E noi restavamo inerti, paralizzati dall’orrore e dall’impotenza, come ipnotizzati dall’attesa di un grande uragano. E l’uragano venne, e ci trascinò nel suo gorgo, e come aveva fatto per Toller, incise a fondo nelle nostre carni e noi nostri cervelli (Castellani 1972, 258).
A impressionare Castellani era, di Toller, – come sottolineava nella nota introduttiva del 1945 a Oplà noi viviamo – più che l’artista, «l’uomo che ha avuto una fede, che l’ha sofferta e che per essa non avrebbe esitato a versare il suo sangue» (p. XI); una vita, come ripeteva ancora quasi trent’anni dopo, «brulicante di errori di gioventù, anche se vissuta, e soprattutto rivissuta e riferita,[…] con meditata e dolorosa intensità e con onestà intellettuale e morale esemplare» (Castellani 1972, 256). Dal punto di vista letterario e soprattutto teatrale, Castellani già nel 1945 mostrava di nutrire dubbi sulla validità dell’opera del drammaturgo tedesco («diciamolo schietto, non è un grande artista»): un giudizio che accentuò quando, nel 1971, accompagnò la riedizione dell’intera opera teatrale di Toller giudicandola «rugosa, invecchiata, devastata da cicatrici profonde, assai più di quanto non comporti il suo mezzo secolo di età». E tuttavia continuava a sentire in quella voce «stanca e incrinata […] una forza di richiamo, di irreprimibile ammonimento» (Castellani 1971b, V). Notiamo per inciso che Guido Davico Bonino, incaricato di seguire le collezioni di teatro di Einaudi, giudicò quell’introduzione a Toller «veramente un esempio di come si dovrebbe fare storia del teatro: storia delle idee, storia del contesto sociale, storia del gusto, ecc.» (AE, 12 novembre 1971).
A differenza dei lavori di Toller, mai tradotto in Italia, la citata messa in scena di Bragaglia nel 1930 dell’Opera da tre soldi di Brecht si era valsa della traduzione di due nomi illustri come Alberto Spaini e Corrado Alvaro, ma aveva avuto circolazione limitatissima. La traduzione che ne fece Castellani – apprendiamo da una sua lettera a Renata Bertozzi Mertens del 22 gennaio 1950 – era priva dell’autorizzazione di Brecht ma godeva di «un gentlemen’s agreement molto generico con Einaudi, in quanto quest’ultimo si presentava già allora come concessionario esclusivo dei diritti di Br.[echt] per l’Italia». La pubblicazione, nel 1963, era preceduta da una Nota introduttiva breve ma assai densa, che per quanto riguarda la traduzione metteva in rilievo come essa avesse avuto di mira «principalmente lo scopo di rendere il lavoro rappresentabile in lingua italiana», e quanto, per le «imperiose necessità della musica e dagli impacci creati dalla stessa lingua italiana (tanto povera di parole tronche non banali!)», fosse stata «improba» la fatica di tradurre i Songs. Sul piano interpretativo, Castellani presentava Brecht come un «marxista convinto», e la sua riforma del teatro «come primo passo sulla via di una rivoluzione economica e sociale», ma spiegava come i suoi intenti «trascendessero d’assai la facile propaganda», e come il suo comunismo, che era «quello della Germania weimariana, […] lo spartachismo ferito e sconfitto», gli imponesse «quella “nuova obiettività” la cui esigenza era nell’aria» e lo rendesse «oggi, ai nostri occhi, della Neue Sachlichkeit letteraria il più valido anche se forse involontario rappresentante» (pp. VII-XV). In una nuova introduzione alla Dreigroschenoper scritta negli anni settanta, più ampia e più matura, approfondì ulteriormente l’intreccio fra musica e testo, e più che gli intenti politici del lavoro sottolieò in modo particolare «il fine specificamente culturale» che con esso Brecht si proponeva, «quello […] di battere in breccia il wagnerismo come fenomeno egemonico della cultura borghese tedesca», ma al tempo stesso anche fare i conti con l’espressionismo e con la sua «retorica positività». Ma alcuni degli spunti della nota introduttiva del 1945, persino alcune espressioni letterali (la considerazione dei personaggi «nella loro schietta carnalità, al di fuori di ogni psicologismo») ricorrevano immutati, e immutato era l’invito a «riscoprire ogni volta in questo copione l’insegnamento di autenticità, il segreto di giovinezza che racchiude per i viventi in quest’era di transizione dell’Europa che è lungi dall’essere conclusa» (ed. e-book 1987, pos. 131).
Così, nel paese che si risollevava dal disastro del fascismo e della guerra, il trentaquattrenne Castellani si faceva conoscere dal mondo della cultura italiana per le sue traduzioni dal tedesco. Senza entrare nel merito della loro qualità, non si può non notare che queste prime tre traduzioni sopravvivono come le più autorevoli e vengono ripubblicate ininterrottamente ancora oggi. Per quanto riguarda in particolare il Tonio Kröger di Mann, basterà ricordare che la traduzione del 1945, poi subito ripubblicata da Mondadori nel 1946, fu lodata dallo stesso Mann in una lettera a Mino dell’8 luglio 1947. Attrasse l’attenzione anche di Einaudi che, ritenendo scaduti i diritti sui racconti di Mann pubblicati prima del 1906, interpellò Castellani per una loro possibile traduzione: del che egli, pur escludendo che vi potesse rientrare anche Tonio Kröger, si disse in una lettera del 16 marzo 1952 entusiasta, anche in considerazione di quanto poco lo avevano «vergognosamente pagato quei signori di “Epoca”»). Evidentemente però Mondadori, forse anche per l’insistenza di Lavinia Mazzucchetti – che aveva notato la traduzione pubblicata da Frassinelli e l’aveva apprezzata (Castellani 1980a, XXV) – non si volle lasciare scappare la preda, e Mino ripubblicò rivista la traduzione del 1945, insieme a quelle di altri racconti più o meno lunghi, nel secondo volume di Tutte le opere di Thomas Mann, edite da Mondadori e curate da Lavinia Mazzucchetti, che uscì nel 1953.
Mann, che nel frattempo lo aveva conosciuto personalmente a Roma in quell’anno o nel precedente, lo gratificò di una dedica (curiosamente in francese, mentre la loro corrispondenza era avvenuta fin lì in tedesco) avec sincère gratitude pour la traduction de ce livre. Fra i racconti tradotti da Castellani figurava anche Das Eisenbahnunglück (L’incidente ferroviario), sul quale vale la pena di citare il giudizio di Carlo Emilio Gadda, che probabilmente Castellani conosceva di nome come regolare collaboratore di «Corrente» alla fine degli anni trenta, e a cui prima che uscisse aveva evidentemente inviato in visione quel testo. Gadda, scrivendogli il 19 febbraio 1952, lo definì «magistralmente tradotto anche nelle sfumature di linguaggio»: «Tutte le figure sono viste con grande risalto e precisione: la psicologia dei singoli nella pluralità è intuita e resa a meraviglia». Nel 1954 i Racconti ebbero una seconda edizione, e la traduzione di Castellani fu definita nel frontespizio «unica traduzione autorizzata», togliendo questo titolo alla sola che fosse apparsa prima della guerra, nel 1926, quella di Guido Isenburg del Tonio Kröger per l’editore milanese Morreale: altre le si affiancarono nel tempo (tra cui quella di Anita Rho per Einaudi nel 1967), ma nell’edizione dei «Meridiani” Mondadori figuravano le sue, e continuano a circolare ancora oggi.
Di Toller si è detto che le due traduzioni del 1945 furono riprodotte senza varianti significative nel volume einaudiano che raccoglieva tutto il suo teatro. Per quanto riguarda L’opera da tre soldi, della riuscita della traduzione del 1945 testimonia nel modo più evidente il fatto che nel giro di pochissimi anni Castellani divenne il traduttore più noto di Brecht, o almeno delle sue opere teatrali, e che a lui fu affidata la cura della loro edizione einaudiana. Mino stesso, rievocando il suo incontro con il drammaturgo tedesco a Zurigo di qualche anno dopo, ricordò che «pur non sprecandosi in elogi – ciò che era suo costume – Brecht espresse su questa mia versione un giudizio completamente positivo» (Castellani 1971a, cit. in Barbon 1987, 73).
Certo, in quella traduzione non mancavano fraintendimenti e perfino errori (Barbon 1987, 72); e questa, come anche le altre due traduzioni uscite da Rosa e Ballo, furono negli anni riviste con grande accuratezza dall’autore, facendo cadere termini diventati desueti, o usi ormai anacronistici come quello della traduzione dei nomi propri in italiano, ma l’impianto restò in gran parte immutato. Per fare solo un esempio, della celeberrima Ballata di Mackie Messer che apre L’opera da tre soldi e che si compone di nove strofette, la traduzione rivista – anche grazie alla collaborazione di Fortini – da Castellani nel 1965, che è ancora quella che circola oggi più largamente, ne riproduce tre assolutamente identiche a quelle apparse nell’edizione di vent’anni prima, altre quattro contengono variazioni minime e solo due sono rimaneggiate a fondo.
6. Casa Einaudi e «quel porcospino del nostro Bertolt Brecht»
Negli anni fra il 1945 e il 1952 tradurre fu certamente, per Castellani, oltre che una passione, un modo per integrare le proprie fonti di sussistenza: tradusse così dal francese anche opere di carattere religioso (Les fioretti de Jean d’Arc, di Jean-Jacques Brousson, uscito a Parigi per Flammarion nel 1939 e divenuto I fioretti di Giovanna d’Arco per le edizioni Antonioli di Milano nel 1946), o di scrittori meno noti, come Gaston Cauvin, autore di L’homme clair (L’uomo chiaro), che uscì nel 1953 per la SAS, la Società Apostolica San Paolo, di cui era allora collaboratrice di primo piano la sorella Nini. Non vi dedicò minore scrupolo, come testimonia la corrispondenza con Cauvin, fitta di domande all’autore per intendere meglio il significato di alcune parole o espressioni da lui usate. Di quegli anni è anche l’unica altra sua traduzione che ci risulti dall’inglese: Tre miracoli, da A Book of Miracles, del 1939, di Ben Hecht, prolifico sceneggiatore americano, che Frassinelli pubblicò nel 1947. Nel 1949 uscì invece da Einaudi un’altra sua traduzione dal tedesco: Sangue e libertà in Germania. Memorie di un operaio tedesco, 1933-1945, di Friedrich Schlottenbeck, che era stato pubblicato a Zurigo dalla Europa Verlag nel 1945. Non si trattava certo di un capolavoro letterario, ma ci interessa per un duplice motivo. Il primo è che testimonia il ruolo che Castellani continuava ad avere tra quelle voci del dibattito pubblico italiano che rifiutavano la categoria della colpa collettiva «del popolo tedesco invasore, storicamente votato a un nazionalismo aggressivo e predatorio» (Cavarocchi 2019, 51), e volevano far conoscere l’esistenza di «un’altra Germania», sopraffatta nel 1933: una Germania che il pubblico italiano, almeno fino al 1936, aveva sì avuto modo di conoscere anche attraverso le maglie della censura fascista (Petrillo 2019), ma la cui immagine rischiava di essere sommersa e travolta dal risentimento antitedesco dopo la guerra. Il secondo è che a pubblicare il libro fu Einaudi, e questo fu, ben prima del teatro di Brecht, il primo volume firmato da Castellani come traduttore per la casa editrice torinese. I rapporti con la nEinaudi erano cominciati probabilmente già subito dopo la Liberazione, non fosse altro perché Mino nel brain trust di via Biancamano vantava numerosi amici, a cominciare da Massimo Mila e Franco Venturi. La traduzione di Schlottenbeck gli era stata affidata già l’8 marzo del 1946, e fu consegnata poco più di tre mesi dopo. I rapporti continuarono abbastanza fitti negli anni successivi, come attestano scambi di lettere particolarmente con Natalia Ginsburg, con proposte di traduzioni dal francese e dall’inglese che non ebbero seguito, e con Cesare Pavese (che gli proponeva vari libri in lettura). Nell’ottobre del 1948 gli fu proposto di tradurre Médecin malgré lui di Molière: a quanto risulta dall’archivio Einaudi, la segnalazione del suo nome proveniva, il 4 ottobre 1948, da Carlo Muscetta e da Corrado Alvaro, il quale ultimo – a suo tempo traduttore e adattatore con Alberto Spaini della Dreigroschenoper come Veglia dei lestofanti nel 1930 – aveva certamente notato la versione apparsa da Rosa e Ballo nel 1945 e apprezzato le doti di traduttore teatrale di Castellani. Questi accettò subito e molto presto consegnò il testo, venendo anche pagato nell’aprile del 1949: ma – a quanto risulta – Einaudi non pubblicò mai quella commedia (che ancora nell’aprile del 1952 sembrava sul punto di andare in tipografia): né nella sua traduzione, né in quella di altri.Castellani, però, era intanto diventato il principale regista della diffusione editoriale di Brecht in Italia (Barbon 1987, 73).
L’editore torinese aveva contattato il drammaturgo di Augsburg già il 2 agosto 1945, chiedendo di poter pubblicare L’anima buona di Szechuan, la Vita di Galileo e The Private Life of Master Race (il titolo in inglese di Furcht und Elend des Dritten Reiches, ossia Terrore e miseria del Terzo Reich) (AE, cart. 3, fascicolo 93). Allora non se ne era fatto nulla, ma appena Einaudi ebbe notizia che Brecht stava per andare a Zurigo riprese a tallonarlo e, contando probabilmente sul fatto che Castellani era il più recente traduttore del suo lavoro forse più famoso, la Dreigroschenoper, mandò proprio lui a incontrarlo nella città svizzera: l’accordo per la pubblicazione delle sue opere teatrali in Italia fu raggiunto e messo per iscritto in una bozza datata 18 marzo con correzioni manoscritte dello stesso Brecht, che figura nell’archivio di Emilio Castellani. Formalizzato poi in maggio, esso prevedeva a faithful and accurate translation (una traduzione fedele e accurata) di almeno dieci opere teatrali del drammaturgo tedesco entro diciotto mesi, con un anticipo di 200.000 lire sui diritti d’autore e una royalty del 10% sul prezzo di copertina di ogni copia venduta (APEC). L’accordo fu in sostanza rispettato, perché il primo volume del Teatro vide la luce nel novembre 1951. Poco prima, il 12 ottobre, Castellani aveva scritto a Brecht – in tedesco – un’accorata lettera di solidarietà (in calce alla minuta della quale figura però l’annotazione «non mandata») di fronte al comportamento delle autorità italiane, che avevano negato il visto all’intera compagnia del Berliner Ensemble, attesa alla Biennale di Venezia per la rappresentazione di Mutter Courage: Diese Erscheinung Ihrer Werke in italienischer Übersetzung […] wird fur solche Stupidität die beste Antwort sein, von der Seite der italienischen Kultur und Geistesfreiheit («La pubblicazione della traduzione delle sue opere in italiano […] sarà, da parte della cultura italiana e della libertà di pensiero, la migliore risposta a una simile stupidità»). E concludeva, riecheggiando e riadattando il verso Wir sind einverstanden mit euch («siamo d’accordo con voi») di uno dei Kontrollchore («cori di controllo») di un altro dramma famoso di Brecht, Die Massnahme (La linea di condotta): Wir sind einverstanden mit Ihnen, Herr Brecht. Heute wie früher. Und heute sind wir nicht mehr, wie früher, ein paar verzweifelten Intellektuellen, in Italien auch nicht (Siamo d’accordo con Lei, signor Brecht, oggi come in passato. E oggi non siamo più soltanto, come in passato, un paio di dubbiosi intellettuali, nemmeno in Italia –se non diversamente indicato, tutte le traduzioni dei brani citati sono mie).
Portare a termine il piano non fu un’impresa facile: Brecht si ostinava a non voler stipulare un regolare contratto di cessione dei diritti delle sue opere teatrali in Italia: soltanto il 27 febbraio 1956, pochi mesi prima della sua morte, espresse in termini molto generici in una breve lettera a Giorgio Strehler l’intenzione di affidare « per l’Europa» al Piccolo Teatro di Milano, «tutta l’edizione delle mie opere, una dopo l’altra» (Benedetto 2016, 28). D’altra parte – come Mino scriveva a Renata Bertozzi Mertens il 30 ottobre 1950 – Einaudi diceva di essere editore e non agente teatrale. Così la questione dei diritti di traduzione sulle opere di Brecht rappresentate in teatro rimase una questione aperta e spinosa, rispetto alla quale un grosso peso venne a cadere sulle spalle di Castellani e sulla stessa Mertens, che Brecht sembrava considerare la sua agente in Italia, pur non investendola formalmente di questa funzione. Stando a Wikipedia tedesco, si trattava di un’insegnante e scrittrice svizzera di padre italiano, che aveva conseguito il dottorato in romanistica e divenne in seguito regista di programmi radiofonici e televisivi e produttrice cinematografica. Durante gli studi, prima della fine della guerra, aveva fondato un circolo di discussione in cui erano stati coinvolti emigrati illustri come Ignazio Silone, György Lukács, Cesare Zavattini e lo stesso Brecht. Il 21 maggio del 1949, subito dopo aver rispedito il contratto firmato a Einaudi, il drammaturgo tedesco scrisse a Castellani ponendo l’ulteriore condizione che a tradurre le essayistische Teile, cioè le note che erano state poste dall’autore alla fine di molti dei drammi, fosse Reni Mertens, come la Bertozzi si faceva allora chiamare, la quale avrebbe dovuto anche figurare come co-curatrice dell’opera. Castellani si mise immediatamente in contatto con lei, che si affrettò a rispondergli. Da quel momento si avviò tra i due una stretta e cordiale collaborazione (Mertens fece anche leggere la sua tesi di dottorato su D’Annunzio a Castellani, che l’apprezzò molto), documentata dal fitto carteggio, conservato in APEC, che si protrasse fino al novembre del 1953, quando era ormai prossimo a uscire il secondo volume del Teatro. La scrittrice svizzera figurò effettivamente, con Castellani, come curatrice di questo e del precedente, ma tradusse solo una parte delle «parti saggistiche».
A lei Brecht delegò quasi completamente i suoi rapporti con Einaudi e con Castellani: e ci volle evidentemente una buona dose di pazienza, da parte di entrambi, per trattare con un personaggio il cui carattere notoriamente non era facile e che sistematicamente non rispondeva alle lettere:
Sto violentemente corrispondendo con Brecht per cercare di assicurare i diritti teatrali ai traduttori dell’edizione Einaudi – aveva scritto la Mertens a Mino già l’11 dicembre 1950 – perché la questione delle rappresentazioni è ormai acuta. Non so proprio se ci riuscirò, perché per principio Brecht non cede mai diritti a nessuno. […] Né in America né in Inghilterra, né in Francia né in Italia c’è chi abbia i diritti teatrali.
Castellani lo definì in una lettera a Reni Mertens del 4 luglio 1952 «quel porcospino del nostro B.B.» e in più di un’occasione lasciò traboccare la sua esasperazione. «Francamente ne ho fin sopra i capelli del buon Bertolt», scrisse a Luciano Foà il 27 giugno del 1953. Pochi mesi dopo, il 3 novembre, avendo appreso la notizia che Brecht aveva dato al Piccolo Teatro di Milano l’esclusiva per l’esecuzione della sua produzione teatrale «in considerazione dell’“enorme” attività e dello “straordinario” coraggio che quell’organismo aveva finora mostrato per la diffusione delle sue opere», si sfogò con la Mertens: «Non ho mai visto tanta villania e tanta sconoscenza, nemmeno da parte di “grandi” ben più grandi di lui… Mi avesse mai mandato un rigo di quello che ha stampato in questi anni, opere vecchie e nuove!». Per la verità, Strehler, che aveva trattato direttamente con Brecht i diritti del Piccolo Teatro alla rappresentazione in esclusiva dell’Opera da tre soldi per due anni, non aveva messo in dubbio che la traduzione fosse quella di Castellani, al quale si riprometteva di devolvere una parte del 50% dei diritti di rappresentazione (Benedetto 2016, 20). Ma a Mino bruciava evidentemente quell’enfatico riconoscimento, che senza dubbio gli suonava come un torto fatto a tutto il suo instancabile prodigarsi negli anni precedenti.
Per quello che emerge dal suo archivio, Castellani incontrò Brecht di persona probabilmente solo quella volta, a Zurigo, cui si è già accennato. Un’altra occasione si presentò nel settembre del 1951, quando il segretario generale dell’Einaudi, Luciano Foà gli chiese di rappresentare la casa editrice («Riteniamo che non ci sia persona più adatta, dopo l’improba fatica sostenuta per presentare l’opera di Brecht in Italia, ad assolvere questo compito») alla rappresentazione veneziana di Mutter Courage, ma all’ultimo momento, come si è detto, a Brecht non fu consentito di venire in Italia. In quell’incontro zurighese, nel 1949, avevano concordato il piano dell’opera: Brecht espresse le sue preferenze circa l’ordine in cui i suoi drammi si sarebbero dovuti succedere, e l’indice del primo e del secondo volume della traduzione italiana – che il curatore pensò sostanzialmente in modo unitario anche se poi il secondo uscì a distanza di diciotto mesi dal primo – dimostra che in larghissima parte furono rispettate, anche se Santa Giovanna dei Macelli slittò addirittura al terzo (Barbon 1987, 79).
Fin dalla metà del 1949, Castellani si buttò anima e corpo nell’impresa: si adoprò a ricuperare con l’aiuto degli amici, soprattutto degli amici milanesi degli anni trenta insieme ai quali aveva scoperto il teatro espressionista tedesco, le opere originali di Brecht, cosa allora non facile in Italia, e a cercare le traduzioni che erano rimaste nel cassetto, come quella della sua vecchia amica Giulia Veronesi, storica dell’arte e dell’architettura e già collaboratrice di «Corrente», che aveva tradotto Mann ist Mann e Die Massnahme; si diede da fare per trovare i migliori germanisti disponibili all’impresa, e in alcuni casi intrattenne una fitta corrispondenza con loro. Così avvenne per esempio con Franco Fortini, che tradusse con la moglie Ruth Leiser Die Heilige Johanna der Schlachthöfe (Santa Giovanni dei macelli) e Mutter Courage. E’ una corrispondenza molto interessante, sia perché lascia affiorare uno spaccato della vita quotidiana di un traduttore («per un lavoro simile “ben fatto” non posso chiedere meno di 35 mila, cioè il prezzo del mio prossimo cappotto invernale», scrive il 4 novembre 1949 a proposito della Santa Giovanna dei macelli «il tuo stanco, depresso, irritabile, contemptor et contemptus Franco Fortini»), sia perché ricca di interrogativi sui problemi soprattutto stilistici della traduzione di Brecht. Su questo punto lo scambio è molto franco. Fortini, per esempio, mette in evidenza il problema di rendere in italiano «dei “toni” lessicali, molto intricati, con parole gergali e basse, bruscamente mescolate a toni alti» (21ottobre 1949) e, pur lodando la traduzione della Dreigroschenoper di Castellani («le parti in prosa [sono] degnissime delle tue migliori traduzioni»), giudica le parti in versi «inconciliabili con lo spirito “slabbrato”, “sgualcito”, “sputtanato” del testo e della musica; ma il problema è di lingua italiana, non di capacità maggiore e minore» (4 novembre 1949). Dal canto suo Castellani dichiara di avere, in sede di revisione finale, «inciso a fondo» sulla traduzione di Fortini di Madre Courage: «mi è sembrato infatti che tutto lo stile del testo abbisognasse di una revisione, di uno sveltimento, di un adattamento alle necessità di un’eventuale (e molto probabile come saprai) recitazione sulle scene italiane» (10 luglio 1952). Dalla corrispondenza tra i due si evince anche che nella traduzione delle parti in versi delle opere di Brecht (in particolare nelle successive revisioni della Dreigroschenoper) Castellani si avvalse spesso della collaborazione di Fortini: in un biglietto non datato, ma sicuramente non anteriore agli anni ottanta, gli dedicò una scherzosa poesia:
Emilio Castellani traduttore
anche se fatto bi-commendatore
è tutto fuor che versificatore.
Ringrazia il suo compagno di cordata
Franco Fortini, penna acuminata,
della quartina che gli ha dedicata.
Franco, lo sai, questa è la vera croce:
di Brecht, di Goethe imitare la voce
spesso è mordere il mallo della noce (in FFF)
Oltre ad agire come vero e proprio regista dell’intera impresa della traduzione del teatro brechtiano, spendendosi anche in un rapporto spesso burrascoso con Einaudi per vedere pagati i traduttori (quando ormai il primo volume era concluso, per esempio, ne sequestrò letteralmente il dattiloscritto fino a che non fosse liquidato quanto dovuto a Reni Mertens), Castellani si addossò il peso maggiore delle traduzioni dei drammi contenuti nei primi due volumi, per i quali firmò, oltre all’Opera da tre soldi, Ascesa e caduta della città di Mahagonny, La madre, L’interrogatorio di Lucullo e Vita di Galileo, e collaborò con Federico Federici a Terrore e miseria del III Reich.
Di tutte le traduzioni effettuò un’attenta revisione, e dialogò serratamente con l’editore in merito anche ai dettagli tipografici. Al primo volume premise un’introduzione che tracciava un quadro sintetico ma molto efficace della poetica brechtiana: ne ribadiva la coincidenza solo temporale con l’espressionismo («in lui non vi è traccia di quelle convulsioni ideali che bruciarono la spinta creativa di tanti altri poeti e drammaturghi in visioni millenaristiche, in esplosioni velleitarie, in quelle che Enrico Rocca ha definito “orge dell’anima”») e ne coglieva piuttosto le affinità con «l’estetica funzionalista della Bauhaus di Gropius, che a partire dal 1926 riscattò quanto v’era di genuino nell’eredità espressionista – ossia lo slancio umanitario, l’urgente aspirazione a una comunità universale di spiriti»: era dal funzionalismo che la riforma del teatro di Brecht aveva ricevuto un notevolissimo impulso. Ma era soprattutto negli anni della guerra, «nel periodo della resistenza del mondo al nazismo e al fascismo», che il teatro di Brecht era assurto a «fenomeno di primaria importanza nel quadro della cultura moderna, riscattandosi da ogni precedente scoria intellettuale o scandalistica» (Castellani, Mertens 1951, VI, VII, X).
Chi ha studiato in modo approfondito la ricezione di Brecht in Italia, oltre a sottolineare il valore pionieristico di questa prima edizione einaudiana del Teatro non solo per l’Italia (perché una scelta analoga dei classici del teatro brechtiano non aveva precedenti né ebbe immediate imitazioni nemmeno in Germania), ha messo in luce l’originalità di questa interpretazione e la forte influenza che ha esercitato sugli studi successivi: tanto da far seguire all’analisi dell’introduzione scritta da Castellani e Mertens nel 1951 un lungo paragrafo – Von den Schwiergikeiten beim Schreiben über Brecht in Italien (Delle difficoltà di scrivere di Brecht in Italia) – che ripercorre la fortuna (e spesso la sfortuna) del drammaturgo tedesco nel nostro paese nell’arco dei trent’anni successivi (Barbon 1987, 75-97).
Il secondo volume del Teatro di Brecht uscì nel maggio del 1954, tre anni dopo il primo: un lungo intervallo di tempo che Castellani motivò con le difficoltà che aveva incontrato nel restituire une versione il più accettabile possibile dal punto di vista filologico.
Bastava dare un’occhiata ai due diversi originali di una stessa opera, opporre le traduzioni inglesi a riscontro degli originali tedeschi o raffrontare i testi di Brecht con gli spartiti di Weill a disposizione – avrebbe scritto nel 1971 – per convincersi del materiale alquanto fluido che caratterizzava il materiale di base […] Quattro [sic] anni trascorsi in stretta collaborazione con Cesare Cases e in assiduo contatto con un nuovo gruppo di traduttori capaci e pazienti poiché, per forza di cose, si trattava di affrontare opere […] sovente interessanti sotto aspetti filologici e sperimentali, ma disuguali e reciprocamente stridenti per lo stile e per la portata ideologico-tecnica. (Castellani 1971a, cit. da Barbon 1987, 82-83)
Il 21 maggio del 1954 Castellani scrisse a Luciano Foà che era contento che quel «lavoraccio» fosse finito, aggiungendo, con una stoccata a Brecht: «Di quel figuro dell’Autore non me ne importa niente; ma almeno che Giulio Einaudi sia contento e convinto di questo suo grosso sforzo, lo spero vivamente».
Quel “figuro” morì il 14 agosto 1956, pochi mesi dopo la messa in scena del Galileo, in febbraio, al Piccolo Teatro di Milano. Non sappiamo se in quell’occasione Castellani lo avesse incontrato. Certo, a parte l’irritazione che gli aveva causato nel corso degli anni il suo comportamento, Mino lo aveva enormemente stimato come scrittore e come artista, fino a giudicarlo, come scrisse nel 1968, «un punto di riferimento di assoluta preminenza nel travaglio culturale contemporaneo; e ciò non solo per la nostra generazione di quarantenni e cinquantenni, ma, lo si voglia o no, anche per le generazioni più giovani, e chissà per quanto tempo ancora» (Castellani 1963).
Einaudi, comunque, dopo la pubblicazione da parte dell’editore tedesco Suhrkamp di tutto il teatro del drammaturgo tedesco in dieci volumi, aveva deciso di «colmare le lacune» della propria edizione. Il 20 gennaio 1958 Luciano Foà scrisse a Castellani che la casa editrice sarebbe stata lieta di affidargli la cura del lavoro «che sarebbe un naturale completamento – giustificato dopo la morte di Brecht – della Sua meritoria fatica di qualche anno fa» (AE). Mino accettò e concorse a programmare anche questa impresa: in una lettera del 2 marzo 1958 discusse dei testi da includere e della scelta dei traduttori per il terzo e il quarto volume. Foà gli rispose il 13 marzo, accettando i suoi suggerimenti e anticipando che la casa editrice era disposta a stanziare per l’impresa la somma globale di un milione di lire, da suddividere tra curatore e traduttori (AE, 3, 93, 284 e copia in APEC). I due volumi sarebbero usciti nel 1961, a cura sua e di Cesare Cases, e Mino tradusse ancora Trommeln in der Nacht (Tamburi nella notte), Der Jasager und der Neinsager (Il consenziente e il dissenziente), Die Horatier und die Kuriatier (Gli Orazi e i Curiazi), e collaborò, rispettivamente con Giuseppina Panzieri e con Paul Braun, alla traduzione di Rundköpfe und die Spitzköpfe (Teste tonde e teste a punta) e di Schweijk im zweiten Weltkrieg (Schweijk nella seconda guerra mondiale).
Nell’archivio di Castellani il fascicolo della corrispondenza con Einaudi si conclude con l’ultima lettera di Foà sopra citata. Il che non significa naturalmente che cessassero i rapporti con la casa editrice: più di metà del voluminoso fascicolo personale di Castellani conservato nell’archivio Einaudi riguarda gli anni compresi tra il 1959 e il 1979, e vedremo subito quanto siano stati stretti e si siano addirittura intensificati. Ma è come se nella scelta delle carte da conservare – che come si è detto all’inizio non sembra casuale – con la conclusione del Teatro di Brecht egli abbia voluto segnare un punto di arrivo, raggiunto il quale il resto era secondario. Questa impressione è avvalorata dal bilancio che una ventina d’anni dopo, intervenendo a Monselice in una tavola rotonda sulla traduzione teatrale, Castellani tracciò lui stesso del lavoro che lo aveva tanto a lungo impegnato: un bilancio con molti accenni autocritici sulla «genesi parecchio frammentaria» e sulla «discontinuità stilistica» che avevano caratterizzato quella edizione, ma in cui si ascriveva il merito di aver voluto e saputo «coinvolgere un intero gruppo di lavoro in un’affermazione e assunzione di responsabilità intellettuale che avesse un significato molto preciso nel nuovo clima della cultura italiana». E sottolineava con forza:
Io ritengo che l’edizione einaudiana dell’opera di Brecht corrisponda abbastanza bene, pur nella sua approssimazione, al carattere fondamentale dell’opera brechtiana, e metta anche in luce che, di quest’opera, l’aspetto decisivo, imprescindibile – sotto pena di un totale misconoscimento – è il teatro. […] E’ augurabile – aggiungeva – che traduttori, adattatori, registi si convincano sempre di più che altra cosa è un testo drammatico “letto” e altra un testo drammatico rappresentato. (Castellani 1980b, 12)
Questo aspetto era per lui assolutamente centrale e, pur senza rivendicarlo esplicitamente, si ascriveva il merito di averlo tenuto in conto: quando Brecht diceva che il testo stampato di Dreigroschenoper (L’Opera da tre soldi) doveva valere come copione per il suggeritore, indicava «la chiave migliore» per intendere ciò che si aspettava dalle realizzazioni sceniche dei suoi lavori: «una scelta intelligente, un’intelligente, lucida, duttile spregiudicata scelta fra tanta abbondanza e sovrabbondanza di materiale, che estragga e metta nel miglior rilievo ciò che meglio si presta a una data circostanza particolare, a dati attori e strumenti, a un pubblico, a un tempo e a un luogo concreti» (Castellani 1980b, 12-13).
Brecht continuò comunque a occupare ancora per molti anni un posto centrale nell’attività di traduzione e di revisione di Castellani, che seguì con la massima attenzione ogni nuova edizione, perfino ogni ristampa, tallonando la casa editrice perché inserisse le modifiche e i ritocchi da lui suggeriti alle proprie e alle altrui traduzioni. Poco dopo l’uscita della nuova edizione del Teatro in tre volumi, nel 1963, il 17 marzo dell’anno successivo scrisse a Daniele Ponchiroli, caporedattore dell’Einaudi:
Spero che non mi deludiate; che non mi togliate, fra l’altro, il desiderio di rispulciare tutti e tre i volumi in vista della 2° edizione, e di scrivere quella lunga introduzione per la quale vado raccogliendo il materiale e che vorrei fosse, oltreché il risultato di più di vent’anni di lavoro, una parola finalmente non irragionevole su questo strapazzatissimo beniamino del secolo.
Era molto esigente, e non mancava di manifestare la sua irritazione quando le sue indicazioni non venivano seguite: in particolare si arrabbiò molto quando il volume del Teatro brechtiano pubblicato nella «Nuova universale Einaudi» fu messo in bozze nel 1965 senza tenere conto delle modifiche che aveva apportato alle proprie traduzioni, e chiese addirittura di togliere il suo nome come curatore dal frontespizio. Alla situazione fu posto rimedio solo dopo un fitto scambio di lettere con Ponchiroli – svoltosi durante la convalescenza da un infarto che aveva costretto Castellani a cinque settimane di degenza e riposo – e il volume comparve con la sua firma. Ma di nuovo si disse «scontento al massimo grado» della nuova edizione NUE del 1969, in cui aveva segnalato – invano, a suo dire – errori e omissioni (AE, 3, 93, 578).
Il rapporto con Einaudi fu quindi non sempre facile, ma alla fine era caratterizzato da caldi legami amichevoli con gli interlocutori che ebbe nel tempo: dopo Luciano Foà, fu la volta di Daniele Ponchiroli, poi di Guido Davico Bonino. A questo rapporto egli teneva moltissimo, tanto che riuscì in qualche misura a istituzionalizzarlo. Il 1° gennaio 1962 scrisse a Italo Calvino proponendo di diventare un consulente della casa editrice ed elencando i compiti che avrebbe potuto assumere:
Il genere di attività al quale mi potrei dedicare potrebbe essere, penso, piuttosto che quello di lettore di testi, quello di revisore di traduzioni dal francese e dal tedesco di testi di letteratura, musica, arte storia, cultura varia e, segnatamente, di testi teatrali. Inoltre potrei, e vorrei, continuare nell’attività di traduttore dal tedesco (occasionalmente anche dal francese. (AE, 3, 93, 354)
Poco più di un mese dopo fu raggiunto un accordo: la casa editrice si impegnò a corrispondergli uno stipendio fisso di 100.000 lire mensili «a valere sui compensi per i lavori che Lei eseguirà per la nostra Casa», quantificati in «una media di circa 100 cartelle al mese» (AE, 3. 93, 361). L’accordo si rivelò troppo gravoso, e Castellani dopo alcuni anni si trovò ad accusare uno “scoperto” di più di 600.000 lire nei confronti della casa editrice, che ricuperò moltiplicando il suo carico di lavoro non solo come traduttore e curatore delle opere di Brecht, ma anche come revisore e perfino come redattore di notizie editoriali e brevi presentazioni per il «Notiziario Einaudi».
Tra i compiti più impegnativi che lo assorbirono vi fu certamente quello della traduzione e della cura degli Scritti teatrali (1928-1942) di Brecht. Una prima breve raccolta di questi saggi apparve nel 1962, con un’introduzione di sole quattro pagine, ma non per questo meno densa e significativa. In essa Castellani ravvisava il loro maggior motivo d’interesse nella «visione di un teatro vivo, carico di energie chiarificatrici in ogni sua vena e fibra»: mentre giudicava «il suo messaggio umano più conturbante» quello racchiuso nei due ultimi saggi, Da una lettera a un attore e Dialogo durante una prova, espressione della sua esperienza «tutt’altro che facile, anzi piena di amarezze e di intralci» di scrittore e di direttore del maggiore teatro della Repubblica democratica tedesca. In quei due saggi, secondo Castellani, affiorava l’angoscia, «di aver troppo preteso dall’intelligenza umana, di aver involontariamente contribuito a una perniciosa radicalizzazione, di aver sterilmente peccato di “sinistrismo artistico”»: così da far recitare a Brecht, «con assoluta dignità. ma con umiltà toccante , il suo mea culpa» (p. XIV). Era un’interpretazione in cui si rifletteva anche il percorso intellettuale di chi scriveva, che dalle speranze rivoluzionarie del 1946 era approdato a una visione più realistica e “laica” (Barbon 1987, 110-111): e non a caso in uno scritto per la rivista «Resistenza» di pochi anni dopo (settembre 1966) egli avrebbe definito Brecht «un profeta del moderno laicismo». Una seconda edizione degli scritti teatrali del drammaturgo di Augsburg – molto più ampia, in tre volumi – vide la luce nel 1975. L’introduzione, che – scrisse Castellani a Davico Bonino il 29 novembre 1974 – gli era «costata un lavoro bestiale», era questa volta molto più ampia, e si soffermava soprattutto sugli aspetti dell’estetica teatrale. Non rinunciava però, nella parte finale, a una vigorosa polemica sia contro i critici che all’ultimo Brecht – glorificato ma anche messo in qualche modo sotto tutela nella Rdt – rimproveravano «l’abbandono dell’antica intransigenza accusatrice e innovatrice», sia contro quelli che bollava – riprendendo le parole di Massimo Castri – per avere ridotto l’epicità di Brecht «ad un realismo raggelato e statico o stilizzato» «cosicché – notava Castellani – il recalcitrante Brecht ha finito per essere assorbito e ufficializzato dall’industria culturale neocapitalistica, diventando strumento di rimasticamenti, mistificazioni e insensatezze dai segni più svariati» (p. XXV).
Castellani curò anche gli Atti unici dei primi e degli ultimi anni della vita di Brecht, che furono pubblicati, con Turandot ovvero Il Congresso degli imbiancatori (tradotto questo da Mario Carpitella), nel 1969: e tradusse anche – benissimo – molte poesie, curando insieme a Roberto Fertonani l’edizione einaudiana del 1968. Soprattutto scrisse le note introduttive – a volte brevi, altre molto più lunghe e impegnative – a non meno di dieci di quei Lehrstücke (Drammi didattici) che nell’introduzione al primo volume del Teatro aveva definito nel 1951 «schietti esempi di una concezione dello spettacolo teatrale come forma d’arte severamente finalistica e anti-individualista» e che Einaudi pubblicò nel corso degli anni sessanta separatamente, in edizione economica. Non è irragionevole supporre che una buona parte se non la maggioranza dei lettori italiani, e in particolare la generazione del Sessantotto, che certo lo ebbe particolarmente caro, il teatro di Brecht lo abbia conosciuto attraverso queste edizioni e attraverso la presentazione e l’inquadramento storico-letterario che di ciascuno dei drammi faceva Emilio Castellani: i quali, anche riletti oggi, dimostrano una straordinaria capacità di collocare quei drammi nel contesto storico particolare in cui venivano scritti, ricollegando le loro tematiche al percorso biografico dell’autore a sua volta inquadrato negli sconvolgimenti epocali della prima metà del Novecento. Basterebbe ricordare la mirabile prefazione alla Vita di Galileo del 1968, in cui sono ricostruiti i contesti in cui erano maturati i differenti rifacimenti del dramma, finendo col sottolineare che
Brecht più che a Galileo pensa a se stesso, al suo destino di scrittore di fronte alle convulsioni e al guazzabuglio della cultura strumentalizzata, al rischio di divenire, tra gli uomini futuri, oggetto di un culto entusiastico quanto equivoco, di una canonizzazione distorta e irrisoria […] “Sia lode al dubbio”, sempre, tenacemente, perfino rabbiosamente, al disopra di tutto, in eterno.
Ma altrettanti spunti in questo senso si possono ritrovare nelle introduzioni a Il signor Puntila e il suo servo Matti o a Švejk nella seconda guerra mondiale. E’ anche per questa lucidità critica, forse soprattutto per questa, che a Castellani è giusto riconoscere la qualifica di «voce italiana di Brecht» che gli ha attribuito Claudio Magris.
Quando all’inizio del 1974 andò in pensione, Castellani si candidò a un impegno per Einaudi anche più intenso. Le ragioni economiche, che avevano avuto in passato certamente un peso nella richiesta avanzata di istituzionalizzare il suo rapporto di consulenza, parevano ora passare in secondo piano (e infatti non venne quantificata una cifra) rispetto a motivazioni di carattere diverso. Il 13 maggio 1974 scrisse a Giulio Bollati, braccio destro dell’editore: «[Ora] posso e desidero dedicarmi con continuità al lavoro di traduzione e, più in generale, di “mediatore intellettuale” […] Quello che mi sta particolarmente a cuore è portare a miglior fine possibile quella che è sempre stata la mia principale motivazione in questo ramo di attività, cioè l’introduzione in Italia delle opere di Brecht».
Precisava che con la sua proposta non intendeva «minimamente contestare la funzione di specialista ideologico brechtiano» che svolgeva Cesare Cases e che nessuno meglio di lui poteva svolgere, ma che Cases stesso era troppo oberato di lavoro per potere seguire «le edizioni e le riedizioni brechtiane […] con la pignoleria necessaria». E concludeva:
Non credo di essere presuntuoso se mi considero “rispettabile” sotto più aspetti: anzitutto, la mia competenza di “ur”-brechtiano (è mia la prima traduzione in Italia di un’opera di Brecht, e di una grande opera, la Dreigroschenoper; il lavoro che da venticinque anni vado svolgendo per Einaudi su Brecht; infine la considerazione della quale, forse non del tutto immeritatamente, godo come traduttore e come studioso di germanistica, e che mi è valsa proprio in questi giorni il conferimento di un’onorificenza da parte del governo della Repubblica federale tedesca.
L’accordo fu trovato in poche settimane, con il pieno consenso di Cases: la corrispondenza con lui si intensificò molto negli anni successivi, lasciando intravedere piena sintonia. Nonostante i suoi scatti di umore, la sua orgogliosamente rivendicata «pignoleria» e il suo frequente brontolare per i ritardi con cui veniva pagato, la casa editrice di via Biancamano mostrò di tenere Castellani sempre nella massima considerazione: «Quanto alla nostra riconoscenza – gli scrisse Davico Bonino il 2 settembre 1977 – […] sappi che è grande. Sappiamo quello che hai fatto per l’Einaudi., non solo questa volta, e – se mi consenti il verbo – ti vogliamo bene per questo». Un anno prima, l’8 marzo 1976, lo stesso Davico Bonino gli aveva proposto con insistenza di tradurre una scelta degli scritti politici e sociali di Brecht. Castellani accettò e il 4 maggio 1977 annunciava di avere quasi terminato la traduzione. Ma due anni dopo il libro non era ancora uscito. Castellani se ne lamentò in una lettera del 29 luglio 1979 a Carlo Carena, allora segretario generale della casa editrice:
Questi scritti acquistano attualità dal “revival” Benjamin ormai in corso. […] I volumi di Benjamin che Einaudi ha già pubblicato o sta pubblicando (penso in particolare a “Avanguardia e rivoluzione” che sto rileggendo) sono pieni di altrettanti riferimenti espliciti e impliciti al pensiero soprattutto politico ma anche filosofico ed estetico di Brecht, quale è appunto contenuto negli “Scritti” di cui si tratta.
Aggiungeva che era importante non rimandare «alle calende greche» la pubblicazione se si consideravano «certe tendenze di nuova destra che vanno emergendo su scala internazionale», che lasciavano temere che «la stessa costellazione Brecht-Benjamin rischiasse di essere eclissata». La «sostanziosa e a volte aspra dialettica» con Brecht di cui era nutrito il pensiero di Benjamin poteva costituire «il più autorevole (storicamente) ed efficace (ideologicamente) degli antidoti» a questo rischio (AE). Giudicò la risposta interlocutoria di Carena «un po’ deludente», ma non insistette: preferì compiacersi che la collezione «Teatro» della casa editrice si arricchisse di altri volumetti brechtiani e in particolare dei Drammi didattici. Pregava però che non gli fosse chiesto di scrivere introduzioni che sarebbero state «inevitabilmente ‘obsolete’»: «Cases sarebbe la firma senz’altro migliore. Subordinatamente io penserei a [Luigi] Forte» (AE).
7. «In definitiva frustrante, se pur ricca: l’esperienza alla Rai
Al momento della messa in cantiere dell’edizione einaudiana del Teatro di Brecht Castellani era ancora un impiegato della Pirelli, ma già poco prima che uscisse il primo volume la sua vita era profondamente cambiata. Intanto nel dicembre del 1949 aveva sposato Maria D’Este, veneziana, sorella della moglie del suo “superiore” alla Pirelli, Paolo Polese. Poi, nel giugno del 1950, era stato assunto per concorso alla Rai, e si era trasferito a Roma.
Non deve essere stato facile, per lui, cambiare città. A Milano aveva radici profonde e, se le aveva allargate e ramificate, era stato a Torino. Per Roma provava sentimenti contrastanti, propri di molta parte della sinistra intellettuale settentrionale, che si rispecchiano in modo quasi paradigmatico nel grande libro di Carlo Levi L’orologio (1960) (De Luna 2017, pp. 50-51). «Che cosa in questa città mi riesce difficile da decifrare e mi irrita tanto?» si era chiesto la prima volta che era tornato nella capitale dopo la guerra, in un elzeviro dal titolo Sofferenza di Roma pubblicato sul quotidiano «Giustizia e libertà» il 15 agosto 1945; e nelle risposte che si dava non mancavano gli stereotipi: «Niente fabbriche, niente città operaia, un popolo soffre di una sofferenza innumerevole, diventa “popolino” come mai altrove […], un popolo disperso, che non si può raccogliere e far sentire il peso di una sua unità». Anche il ruolo assunto in una grandissima azienda doveva essere motivo di qualche inquietudine per chi aveva espresso nel 1947 il suo disagio per un «Leviatano» come la Pirelli, tanto più che ora si trattava di un’azienda “governativa”, che nel 1950 era ormai saldamente controllata dalla Democrazia cristiana e dalla coalizione centrista da lui avversata. Erano sentimenti probabilmente noti a un amico milanese come Franco Fortini, che lo stuzzicava con ironia: «nessuna speranza che tu ti ricordi di certe conoscenze (gianseniste) che si ostinano a vivacchiare tra i fossi e le marcite cisalpine», gli scriveva il 14 novembre 1950, e il 10 gennaio 1951 concludeva un’altra lettera con un allegro «Ciao governativo; ciao, traditore del proletariato; ciao, corrotto della Babilonia del popoli, della Putta delle Acque, della Meretrice delle Nazioni, ciao uomo che si scusa per il fatto di scrivere su di un normale foglio di carta extra strong, che il mio disprezzo ti copra, sozio dei potenti».
Eppure l’esperienza che si apprestava a vivere Castellani era un’avventura stimolante. Il Terzo Programma RAI, specificamente destinato ai programmi “culturali”, di cui fu nominato vicedirettore, iniziò le sue trasmissioni il 1° ottobre 1950, e si presentava come un progetto ambizioso, mirante ad estendere la funzione “educativa” della radio a diversi aspetti della vita artistica, letteraria, filosofica, oltre che naturalmente musicale. Il suo varo fu preceduto da un ampio dibattito sulle colonne del «Radiocorriere», il settimanale della Rai, a cui parteciparono dirigenti della radiofonia, giornalisti e critici (Isola 1995, 303-306). Il modello esplicitamente riconosciuto era il Third Programme varato dalla BBC nel 1946, nell’ambito di una riorganizzazione dei programmi che voleva suddividere nettamente le tre funzioni del servizio, quella informativa, quella di intrattenimento e appunto quella culturale-educativa (Isola 1995, 307). Come nel Regno Unito, anche in Italia il Terzo Programma fu concepito non quale una rete «di nicchia» destinata a una specifica fascia di pubblico, ma come un progetto a suo modo anch’esso a carattere universalistico, che parlava sì a un pubblico colto già esistente, ma che si sperava potesse contribuire ad allargarlo, e in qualche misura a crearlo ex novo.
Secondo la migliore ricostruzione di sintesi tuttora esistente della storia del Terzo Programma, il primo direttore, il musicologo Alberto Mantelli, e con lui Castellani come suo vice, «interpretarono il proprio mandato soprattutto nei termini di una ricerca di forme di comunicazione culturale adeguate al mezzo». Ne nacquero idee, anche fortemente innovative, come le «serate a soggetto» che miravano a fare riflettere l’ascoltatore sui nessi tra diversi ambiti culturali e diversi linguaggi: la prima, dedicata al mito di Orfeo in letteratura e musica, aprì le trasmissioni del programma. Certo, «il palinsesto del Terzo Programma italiano, come quello britannico, presupponeva una definizione di “cultura” e “culturale” che allora appariva ovvia al senso comune sia delle classi istruite sia anche di quelle che non lo erano, e che oggi potrebbe apparire restrittiva» (Ortoleva 2003, 885). In campo musicale, si fondava sulla netta e rigorosa distinzione tra musica “seria”, soprattutto classica e lirica, e musica “leggera”, che veniva invece lasciata ai canali di intrattenimento: ma nell’ambito della prima era considerata con attenzione, anche se con uno spazio molto più ridotto, la musica più di avanguardia che la RAI stessa veniva producendo. E in ciò è più che verosimile che Castellani abbia avuto un ruolo di promotore, tanto che Luciano Berio, uno dei massimi rappresentanti dell’avanguardia musicale italiana postbellica, gli scriveva, il 22 marzo 1983, di ricordarsi «perfettamente» dei suoi incontri con lui «negli anni ruggenti della musica elettronica». Lo stesso modello di separazione tra il “serio” e ciò che poteva sapere di “evasione” era applicato alla letteratura e alle arti (Ortoleva 2003, 886).
Per formazione, cultura e gusti Castellani era senza dubbio molto intrinseco a questo tipo di impostazione, ma seppe adattarsi ai mutamenti che – anche per l’influsso di diversi autorevoli intellettuali, primo fra tutti Carlo Emilio Gadda, che come abbiamo visto egli conosceva bene, e a cui la Rai commissionò nel 1953 le Norme per la redazione di un testo radiofonico (Gadda 2018) – essa gradualmente subì nel decennio successivo, dopo che la direzione fu passata nel 1951 a Cesare Lupo. A un’ampia programmazione musicale di qualità si affiancarono rubriche di discussione sull’attualità culturale, con recensioni e rassegne stampa specializzate nelle riviste di cultura. Fu promossa la conoscenza della letteratura attraverso l’adattamento di romanzi e racconti sotto forma di «radiocomposizioni», che poi sarebbero state progressivamente abbandonate. La sola traccia della lunga attività in Rai conservata nelle carte di Castellani è proprio una di queste ultime: un dattiloscritto datato 24 settembre 1953 intitolato Il compleanno del libro «Tonio Kroger» di Thomas Mann, un testo di 30 pagine con un’introduzione sua (molto “dotta”) e poi ampi brani del racconto, inframmezzati da brevi passi affidati alla voce di un attore. Si sviluppò anche – e in questo è certo che egli abbia avuto un ruolo – una grande attenzione al teatro, con l’avvio di cicli sistematici di opere classiche e moderne, che avrebbe fatto ben presto del Terzo Programma il riferimento principale del teatro radiofonico italiano.
Occorrerà avere accesso agli archivi della Rai e fare uno spoglio sistematico di fonti “minori” ma significative, come il «Radiocorriere», attraverso il quale è possibile ricostruire la programmazione giornaliera del Terzo Programma (che per gli anni cinquanta rimase limitata a una fascia oraria serale, dapprima dalle 21 e poi dalle 19 alle 23.15) per potere ricostruire adeguatamente questo aspetto della biografia professionale di Castellani, che comunque non è centrale nella prospettiva di queste note. Lui, una volta che la sua esperienza alla Rai si fu conclusa (andò in pensione nel 1974) ne parlò con un misto di fastidio e di velato rimpianto per l’occasione mancata: «in definitiva frustrante, se pur ricca», scriveva ad Anceschi l’8 giugno 1983; «un lavoro tipicamente di comunicazione e di mediazione, che aveva certo elementi terribilmente deludenti in confronto ai miei ottimismi iniziali, ma anche aspetti positivi», tra i quali ultimi considerava quello di avergli consentito «per un certo tempo di entrare in vivo contatto con il mondo del teatro e con una serie di concrete realtà organizzative» (Castellani 1980a p. XXV). Da quello che si può ricavare da accenni saltuari nella sua corrispondenza, non restò a lungo nella dirigenza del Terzo Programma: «Non sono io il Direttore del Terzo Programma della RAI! Per carità! – scriveva a Luciano Foà il 19 ottobre 1951 – Anzi, non sono più nemmeno al Terzo. Scrivetemi per favore c/o Direzione del Programma Nazionale». Al senso di complessiva insoddisfazione che lasciò in lui l’esperienza romana alla Rai contribuì sicuramente il clima politico degli anni cinquanta: erano – non dimentichiamolo – gli anni in cui il ministro degli Interni e alto esponente democristiano Mario Scelba bollava gli intellettuali critici con l’etichetta di «culturame», e in cui a «vigilare e selezionare» in tema di cinema, radiodiffusione e presto televisione era deputato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti. Castellani ne fece le spese personalmente anche nel campo più specifico dei suoi interessi, quello del teatro: la sua traduzione (poi apparsa sulla rivista «Il Dramma») di Judith, la tragedia del 1931 di Jean Giraudoux che rivisitava in modo piuttosto trasgressivo la storia biblica di Giuditta e Oloferne (Capriolo 2006, 3970-71) e che avrebbe dovuto essere trasmessa proprio dal Terzo, fu «irrimediabilmente bocciata [dalla] censura andreottiana e depirriana», suscitando le sue ire («Figli di cani, anzi figli di preti!!!!», si sfogava con Franco Fortini il 14 gennaio 1951) (FFF, fasc. Emilio Castellani).
Alla fine del 1959 si chiuse la sua parentesi a Roma: tornò a Milano, negli uffici Rai di corso Sempione, con il ruolo di vicedirettore radiotelevisivo. Negli anni successivi, in particolare verso la metà degli anni sessanta, anche in conseguenza del nuovo clima politico sorto con i governi di centro-sinistra, il capoluogo lombardo si candidò ad assumere un ruolo più adeguato al suo peso politico e produttivo nel paese: una relazione del Comitato consultivo milanese, presieduto da Eugenio Montale, rivendicava a «un centro culturale dell’importanza di Milano» la funzione di «contribuire alla produzione di trasmissioni atte ad esercitare, indipendentemente dalle premesse ideologiche o implicazioni politiche, un’azione informativa e formativa dei cittadini intorno ai problemi della cultura e della società contemporanea». L’azienda sembrava però tenere scarso conto di queste rivendicazioni e anzi non lesinava tagli in ogni settore degli studi di Milano, tra cui quello della divulgazione musicale, che poteva giovarsi di «una struttura d’avanguardia come lo Studio di Fonologia, oggetto di una battaglia difensiva, persa, ma sinceramente combattuta» che, diretto da Luciano Berio, pare avere visto in prima fila, insieme, tra gli altri, a Roberto Leydi e Remigio Paone, anche Emilio Castellani (Ferrari 2002, 190). Come si è visto, questi considerò la sua attività professionale sostanzialmente frustrante, e in effetti solo raramente essa pare avergli offerto l’occasione di mettere a frutto le sue specifiche competenze culturali: uno dei casi in cui ciò avvenne fu quando, già alle soglie della pensione, fu incaricato di svolgere un viaggio di studio in Germania, presso i sei organismi radiofonici più prestigiosi della Repubblica Federale (Amburgo, Berlino Ovest, Colonia, Francoforte, Baden Baden, Stoccarda) per documentarsi sugli orientamenti della radiofonia tedesca in materia di programmi culturali: riferì in quella occasione che era «la struttura saldamente regionalizzata ad assicurare alla radio e alla televisione tedesca nel suo insieme l’alto livello e la serietà e competenza informativa e formativa che la distinguono» (Ferrari 2002, 196).
8. «Calar le vele e raccoglier le sarte»
Sebbene il carico di lavoro alla Rai fosse tutt’altro che lieve, Castellani continuò a dedicare tutto il tempo possibile al lavoro di traduttore. L’esperienza brechtiana, come abbiamo visto, si stava concludendo: «il suo lento realizzarsi – avrebbe ricordato – aveva coinciso con l’epoca centrale della mia vita, nella quale esso venne a contrappuntare, come costante presenza, preoccupazione e impegno, l’intero quadro, interiore ed esteriore, della mia esistenza» (Castellani 1980a, XXV). Ma la sua attività continuò più intensa che mai, anche prima di andare in pensione, nel 1974. Con Einaudi, prima di concludere l’accordo di cui si è detto che gli assicurava ancora un ruolo importante nell’edizione delle opere del drammaturgo tedesco, aveva pubblicato, nel 1972, Una giovinezza in Germania, di Toller, che – come si è visto – aveva in realtà portato a termine più di vent’anni prima e che l’editore torinese aveva accettato fin dal 1960. Cinque anni dopo, «con maggior facilità, ma con più scarsa sintonia ideale», la versione di Der Mitmacher (Il complice) di Friedrich Dürrenmatt (Castellani 1980a, XXVI). In quell’anno, il 1977, Castellani rimase vedovo: le perdita di Marì (così veniva chiamata sua moglie) rappresentò per lui un vuoto incolmabile, reso più profondo dal fatto di non aver avuto figli. Il loro era stato anche un sodalizio intellettuale: era stata pure lei una traduttrice, per lo più dal francese, e alla versione di alcuni libri avevano collaborato: per esempio – per Einaudi – a quella di Souvenirs d’un marchand de tableaux, di Ambroise Vollard (Quadri in vetrina. Ricordi di un mercante di quadri, 1959), le cui bozze, come risulta dall’archivio della casa editrice, avevano rivisto e corretto insieme; o anche a molte traduzioni di pezzi teatrali. Sei anni dopo, il 6 gennaio 1984, ne scriveva ancora a un amico (Stephan o Stephen, di cui ignoriamo l’identità, che gli aveva scritto in inglese e a cui si rivolgeva come Cher vieux – Vecchio mio) come di una «perdita immensa»:
Les liens que j’ai perdu avec le monde – tout vient en verité du fait que j’ai perdu ce lien-là, et que je n’ai pas pu, ou pas su, rétablir dans mon esprit quelque chose qui put le remplacer, je n’ai pas su répondre à la question que cette perte posait au plus fond de moi-même» (I legami che ho perduto con il mondo – tutto deriva dal fatto che ho perso quel legame, e non ho potuto, o saputo, ristabilire nel mio spirito qualcosa che potesse sostituirlo, non ho saputo rispondere all’interrogativo che quella perdita poneva più in profondità a me stesso).
Alla solitudine pose un argine andando ad abitare, qualche anno più tardi, con la sorella Enrica (Ru), rimasta vedova anche lei; e di Ru affiliò la figlia, Luisa Ciocia, che proprio con il cognome Castellani divenne – con grandissima soddisfazione di Mino – un’affermata cantante lirica.
Il lavoro di traduttore a cui continuava a dedicarsi rappresentò sicuramente un antidoto almeno parziale contro la malinconia che contrassegnò i suoi ultimi anni di vita. Si è detto che fin dall’inizio degli anni cinquanta aveva stabilito, all’Einaudi, un rapporto di particolare intesa con Luciano Foà: non stupisce quindi che la maggioranza delle traduzioni da lui firmate negli anni settanta vedesse la luce per la casa editrice Adelphi, di cui Foà era stato co-fondatore nel 1962 e rimase per decenni il deus ex machina. La prima fu quella di Jakob Von Gunten (Jakob Von Gunten. Un diario), di Robert Walser, accompagnata da una lunga postfazione di Roberto Calasso, che vide la luce nel 1970. Seguirono, rispettivamente nel 1972 e nel 1974, il teatro di Wedekind e quello di Horvath: nei confronti di questi, confessò di avere sentito, rispetto a Brecht e a Toller, «minore congenialità». In particolare lo stile del discorso scenico di Wedekind, di cui tradusse Lulu (Lulu), Erdgeist (Lo spirito della terra) e Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora), gli sembrò porre «problemi eccezionalmente ardui per la resa in un’altra lingua»; e quattro atti unici di Ödön von Horváth riuniti nel 1974 sotto il titolo Teatro popolare, ai quali premise l’introduzione: Italienische Nacht (Notte all’italiana), Geschichten aus dem Wiener Wald (Storie del bosco viennese); Kasimir und Karoline (Kasimir e Karoline) e Glaube, Liebe, Hoffnung (Fede, speranza e carità), la traduzione dei quali, codotta con Umberto Gandini, lo aveva costretto a confrontarsi con «problemi non meno spinosi, tanto per l’inafferrabilità di un’esatta cifra del suo linguaggio apparentemente sciolto, quanto per la labilità del mondo che rappresenta» (Castellani 1980a, XXVI).
«Grande soddisfazione» gli avevano invece procurato in precedenza gli incontri con altri due autori pure appartenuti all’area mitteleuropea. Uno era il musicista Arnold Schönberg, di cui tradusse per Feltrinelli i Testi poetici e drammatici, usciti nel 1967 con introduzione e note di Luigi Rognoni, ammettendo più tardi che su nessun altro lavoro si era «scervellato tanto», a dispetto della sua «vantata competenza musicale» (Castellani 1980a, XXVI). L’altro era nientemeno che Franz Kafka, di cui aveva pubblicato per Garzanti nel 1966 una nuova versione della Metamorfosi e di altri celebri racconti giovanili.
Nel 1979 (l’edizione originale tedesca era uscita nel 1975), prima che tutte le sue energie fossero – come vedremo – assorbite da Goethe, Castellani tradusse un altro libro che senza dubbio gli fu “congeniale”: quello di Gershom Scholem, Walter Benjamin – Die Geschichte einer Freundschaft (Walter Benjanmin –Storia di un’amicizia). Il libro però non fu pubblicato subito, ma uscì solo nel 1992, quando il suo traduttore era morto da ormai sette anni: nel frontespizio figurava la dicitura «traduzione e note di Emilio Castellani e Carlo Alberto Bonadies». Secondo la testimonianza di quest’ultimo, la traduzione di Castellani era «completa, ma lasciata a uno stadio estremamente provvisorio e comunque inadeguato a una pubblicazione. […] Quel testo presentava difficoltà davvero particolari e inusuali, dato che la lingua di Scholem era talmente imbastardita dalla vicenda biografica e intellettuale dell’autore, che aveva molto presto abbandonato la Germania, da risultare una sorta di inglese letteralmente travestito da tedesco». Bonadies, a cui era stata affidata la revisione, si vide «costretto a un lavoro d’intervento in profondità e capillare sul testo molto simile in varie parti e a seconda dei casi a una ritraduzione o comunque a una riscrittura», ma la casa editrice gli propose, ed egli accettò, di firmare la traduzione «a quattro mani» (testimonianza rilasciatami il 2 giugno 2020).
Nel 1976, sempre da Adelphi, a Castellani fu affidata la versione del lungo racconto di Robert Walser, Die Spazierengang (La passeggiata), a cui fece seguire una breve nota: fu quella traduzione che gli valse nel 1978 il Premio Monselice per la migliore traduzione letteraria, che era in realtà, come emergeva dalla lunga motivazione redatta da Cesare Cases e conservata nell’archivio di Castellani, un riconoscimento alla sua intera e ormai lunga carriera. Walser non era uno scrittore molto noto in Italia (Martorelli 1985): fino a quel momento erano stati tradotti soltanto Der Behülfe (L’assistente), da Ervino Pocar per Einaudi nel 1961, e la raccolta di prose pubblicate con il titolo Una cena elegante da Aloisio Rendi per Lerici, nello stesso anno. Castellani apprezzò moltissimo lo scrittore svizzero e, nel più volte citato discorso di ringraziamento pronunciato in occasione del conferimento del premio, colse l’occasione per esprimere i criteri che avevano ispirato il suo lavoro:
Forse perché ormai sono vecchio, sento sempre più forte il bisogno di sincerità, di una profonda autenticità di sentimento. Ed è appunto quest’autenticità che traspare dalla pagina di Walser, insieme con tutta la fatica e la peripezia che costa la sua conquista. Una peripezia che è infelicità e felicità insieme, infelicità di chi non vede una via d’uscita e felicità per essere riusciti a superare o ad agire con modestia e applicazione ostacoli che parevano insormontabili. Su scala ridotta, da rapportarsi sempre alla tempesta in un bicchier d’acqua (ma anche la tempesta in un bicchier d’acqua conosce spettri e folgori), questa è, più o meno anche la condizione del traduttore. Del traduttore, beninteso, consapevole che il suo lavoro dev’essere attento, paziente e disinteressato; del traduttore che bada a quello che il testo dice e cerca di renderlo nel modo più confacente, schietto e pulito possibile; che conta su un più o meno cospicuo bagaglio di conoscenze e di esperienze, ma che ha fiducia nell’umile vocabolario; e che, soprattutto, pensa più all’autore da cui traduce, a ciò che questi era, al mondo in cui è vissuto, che non a se stesso e alle proprie smanie di autonomia (Castellani 1980a, XXVII-XXVIII).
Queste parole assumono loro malgrado anche il valore di un testamento: perché, a riprova di quello che Cases aveva acutamente notato («Castellani, che non traduce mai un autore senza precisi intenti culturali, di rado lo abbandona» – Cases 1980), sarebbe stata ancora di Walser la sua ultima traduzione, che uscì poco più di due mesi dopo la sua morte nel 1985: Poetenleben (Vita di poeta): in una lettera a Foà del 21 gennaio 1985, che accompagnava l’invio del testo «ri-ri-riveduto», gli chiedeva anche in prestito un libro su Walser, perché si riprometteva di «scrivere forse qualche pagina come Nachwort», cioè come postfazione.
In precedenza, a collaborazione con Adelphi era continuata con la traduzione di Alexander Lernet-Holenia, Der Baron Bagge (Il barone Bagge, 1982) e di Arthur Schnitzler, Spiel im Morgengrauen (Gioco all’alba, 1983); e riprese con un altro e altrettanto impegnativo lavoro. Nell’ottobre del 1984 scriveva a Paolo Chiarini: «da mesi non ho più testa che per i ‘Wanderjahre’ […] e sono vicinissimo alla fine». Alludeva a Wilhelm Meisters Wanderjahre oder die Entsagenden (Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister o Coloro che rinunciano), il romanzo di Goethe pubblicato nel 1821, che costituiva il seguito di Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister), apparso venticinque anni prima. Del grande scrittore e poeta tedesco Castellani aveva tradotto nel 1960 alcune poesie nell’edizione Sansoni delle Opere, curata da Lavinia Mazzucchetti; ma erano stati i Lehrjahre la sua vera porta di accesso al mondo di Goethe, che rappresentava per un traduttore dal tedesco non solo una sfida particolarmente impegnativa, ma anche, se così si può dire, la promozione in una categoria superiore, di eccellenza: nel 1974, infatti, era stato incaricato da Adelphi di «mettere a punto la traduzione che la bravissima Anita Rho aveva compiuta vari anni prima» (evidentemente non pubblicata) e che Luciano Foà volle portasse anche la sua firma (Castellani 1980a, XXVII). Tre anni dopo, la collezione dei «Meridiani» di Mondadori, all’epoca diretta da Giansiro Ferrata (che quasi certamente aveva conosciuto Mino all’epoca in cui avevano entrambi collaborato a «Corrente»), pubblicò in un volume a cura di Renata Caruzzi tre romanzi di Goethe: I dolori del giovane Werther, Le affinità elettive e, tradotto da Castellani, La vocazione teatrale di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters theatralische Sendung, il primo frammento del progetto meisteriano, redatto originalmente tra il 1778 e il 1785 e ritrovato e pubblicato solo nel 1911). Quella traduzione fu poi ripubblicata dopo la sua morte nell’edizione a sé stante del testo, curata e introdotta da Roberto Fertonani, per gli Oscar classici Mondadori nel 1993).
Ormai affermato come traduttore di Goethe, Castellani ricevette anche l’incarico, sicuramente non meno impegnativo, della versione del Viaggio in Italia. Della Italienische Reise esistevano fino a quel momento tre sole traduzioni italiane complete: quella di Eugenio Zaniboni pubblicata da Sansoni nel 1924, ripresa nell’edizione delle Opere curata da Lavinia Mazzucchetti nel 1949 e poi riedita dallo stesso Sansoni nel 1959 con note di Oreste Ferrari e Orio Vergani, e di nuovo nelle Opere a cura di Vittorio Santoli nel 1970; quella di Luigi di San Giusto per Paravia, del 1925, e quella, più recente, a cura di Giovanni Vittorio Amoretti per la Utet nel 1965. Esistevano poi varie traduzioni – tra le quali è da ricordare quella di Aldo Oberdorfer per Vallecchi – che comprendevano solo i primi due terzi del testo definitivo, escludendo la parte riservata al secondo soggiorno a Roma.
L’edizione dei «Meridiani» era introdotta da una prefazione di Roberto Fertonani, che curò anche una ricchissima bibliografia finale. Castellani, che con Fertonani aveva già collaborato all’edizione einaudiana delle poesie di Brecht, accompagnò la sua traduzione con un imponente apparato di note, che costituivano l’adattamento di quelle che lo storico dell’arte Herbert von Einem aveva approntato per la IX edizione (1978) della Italienische Reise nella Hamburger Ausgabe, l’edizione su cui venne condotta la traduzione. L’adattamento consisteva nell’eliminazione dei riferimenti specialistici che potevano interessare lo studioso tedesco mentre rischiavano di cadere nel vuoto per il lettore medio italiano; nell’aggiunta di note su nomi e fatti su cui il lettore italiano si poteva supporre digiuno di informazioni, e nell’eliminazione di altre su figure di grande rilievo nella storia della cultura italiana che si potevano dare per sufficientemente conosciute. Un lavoro da certosino, quindi, che si aggiungeva alla traduzione del saggio introduttivo alla Reise dello stesso Von Einem.
Per portare a termine il lavoro Castellani si impegnò parecchio, e con grande passione. Nell’agosto del 1981 si rivolse alle Nationale Forschungs- und Gedenkstätten der klassischen Deutsche Literatur (l’enti nazionale per la ricerca e la memoria della letteratura classica teesca), chiedendo di poter effettuare un soggiorno a Weimar (APEC), dove esse hanno sede e che si trovava allora nella Repubblica democratica tedesca, cioè la Germania dell’Est sotto controllo sovietico. Motivò la sua richiesta con la «la necessità di verificare e riscontrare una quantità di dati, sia di carattere bibliografico, sia relativi a Weimar stessa in quanto ambiente dell’esistenza reale di Goethe e cornice del suo lavoro di preparazione e stesura dell’opera»: «credo infatti – spiegava – che solo a Weimar sia possibile farsi un’idea concreta e palpabile di ciò che per Goethe ha rappresentato l’Italia». Trascorse circa una settimana nella città tedesca: nel suo archivio resta un minuzioso elenco di biblioteche e opere artistiche da consultare e da vedere. La traduzione del Viaggio in Italia uscì ai primi di dicembre del 1983 e riscosse amplissimi riconoscimenti. Castellani, scrisse Italo Alighiero Chiusano, «è riuscito a dominare con apparente agevolezza la prosa di Goethe, anche là dove richiede una straordinaria sensibilità pittorico-musicale» («La Repubblica», 9 dicembre 1983). Di «traduzione nuova e assai bella» parlò Giovanni Giudici («L’Espresso», 25 dicembre), Domenico Porzio la definì «eccellente» («Panorama», 7 febbraio 1984), «splendida» Luigi Forte («L’Unità», 24 maggio 1984).
Il fatto che i ritagli stampa di queste e altre recensioni siano conservati nel suo archivio (mentre non vi è traccia di quelle sulle altre sue traduzioni, nemmeno quelle di Brecht) dimostra quanto Castellani tenesse a quel lavoro. Sembrava considerarlo non solo il punto d’arrivo della sua carriera di traduttore, ma quasi l’approdo pacificante di una vita nella quale, come confessava a Luciano Anceschi nella lettera dell’8 giugno 1983, aveva raccolto «una messe abbondante di delusioni, disinganni e amarezze»: «Ho finito per rifugiarmi nell’ampio seno di Goethe: il quale non è un grande e – almeno fino a un certo punto – pacificante scrittore, ma ha soprattutto il pregio di ammaestrarti alla virtù consolatoria della rinuncia».
Era un approdo venato da parecchia malinconia:
Non voglio dire con ciò di rimpiangere e rinnegare le battaglie che nel mio piccolo ho combattute nel corso della mia vita, in campo culturale e anche politico, tanto più che resto convinto che i due campi, alla fin fine, facciano tutt’uno. Ma è innegabile che da una parte la mia (la nostra, no?) vecchiaia, dall’altra lo sconvolgimento e stravolgimento d’ottica in cui ogni anno, ogni giorno di più, mi trovo e ci troviamo immersi, esortino a “calar le vele e raccoglier le sarte”, tanto per concedermi un’altra citazione dotta.
Il tema della rinuncia (presente nel sottotitolo dei Wanderjahre) era ripreso anche nella già citata lettera a Stephan o Stephen – scritta in quello che Castellani definisce un «multilingual Kauderwelsch», ossia un «incomprensibile gergo multilingue» misto di francese, inglese e tedesco, che qui tradurremo alla meno peggio – in cui è esplicitato per la prima volta un rimpianto nutrito probabilmente per tutta la vita:
Je me renferme, ich schliesse mich in eine Hülle ein […]. Alors: s’attacher à la Entsagung (peut-être comme à un alibi moral?). En tout cas, Entsagung an alles was draussen Oberflächliche oder Befremdete oder Unentziffbare ist; und was mich betrifft, Entsagung à ce que j’ai constaté de ne pas pouvoir réaliser – une activitè autonome d’écrivain. Je cherche seulement à etre un bon (si possible excellent) traducteur (Mi chiudo. Mi richiudo in un guscio […] Allora: attaccarsi alla rinuncia (forse come a un alibi morale?). In ogni caso, rinuncia a tutto quello che là fuori è superficiale, o sgradevole oindecifrabile; e per quanto mi riguarda rinuncia a quello che ho constatato di non poter realizzare – un’attività autonoma di scrittore. Penso solamente a essere un buon (se possibile un eccellente) traduttore)
Non era però, la traduzione, solo «una fuga dall’odiosità del mondo», come scriveva a un amico tedesco, Friedhelm (anche di costui ignoriamo il cognome):
Eher, möglicherweise, ist es ein Versuch, eine neue Brücke, eine neue Verbindung, in diesem blinden, idiotischen Europa zu schaffen, etwas in der Hoffnung, einen Tritt weiter auf dem Wege der gegenseitigen Sichverstehens zu ermöglichen – angesichts des Tages, wo es nicht meher ein hinderndes Kopfzerbrechen sein wird, zwischen Italien un Deutschland, England Russland zu korrespondieren (Piuttosto, forse […] un tentativo di creare un nuovo ponte, un nuovo collegamento, in questa cieca, idiota Europa, qualcosa nella speranza di rendere possibile un passo avanti sulla strada della reciproca comprensione, in vista del giorno in cui corrispondere tra l’Italia e la Germania, l’Inghilterra, la Russia non sarà più un frustrante rompicapo).
La lettera portava la data del 7 gennaio 1984: si era nel pieno dei nuovi fuochi della guerra fredda, riaccesa dall’invasione sovietica dell’Afghanistan nel dicembre del 1979, dal ridispiegamento dei missili sugli opposti versanti della “cortina di ferro” e da ultimo dall’abbattimento dell’areo sudcoreano da parte dei missili sovietici il 1° settembre 1983: un momento in cui parve a molti, come il 10 dicembre 1983 scriveva a Castellani un’amica germanista, Anna Bovero, nel complimentarsi con lui per il Viaggio goethiano e nel fargli gli auguri per l’anno nuovo, di rivivere una «allegra condizione generale di acrobati a spasso sulla corda tesa – e senza rete». E, in effetti, Castellani non si era affatto estraniato dal mondo: guardava certo con distacco alla politica quotidiana (anche se è significativo che abbia conservato tra i non molto ritagli stampa presenti nel suo archivio l’articolo pubblicato da Rossana Rossanda su «Il manifesto» in morte di Riccardo Lombardi, con l’annotazione a matita «È morto il vecchio Riccardo Lombardi, il più giovane della sinistra italiana»), ma mostrò interesse per l’attività dell’Anpi (l’Associazione nazionale partigiani d’Italia) e tornò a parteciparvi. In vista del quarantesimo della Liberazione la sezione milanese mise in cantiere delle iniziative anche ambiziose, come l’organizzazione di un convegno internazionale sulla Resistenza europea e forse di una mostra, e l’amico senatore Arialdo (Momi) Banfi gli affidò il compito di preparare una bibliografia di partenza, che egli assolse scrupolosamente, facendo anche concrete proposte sul modo in cui avrebbe potuto essere utilizzata e diffusa. Più interessante ancora è il promemoria dal titolo Funzione culturale dell’ANPI, che porta la sua firma e venne probabilmente elaborato nell’ambito del Piano di lavoro nell’attuale fase del quarantesimo della Resistenza proposto dall’Anpi milanese, che si trova anch’esso tra le sue carte. Ponendosi il problema di rendere il messaggio dell’Anpi accessibile alle nuove generazioni, Castellani metteva in guardia dai rischi del reducismo, e dalla tentazione di «cadere in sterili preconcetti [e] tenersi aggrappati a concezioni o insofferenze che hanno perso, in tutto o in buona parte, la loro ragione di essere»: il riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dalla classe operaia nella lotta di liberazione non doveva comportare «l’arroccamento su tematiche operaistico-combattentistiche comunque invecchiate», occorreva invece «una presa in esame dei nuovi problemi alla luce di situazioni e di potenzialità largamente mutate». Erano necessarie la capacità di «percepire l’anelito di tutti i popoli del nostro continente a un ideale di Europa pacifica e realmente libera» e «l’apertura più generosa e spregiudicata possibile verso le nuove generazioni, le loro problematiche, le loro angosce». Era questa la chiave per affrontare «un futuro tutt’altro che sgombro di nubi, tutt’altro che immune dal pericolo della nascita di nuovi mostri dal ventre sempre infetto del fascismo»: in questa prospettiva – e qui sembrava parlare di sé – «i “vecchi” combattenti di un tempo ritroveranno nuove fonti di energie, nuovi motivi di fiducia nella vita».
In quel periodo prese anche a collaborare alla rivista nazionale dell’Anpi, «Patria indipendente», su cui pubblicò almeno due recensioni. La prima, uscita il 27 maggio del 1984, era quella alle memorie di Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, e si concludeva, in vista di «una svolta che può essere decisiva», quella dell’elezione diretta del Parlamento europeo, con un appassionato appello a superare non solo i nazionalismi, ma anche lo scetticismo sul futuro dell’unità europea. La seconda riguardava il libro di Nuto Revelli L’anello forte e apparve sul numero del giornale che portava la data del 25 marzo 1985, un mese esatto dopo la sua morte. Nel libro– che definiva «consapevolmente ‘civile’, magnificamente schietto e ricco d’insegnamenti» – trovava motivi di novità e di speranza per lo spiraglio che lasciava intendere essersi aperto, anche e soprattutto grazie alle donne, «nell’isolamento e nel misoneismo contadino»: «nuovi soffi vitali [che] la bacchetta di rabdomante di Revelli» sembrava percepire.
Naturalmente, l’attività principale di Castellani restava quella di traduttore: il Viaggio in Italia di Goethe gli aveva dato una visibilità e un prestigio accademico che forse non aveva mai raggiunto prima. Ai primi di marzo del 1984 partecipò a Roma al convegno Herder und Goethe: Zwischen Natur und Geschichte (Herder e Goethe: tra natura e storia), declinando però l’invito a tenere una propria relazione, perché – scriveva a Chiarini il 15 febbraio 1984 – era harcelé (assillato) dal lavoro per i Wanderjahre.
Nel 1984 ottenne un nuovo riconoscimento, il premio della Città di Piombino per la traduzione di un’opera di narrativa straniera: gli fu conferito per Gioco all’alba di Schnitzler, pubblicata l’anno prima da Adelphi.
Tradurre Schnitzler – recitava la motivazione, che si può supporre sia stata redatta dall’unico germanista presente in giuria, Giorgio Cusatelli – significava richiedere alla nostra lingua vibrazioni insolite, come da corde segrete e dai più trascurate; e significava, volendo restare fedeli al modello, combinare con ardua dialettica le punte alte di una dichiarata classicità e il materiale del discorso quotidiano, mai completamente usabile senza un sottofondo d’ironia. Nell’impresa Castellani è riuscito a perfezione. (Copia del verbale della giuria in APEC)
Quel premio Mino non poté ritirarlo personalmente: il 21 giugno 1984, tre giorni prima della cerimonia in cui doveva essergli consegnato, fu investito da una motocicletta in corso Venezia, a Milano, riportando una frattura scomposta della gamba sinistra che lo costrinse a sei settimane di degenza e poi a camminare fino al mese di novembre con le stampelle. Descriveva le sue peripezie in una lettera a Paolo Chiarini del 26 ottobre, in cui si diceva scettico sulla possibilità di partecipare a un convegno internazionale su Robert Walser che l’Istituto italiano di studi germanici di Roma aveva indetto per il maggio del 1985, e in cui gli era stato proposto di affrontare il tema dei Prosastücke dello scrittore svizzero. L’invito a quel convegno lo interessava e certo lusingava: chissà se si poteva dire lo stesso di quello che con una lettera datata 19 febbraio 1985 ricevette da Marcello Pacini, direttore della Fondazione Agnelli. Era la proposta di partecipare a una tavola rotonda in programma per il 12 giugno a Torino, dal titolo Le radici umanistiche della cultura televisiva italiana. Vi erano stati invitati a partecipare dirigenti come Pier Emilio Gennarini e Angelo Romanò, registi come Vittorio Cottafavi, Sandro Bolchi, Anton Giulio Majano, Ugo Gregoretti, Pier Benedetto Bertoli, attori come Giorgio Albertazzi, critici come Folco Portinari. Castellani forse non si aspettava di essere considerato un’autorità, oltre che per la sua attività di traduttore, per l’esperienza di dirigente della Rai, da cui certo aveva tratto minori soddisfazioni. Non sappiamo se ebbe il tempo di mandare il «cortese e immediato riscontro» che da lui si attendeva. Morì d’infarto il 25 febbraio 1985.
Non sappiamo nemmeno che ne sia stato della traduzione dei Wanderjahre: ne uscì una a cura e con introduzione di Ernesto Guidorizzi nel 1986, presso le Edizioni Scientifiche di Napoli. Una seconda, di Loredana Sciapi, fu pubblicata molto più tardi dall’editore Faligi. Di quella di Emilio Castellani, che doveva essere praticamente finita, non c’è traccia nelle sue carte e nemmeno nell’archivio di Adelphi. Ma la traccia della sua influenza in quarant’anni di vita culturale repubblicana, quella sì c’è, e valeva la pena di ricostruirla.
Ringraziamenti
Ringrazio per il prezioso aiuto ricevuto prima di tutto mia cugina Luisa Castellani e mia sorella Paola Agosti, e poi Michela Acquati, Maurizio Avanzolini, Walter Barberis, Luciano Boccalatte, Carlo Alberto Bonadies, Anna Foà, Raffaella Gobbo, Luisa Lama, Piergaetano Marchetti, Elisabetta Nencini, Gianfranco Petrillo, Giorgio Rochat, Maria Margherita Scotti, Nicoletta Serio, Gianfranco Silvestro, Antonello Venturi.
Fonti archivistiche
AGA: Istituto per la storia della Resistenza in Piemonte, Torino, Archivio Giorgio Agosti, corrispondenza tra Giorgio Agosti e Emilio Castellani (1940-1943)
APEC: Archivio privato Emilio Castellani (da ordinare)
APFA: Archivio privato famiglia Agosti
AE: Archivio di Stato di Torino, Archivio Giulio Einaudi editore, Corrispondenza con autori e collaboratori italiani, I serie, mazzo 45, fascicolo 645 (Emilio Castellani)
APFV: Archivio privato Franco Venturi (copia delle lettere citate è stata gentilmente fornita da Antonello Venturi).
FFF: Università di Siena, Centro interdipartimentale di ricerca Franco Fortini per la Storia della tradizione culturale del Novecento, Fondo Franco Fortini
Ricompart: Archivio centrale dello Stato, Roma, Fondo Archivio per il Servizio Riconoscimento Qualifiche e per le Ricompense ai Partigiani, fascicolo Emilio Castellani
Riferimenti bibliografici
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