INTERVISTA A SILVIA PARESCHI
di Norman Gobetti
Incontro Silvia Pareschi in una torrida giornata di fine primavera, a Milano, dove è ospite di un’amica (la maggior parte dell’anno la trascorre a San Francisco, dove vive col marito Jonathon Keats, scrittore, artista e filosofo). Quando suono alla porta è mattina presto, e lei mi dice subito che ha trascorso una notte insonne e che quindi non è al massimo della forma (mi aveva anche scritto per disdire l’appuntamento, ma io non avevo visto la mail). Inoltre giungono da un cantiere poco lontano le assordanti pulsazioni di un martello pneumatico. Insomma, l’intervista non comincia sotto i migliori auspici. Eppure, fin dai primi scambi di battute sono colpito dalla sua verve, dalla sua brillantezza e intelligenza, dal suo senso dell’umorismo e dal suo amore per le parole, tutte cose che del resto, avendo letto il suo libro di racconti-reportage e molte sue traduzioni (da Jonathan Franzen, Nathan Englander, Denis Johnson, Zadie Smith, Junot Díaz: se ne può vedere l’elenco completo in questo stesso numero di «tradurre»), mi aspettavo. E così presto ogni imbarazzo scompare e la conversazione comincia a scorrere fluida e appassionata.
Vorrei cominciare dal Lago, perché ho notato che lo nomini spesso, e mi sembra sempre di percepire, quando lo nomini, un grande senso di riposo. Tu sei cresciuta sul Lago Maggiore. Mi piacerebbe sapere se in qualche modo hai sentito a un certo punto il nascere di una vocazione, se ripensando alla tua famiglia, alla situazione e al luogo in cui sei cresciuta, vedi il sorgere dell’interesse per la traduzione, o se è una cosa che a un certo punto ha fatto irruzione nella tua vita in modo inaspettato.
Bello, interessante questo collegamento tra il luogo e la vocazione. In qualche modo sì, il collegamento esiste. Sono figlia unica, cresciuta in un piccolo paese sul lago. Molti al lago si deprimono, perché si dice che il lago calma, ma in realtà ti calma se sei nevrotico. Se invece sei già una persona tranquilla, ti deprime. Ed essendo io piuttosto nevrotica… Quindi sono cresciuta con molta solitudine e molte letture. Tipo che, quando avevo otto-nove anni, partivo e andavo nei boschi da sola a fare lunghe passeggiate, e leggevo Baudelaire. Non capivo niente di niente, ovvio, però questa cosa… la pace, la solitudine, le letture, il fatto di essere sempre molto concentrata su me stessa, sull’interiorità in qualche modo… Ecco, secondo me tutto questo viene dal fatto di essere cresciuta in un posto così, con i boschi, con il lago. In città hai meno possibilità di entrare in te stesso già da bambino. Poi il fatto di essere figlia unica… E poi a un certo punto da tutte queste letture era venuta un po’ l’idea… così, un po’ inconscia, ma al liceo ho cominciato a pensare che mi sarebbe piaciuto tradurre. Però tradurre da qualche lingua esotica. Era il periodo della perestrojka, il russo sembrava la lingua del futuro, e quindi mi sono iscritta all’università e ho studiato russo.
Che liceo hai fatto?
Ho fatto il liceo classico, a Varese. Per l’idea della traduzione, chiaramente, il liceo classico è fondamentale. Le versioni di latino sono la scuola migliore in assoluto.
Quindi fare le versioni ti piaceva.
Da pazzi. Perché veniva bene, era tutto logico, spostavi le tessere e creavi la frase. Il latino in particolare, perché si incastrava tutto. E quindi sicuramente il gusto di tradurre è venuto da lì. E poi sono andata all’università a Bologna e mi sono laureata in russo. Nel frattempo l’inglese lo stavo imparando, l’avevo già imparato. Avevo una grande passione per l’inglese, ma lo imparavo leggendo, in modi meno scolastici.
E la tesi su cosa l’hai fatta?
La tesi l’ho fatta sulla letteratura fattuale, che era una scusa per studiare il periodo delle avanguardie degli anni venti. Però la letteratura fattuale era arrivata subito dopo, quando gli artisti erano già stati quasi tutti ammazzati. Era arrivato Stalin e aveva detto: la letteratura deve coincidere con la realtà, non ci deve essere nessuno stacco tra la letteratura e il reale. Da questo sono nate opere meravigliose tipo l’elettrificazione dell’Unione Sovietica. Questa era la letteratura fattuale. Poi per un momento ho pensato di rimanere all’università a fare il dottorato, ma mi sono detta: No, adesso so il russo, voglio andare a lavorare. E poi la docente di russo mi ha suggerito di fare l’interprete per i russi che venivano a comprare le borse a Rimini… che non era proprio il lavoro dei miei sogni. A quel punto non sapevo più cosa fare, e allora mi sono iscritta alla scuola Holden, perché avevo un po’ di risparmi da parte e ho pensato: Okay, mi butto, vediamo dove mi porta questa esperienza. Ormai l’idea della traduzione si era un po’ persa.
Quindi a quel punto avevi in mente la scrittura?
Avevo in mente la scrittura, ma senza una direzione ben precisa. Ero un po’ smarrita. Ma poi è stato lì, al primo anno della scuola Holden, che ho incontrato Anna [Nadotti]. Lei teneva un workshop di traduzione e io ho pensato: Provo a tradurre qualcosa, glielo do e vediamo cosa mi dice. E sono andata a cercare qualcosa che non fosse mai stato tradotto, qualche inedito, e ho trovato una raccolta di racconti di Alice Walker dove c’era questo racconto bellissimo, The Revenge of Hannah Kemhuff, che è una storia di magia nera. C’era questa donna che aveva una nemica e per eliminarla le instillava la paura, le faceva venire la paura della morte finché questa moriva per la paura della morte, che è un po’ il principio della magia nera, del vudù. L’ho consegnato ad Anna e lei me l’ha rimandato con sopra scritto: “Hai fatto un ottimo lavoro”, e basta. Qualche giorno dopo ho ricevuto una telefonata da un numero sconosciuto. Rispondo e una voce mi dice: “Sono Marisa Caramella dell’Einaudi, le telefono per parlare di traduzione”. A me è venuto un colpo, perché era una cosa completamente inaspettata. Anna le aveva passato la mia prova, che non era neanche intesa come una prova. Quindi sono andata a Torino, e nell’ufficio dell’Einaudi Marisa mi ha fatto fare questa prova di traduzione sulle prime pagine di Suttree di McCarthy (che poi, anni dopo, ha tradotto Maurizia Balmelli), un brano difficilissimo che lei usava per selezionare gli aspiranti traduttori. Ricordo di avere fatto un paio di errori, e di avere pensato: Basta, è finita. Invece Marisa mi ha detto: «Tu hai fatto due errori, di solito gli altri ne fanno venti». Quindi era andata bene… Dopodiché mi ha dato da tradurre The Orchard Keeper, il primo romanzo di McCarthy. Mentre stavo traducendo quello, che poi è uscito col titolo Il guardiano del frutteto, Marisa mi telefona di nuovo e mi dice: «No, no, ferma tutto, c’è un libro importantissimo che è appena arrivato, bisogna fare quello», ed era Le correzioni. Tutte le volte che si parla di come ho cominciato, io dico: «Il mio è stato un caso così fortunato che mi vergogno a raccontarlo». Perché praticamente ho saltato tutta la gavetta, e la mia prima traduzione pubblicata è stata Le correzioni di Jonathan Franzen. Ho avuto la fortuna immensa di essere stata nel posto giusto al momento giusto e avere incontrato le persone giuste che credevano nel fatto di aiutare qualcuno. Perché la formazione all’interno della casa editrice è praticamente ormai una chimera.
In quel periodo, a quanto ti risulta, esistevano già i corsi universitari di traduzione?
Cominciavano, ma poco. Sono cresciuti molto dopo. Anche quei workshop della scuola Holden erano visti un po’ come una piccola cosa all’interno del master di scrittura creativa. Nel mio caso Marisa ha avuto il ruolo che avevano gli editor di una volta, quello di formare le persone all’interno della casa editrice.
Una mentore.
Sì, decisamente.
E come funzionava questo rapporto di formazione?
Allora… ribadisco che è stata una fortuna clamorosa, perché lavoravamo così: io traducevo un centinaio di pagine de Le correzioni, poi andavo a casa sua e leggevamo. Lei aveva l’inglese e io leggevo l’italiano, e lei mi diceva: «No, aspetta, qui sarebbe meglio così…» Una correzione in contemporanea, dalla quale ho imparato tantissimo. E che mi ha lasciato un’impronta, tanto che ancora adesso ho dei piccoli vezzi che arrivano da Marisa, e che tengo volentieri perché sono un po’ un marchio di fabbrica. Cose che magari qualche revisore mi corregge e io penso: Sì, potrei anche lasciarlo, non è così diverso, però lo rimetto com’era prima perché così mi ha insegnato Marisa. Per esempio, uso sempre il verbo «cominciare» e mai «iniziare», proprio come faceva lei.
E questo rapporto è poi continuato anche con i libri successivi?
Sì, anche se Le correzioni è stato un caso speciale… perché è durato tanto, è un libro lungo, impegnativo, e abbiamo anche avuto un’intensa corrispondenza con l’autore. All’inizio gli scrivevamo qualche mail con qualche domanda, poi abbiamo visto che lui adorava ricevere domande. In genere io scrivo agli autori, però spesso mi arriva giusto una rispostina. Lui invece scriveva dei trattati su ogni parola, e quindi abbiamo capito che gli piaceva e abbiamo lavorato parecchio anche con lui. Poi i libri successivi sono diventati una cosa un po’ più normale, per cui Marisa era sempre la mia editor, ma non andavo più a casa sua ogni volta. Però Le correzioni… Quella è stata proprio la mia scuola. Quando dico che Le correzioni è stato il primo libro che ho tradotto, di solito aggiungo: «Guardate che non l’ho fatto tutto da sola», perché sarebbe stato folle per un editore affidare un libro così a una novellina e poi lasciarla sola. Invece è stato un lavoro di squadra, che è venuto molto bene anche per questo. Da quel momento mi sono trovata a pensare: Dopo questa scuola posso andare avanti con le mie gambe.
Quindi i libri che hai fatto per l’Einaudi nei quattro-cinque anni successivi sono tutti libri la cui revisione è stata fatta da Marisa Caramella. Non c’erano altre persone che se ne occupavano…
No, eravamo io e lei. Marisa mi conosceva bene, sapeva quali erano i libri più adatti a me. Era molto comodo. Adesso che lavoro per diverse case editrici ho sempre quest’angoscia, che hanno un po’ tutti i traduttori, di accettare un libro e poi il giorno dopo ti arriva la proposta del libro della tua vita che morivi dalla voglia di fare e non puoi farlo perché ne hai già accettato un altro. Allora non avevo questo problema, perché lavoravo praticamente solo con Marisa. L’unico problema era che i tempi erano un po’ strettini. Adesso invece me li organizzo io. Sono molto ansiosa, per cui tendo a prendere scadenze molto lunghe e poi il libro lo finisco prima. Di solito faccio così, non arrivo mai all’ultimo momento con la scadenza, perché altrimenti non dormo, mi viene l’ansia. Comunque per fortuna non mi è mai capitato di dover rifiutare un “mio” autore per mancanza di tempo. Ci starei malissimo. Però mi dispiace anche quando mi capita di dover rifiutare un autore che non ho mai tradotto. Una nuova traduzione è una finestra che si apre su un mondo: un nuovo autore significa nuovo stile, nuovi argomenti, nuove sfide… Dover rifiutare di entrare in questo nuovo mondo è sempre una grande delusione. Per cui cerco di lavorare per poche case editrici, proprio per evitare che mi arrivino proposte a cui devo dire di no. Anche perché due libri contemporaneamente non li faccio, non posso farli.
Quindi chiudi completamente un libro prima di cominciare una nuova traduzione…
Sì, perché quando sono dentro un libro sto lì dentro e basta. E poi ho un mio ritmo che mi dà pace. Non voglio fare orari impossibili, lavoro un certo numero di ore al giorno e non di più. Quindi i libri che non potrei tradurre se non a scapito della mia qualità della vita li rifiuto, anche se sempre a malincuore.
E ti è mai capitato di chiedere tu a una casa editrice se avevano libri da proporti, o ti sono sempre arrivati da soli?
A un certo punto l’ho chiesto ad Adelphi, ma perché ero già in contatto con loro. Giulia Arborio Mella mi aveva detto: «Se ti ritrovi poi libera…», e poi l’avevo contattata io.
Hai tradotto anche libri d’arte, vero? Che tipo di esperienza è stata?
Erano saggi di arte contemporanea, che mi piace molto, ma i critici di arte contemporanea sono anche quelli che scrivono nel modo più oscuro di tutti. Quindi ogni tanto capitavano dei saggi dove non si capiva assolutamente niente. E lì il metodo era semplicemente “scrivo-così-anch’io”. Non ci provavo neanche a decifrare quella scrittura volutamente incomprensibile, ma scrivevo in un italiano da critico d’arte per cui non si capiva niente e andava bene così. La collaborazione è finita quando mi hanno mandato un saggio che era talmente incomprensibile che ho dovuto dire: «Guardate, io questa roba… o mi pagate il triplo, oppure non posso riscriverlo tutto» E da lì si sono interrotti i contatti.
Quindi in realtà lavoravi con uno spirito piuttosto diverso su questo tipo di libri. Immagino che, sui libri di letteratura, tradurre una frase in italiano che non hai del tutto capito in inglese sia una cosa che cerchi di non fare.
Esatto. Sì, era proprio molto diverso. In un romanzo se hai una frase oscura in inglese la mantieni oscura anche in italiano, certo, però prima la devi capire, devi capire che è oscura, perché è oscura, che cosa vuole dire, dopodiché ricrei l’oscurità in italiano. Alla fine con i saggi d’arte mi sono accorta che a volte non c’era niente da capire, l’oscurità era voluta, spesso per coprire il nulla che si stava dicendo. Allora perché devo perdere il mio tempo a decifrare una cosa indecifrabile? Te la rifaccio indecifrabile.
Poi ti sei trasferita a San Francisco, giusto?
Sì. Mio marito l’ho conosciuto nel 2008, e poco dopo ho cominciato a fare questi viaggi intercontinentali, avanti e indietro, che sono piuttosto faticosi. Tre mesi in Italia e tre mesi negli Usa. Purtroppo la società americana più la conosco e meno mi entusiasma, però a livello di arricchimento linguistico e culturale questa doppia vita è impagabile. Adesso diciamo che mi sento un po’ come l’incarnazione dell’idea del traduttore come ponte tra due luoghi e due culture diverse. Poi lo racconto ai miei studenti americani e loro mi considerano una privilegiata, perché per loro vivere in Italia è un sogno. Io gli spiego che devo tornare a casa a rinfrescare il mio italiano.
A sciacquare i panni in Arno.
A sciacquare i panni nel lago. Sembra una cosa un po’ snob da dire, però è vero, perché se io abitassi sempre a San Francisco il mio italiano non funzionerebbe.
Quando sei lì hai poche occasioni di parlare italiano, immagino.
Ho amici italiani. Leggo in italiano. Però non è mai come essere circondata dalla lingua. Non senti lo slang, non senti quello che dice gente sull’autobus (lo so, forse è meglio così), insomma, le cose che servono per mantenere l’orecchio in allenamento.
Sei comunque rimasta una traduttrice madrelingua italiana, che quindi traduce solo verso l’italiano?
Assolutamente sì. Ho tentato qualche volta di tradurre verso l’inglese, ma solo con cose molto semplici. Ho fatto una newsletter per la Scala, ad esempio. Però è faticoso, e poi il risultato non è mai perfetto, perché si vede sempre che non sei madrelingua inglese.
Quindi non tradurresti mai un romanzo dall’italiano all’inglese.
No, mai.
Hai fatto anche un lavoro a quattro mani con Susanna Basso.
Sì, però non l’ho mai incontrata. Erano dei racconti di Alice Munro [Il percorso dell’amore]. Credo fosse solo una questione di tempo. Non c’era abbastanza tempo, e allora mi hanno dato un paio di racconti.
Quindi non è stato un lavoro a quattro mani. Ti è mai capitato invece di lavorare proprio a quattro mani?
No. È una cosa che un po’ mi preoccupa, perché alla fine quando traduci ti impadronisci del libro, dello stile. E poi io sono molto possessiva con gli autori. Non so se riuscirei a lavorare bene in coppia. Per esempio non sono capace di rivedere le traduzioni degli altri. Saper tradurre non significa necessariamente saper rivedere, per una questione di personalità oltre che di capacità. Perché se prendo la traduzione di un altro, poi finisce che la faccio mia e cambio troppe cose, e il lavoro del revisore non è questo. Bisogna saper rispettare la traduzione dell’altro e intervenire solo con piccoli ritocchi. E per saperlo fare bisogna essere poco possessivi. Io invece sono possessiva anche con gli autori che traduco, non sopporto l’idea di “cederli” a qualcun altro.
A proposito di questo, quali sono gli autori, a parte ovviamente Franzen, con cui sei entrata in relazione in modo particolare, o che hai sentito più affini?… con cui senti che si è creato qualcosa?…
Mi capita spesso di mettermi in contatto con l’autore, per chiarire qualche dubbio sulla traduzione di un brano o di una parola. Poi da come ti rispondono capisci la loro personalità, quindi magari ti capita di proporre: «Sono a New York, prendiamo un caffè insieme?», e le cose si possono sviluppare. Per esempio si è creato un bel dialogo con Amy Hempel, che è una persona squisita. Appartiene alla categoria di quelli che rispondono con entusiasmo alle domande del traduttore, perché magari dalla domanda che gli hai fatto hanno capito qualcosa, una minima cosa del loro modo di scrivere che sono riusciti a scorgere solo attraverso il filtro di un’altra lingua. Poi ci sono anche quelli a cui importa poco della traduzione, ma sono una minoranza. Un mio grande rimpianto è stato quello di non aver mai incontrato Denis Johnson. Le sue risposte alle mie email erano brevi, però c’era sempre una frase, una parola da cui capivi che ci teneva, che era grato del tuo lavoro. Era una figura molto complessa, in cui la fede religiosa era subentrata a una giovinezza selvaggia, fatta di alcol e droghe. In lui era sempre presente l’idea della redenzione, così intensamente americana.
Perché non sei riuscita a incontrarlo?
Non riuscivo mai a trovarmi nel posto giusto. L’ho sfiorato al New Yorker Festival del 2014, quando gli avevo scritto che sarei stata tra il pubblico e lui mi aveva risposto: «Allora poi ci vediamo». Solo che quando è finita l’intervista non ho osato andare dietro le quinte e quindi non l’ho mai incontrato. E qualche anno dopo è morto.
Un altro autore di cui hai tradotto diversi libri è Nathan Englander. Lui l’hai conosciuto?
Sì, è simpaticissimo. L’ho visto l’ultima volta qualche mese fa. Ero a New York e lui faceva il primo reading del suo ultimo libro ed era insieme a Colson Whitehead, che stavo traducendo proprio in quel periodo. Al reading c’era tutta la famiglia, e ho chiacchierato a lungo con la sua mamma. L’avevo già conosciuto, l’avevo visto anche a un paio di feste da Antonio Monda, che raduna nel suo salotto l’intelligencija newyorkese. Nathan parlava a raffica, divertente e nevrotico, e a un certo punto si è voltato e ha buttato giù una lampada e ha cercato di aggiustarla di nascosto. Sembrava uscito dritto dritto da un film di Woody Allen.
E anche con lui hai avuto scambi di mail?
Sì, certo. Nathan è un tipo vulcanico e disordinato, per cui ti risponde sempre molto gentilmente, però magari non capisci neanche cosa ti ha risposto. Ma è decisamente più simpatico dei critici d’arte.
E poi hai tradotto Rachel Cusk in tempi in cui in Italia non era ancora una star.
Sì, in tempi in cui non era ancora famosa, però lei non l’ho mai incontrata. Forse c’è stato qualche scambio di mail, ma pochissimo, c’erano poche cose da chiedere. È rimasta sempre abbastanza remota.
Tra l’altro, come capita a molti, tu traduci indifferentemente uomini e donne. Secondo te c’è qualche cosa di diverso nel tradurre un’autrice o un autore?
Dipende molto dalla scrittura… È vero che le scrittrici donne le riconosci in qualche modo, comunque. Non è tanto lo stile, quanto le cose che scrivono, la sensibilità. Però non ho preferenze. Ho tradotto scritture maschili che ho amato tantissimo. Con Franzen mi sono trovata a tradurre quello che è considerato uno scrittore misogino e a difenderlo, perché non è vero. Non posso dire che non sia un tipo particolare, però non è misogino. Ha sostenuto un sacco di scrittrici donne. È un paladino di Alice Munro, di Paula Fox…
In passato hai detto che con lui provi un senso di identificazione inquietante.
Oddio, sì. C’è questo rapporto… Perché, appunto, lui è una persona particolare. Bisogna un po’ saperlo prendere. È una persona con cui non puoi fare small talk. Almeno io avevo questa sensazione, dettata anche dal fatto che essendo la sua traduttrice non potevo permettermi di fare brutta figura. Ho viaggiato con lui per una decina di giorni, quando stava lavorando a un reportage per il «New Yorker», Emptying the Skies, sul bracconaggio nel sud dell’Europa.
Che poi è uscito su «Internazionale»…
Sì, con il titolo Cieli silenziosi.
Quindi tu l’hai seguito…
Gli ho fatto da interprete. Abbiamo girato per la Campania e la Calabria e siamo arrivati fino a Messina. Viaggiavamo insieme, io e lui in macchina. E io pensavo continuamente: «Sono la sua traduttrice, non posso dire cose irrilevanti, devo sempre dire cose intelligenti». Nei lunghi tratti di autostrada, tipo la Salerno – Reggio Calabria, lo sforzo costante di dire qualcosa di intelligente diventava un po’ faticoso. Ma lui in realtà è una persona molto gentile e disponibile. Mentre lavoravo a Purity gli ho chiesto di portarmi a vedere qualcuno dei luoghi dove è ambientato il libro, visto che diverse scene si svolgono proprio nel nord della California. Così abbiamo fatto una gita in questo posto un po’ sperduto, e ho visto il supermercatino dove lavora la madre della protagonista, e il parco con la pozza dove le due fanno il bagno…
Poi l’hai raccontato…
Sì, in un articolo per Biancamano2, il blog dell’Einaudi [Purity, Chip e io], dove racconto di essere stata contagiata dalla sua passione per gli uccelli. E di avere riscontrato una serie di affinità caratteriali che effettivamente nella traduzione mi aiutano.
Mi viene da collegare questo discorso con una cosa che mi ha molto colpito facendo la revisione delle tue traduzioni, che poi appunto è il motivo per cui mi è venuta voglia di intervistarti… Io sostengo che è assurdo vedere la traduzione come qualcosa che ti pone costantemente di fronte a una scelta tra la fedeltà e la bellezza, come se fossero due esigenze che vanno in due direzioni contrapposte e tu dovessi mediare tra le due cose oppure scegliere… Mi sembra che le tue traduzioni dimostrino che invece la bellezza della traduzione viene proprio dalla sua fedeltà, che poi è una cosa di cui ti puoi rendere davvero conto solo quando fai una revisione, nel senso che a quel punto entri proprio frase per frase e quindi vedi che cosa ne è stato. Ecco, essendomi capitato di rivedere alcune tue traduzioni mi è sembrato che tu vada nella direzione della fedeltà con grande naturalezza. Vorrei sapere se in effetti è una cosa che ti viene spontanea o se è invece frutto di un travaglio. E se è una cosa a cui sei arrivata a un certo punto o che in qualche modo avevi fin dall’inizio.
Mentre lavoro non rifletto consapevolmente su quello che sto facendo. Non metto nessuna teoria davanti al testo, ma procedo al suo fianco, accompagnandolo. All’inizio guardo il testo al microscopio, al livello della singola parola: il mio compito è questo, parto dalla parola e mi domando: Che registro è? Una volta che l’ho deciso e ho trovato la parola corrispondente in italiano, basta, cos’altro c’è da fare? Poi passo alla frase, alla costruzione della frase: è una frase breve, è una frase lunga, è semplice, è complicata… la prendo e la riscrivo nello stesso modo. Poi faccio gli spostamenti sintattici che devo fare per ricreare la sintassi italiana. Perché ovviamente non posso usare la sintassi dell’inglese, perché altrimenti non mi ritroverei con una traduzione, ma con un calco. Le regole che seguo sono semplici. La regola aurea di Calvino: «Una prosa che si legga come fosse stata pensata e scritta direttamente in italiano». Quello è l’obiettivo finale. Il punto di partenza è: Devo rimanere fedele al registro, all’intenzione, al suono, al ritmo, al significato; il punto di arrivo è una cosa che sembri pensata e scritta direttamente in italiano… nient’altro. A quel punto la fedeltà è già venuta da sola, no? Insomma, il mio modo di lavorare è un po’ istintivo. Le teorie mi servono solo per confermare quello che so già per esperienza, per dare una forma logica all’istinto. Quando ho scritto il mio libro [I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani], poi uscito da Giunti, invece ho fatto una fatica tremenda, perché lì si trattava di creare qualcosa di nuovo. L’organizzazione del pensiero che serve a mettere per iscritto un’idea era per me molto faticosa. Quando traduci non devi preoccuparti di questa organizzazione, perché è già stata fatta da un altro. Tolta quella parte, che io trovo estenuante, quello che resta, cioè il lavoro sulla lingua, diventa facile.
A proposito del libro, puoi raccontare qualcosa di come è nato? Non è così scontato che un traduttore scriva. E questo è un libro, tra l’altro, che non parla di traduzione. Parla di alcune tue esperienze negli Stati Uniti…
Il libro è nato prima di tutto dall’esperienza del blog [Nine hours of separation]. Perché quando ho cominciato a stare a lungo negli Stati Uniti ho subìto un po’ una disillusione, il crollo di un mito… Traducendo tutti questi scrittori americani mi ero creata un’immagine un po’ idealizzata.
E sei andata a San Francisco, che in teoria sarebbe il posto più bello degli Stati Uniti…
Eh, ma così è ancora peggio, perché ti ritrovi in questo posto bellissimo ma pieno di ingiustizie e ti viene un gran nervoso. Allora ho deciso che avevo il dovere di raccontare questo paese, di smitizzarlo un po’, cosa che secondo me ci farebbe un gran bene, perché è assurdo mitizzare gli Stati Uniti. Qui non c’è proprio niente di mitico, al di là del mito che si sono perfettamente costruiti loro, l’egemonia culturale che hanno sul resto del mondo. Però a livello di funzionamento della società, welfare, solidarietà fra esseri umani, l’Europa è spanne più avanti. Quindi volevo raccontare un po’ la realtà che avevo sotto gli occhi. E poi anche un’altra cosa, che invece mi piace molto, e cioè la parte assurda di questo paese, che è molto forte in un posto come la California, l’ultimo lembo di terra prima dell’oceano, dove sono arrivati tutti quelli che cercavano un posto dove rifugiarsi. La California ha tante zone selvagge, dove vanno gli squinternati che vogliono vivere da soli perché non sono capaci di integrarsi nella società, ed è gente fantastica. Magari non vorresti averli come vicini di casa, però hanno delle storie incredibili. E quindi volevo mettere insieme queste due cose: raccontare la parte divertente, l’assurdità di questo paese, insieme alla dura realtà della morte del sogno americano. Come scrisse George Carlin, You have to be asleep to believe it: per crederci devi essere addormentato.
Parlavi del blog…
Sì, il blog che oggi ormai è molto trascurato… Avevo cominciato a scriverlo proprio per raccontare storie che meritavano, secondo me, di essere conosciute. E a un certo punto mi sono ritrovata con una serie di storie, e alcune, tipo quella che dà poi il titolo al libro, la storia dei jeans, che risale a quando ero ragazzina, sono storie che continuavo a raccontare… Sai, quegli aneddoti che raccontiamo spesso perché ci accorgiamo che agli altri piacciono, e che a furia di raccontarli si sono un po’ cristallizzati, sono già pronti per essere scritti. E quindi ne è uscito un mix di storie nuove e di vecchie avventure, vecchi “classici” della mia vita. Poi c’è la storia di Katrina, una storia vera che però non è successa a me, ma ai genitori di una mia amica.
Quello di Katrina è più un racconto. Tra i pezzi è quello meno reportage…
Sì, ed è quello che è piaciuto di più ai lettori. Per scriverlo ho fatto tante ricerche, mi sono comportata proprio come una scrittrice. E l’ho trovato piuttosto faticoso.
E dopo quello hai continuato, stai continuando, oppure…
No, mi è passata la voglia. Diversi amici scrittori mi hanno detto che hanno provato a tradurre, ma per loro è una grande fatica, mentre scrivere è una cosa naturale, come respirare. Per me è il contrario. Scrivere il mio libro è stato faticoso; mi sentivo il cervello fisicamente stanco, come se avesse sollevato dei pesi. Quando traduco non ho mai questa sensazione. Alla fine di una giornata di traduzione magari non sono proprio freschissima, però non provo quella stanchezza mentale che provo quando scrivo.
Avevi anche accumulato una serie di cose da raccontare…
Invidio molto gli scrittori che sanno inventare storie quasi dal niente. Io invece sono una che ha bisogno di vivere un’esperienza per poi raccontarla, non riesco a inventare nulla se prima non l’ho provato, e quindi per raccogliere materiale devo buttarmi a fare delle cose assurde…
Come Denis Johnson. Devi andare in Afghanistan, in Alaska…
Proprio così. A un certo punto ho detto a mio marito: «Guarda, mi prendo due mesi, vado a fare la cameriera a Mendocino». È uno di questi posti nel nord della California dove ci sono le più grandi coltivazioni di marijuana di tutti gli Stati Uniti, e c’è un’alta concentrazione di gente strana. È un posto che mi affascina perché è anche bellissimo, ma poi ci sono tutti questi scombinati. E allora mi è venuta questa idea di prendermi due mesi per andare a lavorare nel bar di qualche paesino sperduto e raccogliere materiale per scrivere. Chissà quante storie avrei trovato. Ma poi mi sono detta: Mah, lasciamo perdere…
Tra l’altro, tu hai tradotto anche The Book of the Unknown, un libro di tuo marito, Jonathon Keats, uscito da Giuntina [Il libro dell’ignoto]. Dev’essere stata, immagino, un’esperienza particolare. È stato diverso oppure alla fine…
È stato molto diverso. Io lo racconto sempre un po’ come il sogno di ogni traduttore. Perché prima di tutto hai lo scrittore di fianco, pronto a chiarire ogni tuo dubbio. A mio marito potevo chiedere qualunque cosa senza temere di fare domande stupide, quindi la traduzione è diventata una specie di lavoro a quattro mani. E lui non provava nessuna gelosia nei confronti del testo. Quando gli dicevo che una frase avrebbe funzionato meglio in italiano se l’avessi cambiata un po’, lui mi autorizzava senz’altro a cambiarla. Sai quando una frase funziona bene in inglese ma non in italiano, e allora la devi rigirare un po’, ma quando la rigiri la cambi e ci perdi in fedeltà, e ti rimane sempre un po’ questo senso di incompletezza…
Di non avere fatto esattamente il tuo dovere.
Infatti. Mentre lì avevo il suo permesso di riscrivere, e questo era un grande sollievo. Ed era possibile discutere su tutto, su ogni parola, perché Jonathon scrive in un inglese molto raffinato, molto preciso, molto pensato. Spesso mi capitava di chiedergli: «Qui questa parola potrebbe avere questo significato, oppure questo o quest’altro. In italiano non possiamo tenerli tutti e tre, e allora quale preferisci mantenere?». E questo, di nuovo, mi liberava un po’ da quel senso di perdita, e anche di colpa, che ogni traduttore prova quando deve abbandonare qualcosa nel passaggio dalla lingua di partenza a quella di arrivo.
Oltre al blog, tu usi anche Twitter, vero?
Sì, molto.
Puoi parlare un po’ di questo? E mi piacerebbe anche sapere se usi altri social network o, appunto, solo Twitter.
No, ho usato Facebook per qualche anno, sono caduta nel vortice e a un certo punto mi è venuto il rigetto… Adesso non lo posso più vedere. A volte mi dispiace di esserne uscita perché lì ero in contatto con gente che poi ho perso completamente, e a volte si trattava di amicizie che erano anche diventate concrete, con persone che poi avevo incontrato. Però mi dava troppo fastidio che per una persona simpatica ce ne fossero dieci invadenti e moleste, o anche solo noiose e insignificanti, e tu comunque non potevi mai evitare del tutto di averci a che fare. Ora mi limito a Twitter, che uso soprattutto per tenermi informata e dove interagisco con meno gente.
Nelle cose che scrivi sul blog c’è uno sguardo politico sul mondo, soprattutto sugli Stati Uniti, ma non solo, che mi sembra molto importante per te. È una cosa che in qualche modo interagisce con il tuo lavoro di traduttrice o sono due sfere separate?
No, sono due sfere separate. E poi comunque solitamente gli scrittori… le persone di cultura… è molto difficile che abbiano votato per Trump. Non mi è mai capitato di tradurre qualcuno di cui detestassi la visione del mondo, e anche se mi dovesse capitare credo che se scrive bene lo perdonerei. L’unico peccato per uno scrittore, ai miei occhi, è quello di scrivere male. E comunque gli scrittori americani contemporanei non parlano molto di politica. Sono piuttosto ripiegati su se stessi. Almeno quelli bianchi. Per i neri e le minoranze la questione è diversa.
Ti è mai capitato di proporre tu dei libri da tradurre o hai sempre preso delle committenze?
No, ho sempre preso delle committenze, perché anche quello è un lavoro impegnativo, cercare, fare scouting, e non mi sono mai messa in quell’ottica. È un lavoro che lascio fare ad altri.
Una cosa di cui non abbiamo ancora parlato sono gli strumenti. Che strumenti usi? Hai cambiato da quando hai cominciato a tradurre ad adesso?
Uso dizionari on line. Quello che c’è sul sito di Repubblica, quello che c’è sul sito del Corriere. Poi ho il Ragazzini su CD-ROM, la Treccani on line per l’italiano, il De Mauro sempre su CD-ROM ancora per l’italiano.
E li consulti, li usi tanto?
Li consulto tantissimo, anche per parole che so, che credo di sapere. A parte che io ho una pessima memoria, e poi mi serve sempre il significato che magari è un semisinonimo… Per cui anche se trovo red vado a cercare sul dizionario. Cerco tutto. E poi faccio tantissime ricerche su Google con le stringhe di testo per vedere le ricorrenze… Quello mi serve molto per il suono dell’italiano, per capire se sto rischiando di cadere nel calco oppure no.
Questo del non capire se si sta facendo un calco oppure no trovo sia uno degli aspetti più difficili del mestiere di traduttore. Su questo pensi che il fatto di stare negli Stati Uniti sia paradossalmente uno svantaggio, nel senso che potrebbe portarti a perdere un po’ la capacità di discriminare?
Bisogna stare molto attenti. È per questo che per me è così importante tornare spesso a sciacquare i panni nel Lago Maggiore. Perché chi vive da tanto tempo negli Stati Uniti finisce necessariamente per corrompere il proprio italiano. Per chi fa un mestiere come il nostro basta poco tempo per cominciare a notare certi slittamenti di significato, quasi impercettibili nel parlato ma evidenti nella lingua scritta. Uno dei primi errori che subentrano in chi non controlla il proprio italiano, per esempio, è l’uso di “organico” nel senso di “biologico”, perché i due termini hanno significati vicini e quindi diventa facile sovrapporli.
Non hai la sensazione che anche in Italia diventi sempre più difficile capire che cosa è un calco e che cosa non è un calco? Perché comunque anche in Italia la lingua si sta sempre più modellando sull’inglese.
Questa è una questione molto interessante. Io seguo il blog di Licia Corbolante, Terminologia etc., che fornisce costanti aggiornamenti sugli anglicismi che entrano nella nostra lingua. Il punto non è quello di condannare questo fenomeno e urlare all’imminente morte dell’italiano, perché lo sviluppo di una lingua prevede anche l’assorbimento di parole da altre lingue. La vera questione è che si sta diffondendo una fastidiosa sciatteria nell’uso della lingua. Ed è ovunque. Basta accendere la radio per sentire cose come «Venite nei nostri store!» Anche gli editori spesso parlano di «cover». Ma perché? È così brutto copertina? Le parole inglesi vanno benissimo quando non esiste un equivalente italiano, ma dire «store» al posto di negozio è ridicolo. È questa mancanza di senso del ridicolo, insieme alla scarsa conoscenza dell’inglese, che viene usato solo per fare scena, a far risaltare tutto il provincialismo della cultura italiana.
E secondo te questo anglicizzarsi della lingua comporterà alla lunga un perdere di necessità del lavoro del traduttore letterario, oppure pensi che il nostro lavoro avrà ancora un lungo futuro?
La perdita di necessità del nostro lavoro non viene tanto da quello, quanto dal fatto che pochissima gente legge. È questo il vero rischio che corriamo. Non tanto gli anglicismi, e neppure il traduttore automatico. Quello arriverà, ma prima che raggiunga un livello di raffinatezza come quello necessario per fare il nostro lavoro passerà ancora del tempo. Il problema è che il numero dei lettori continua a diminuire, e se nessuno legge i libri che traduciamo…