Una storia tutta da scrivere: della traduzione della letteratura curda in Italia

di Francesco Marilungo

Introduzione

Lukman Ahmad, “Hope”, pastello su cartoncino, 2009

Lo scopo di questo articolo è provare a dare conto di alcune questioni che riguardano un oggetto da noi ancora poco conosciuto e quasi non identificato: la letteratura curda. Che cos’è? Chi la scrive? Qual è la sua storia? Perché ne conosciamo così poca e cosa ci stiamo perdendo? Purtroppo, parlare di letteratura curda impone spesso il bisogno di una lunga introduzione piena di distinguo e precisazioni noiose. Prima di arrivare a godere dei suoi frutti, occorre sminare il campo da tutta una serie di impedimenti politici e sociali che gravano su questa letteratura, ma allo stesso tempo la caratterizzano. Il Kurdistan è un oggetto caleidoscopico, mutevole, inafferrabile e composto di innumerabili tessere in movimento, di colori (politici) e forme (culturali) diverse. C’è “il Kurdistan che non c’è” in quanto entità politica nazionale, e c’è il Kurdistan immaginato e abitato dal sentimento patriottico dei curdi; c’è un Kurdistan che scrive con caratteri arabi, uno che scrive in caratteri latini, uno che usa entrambi gli alfabeti e per buona parte del Novecento c’è stato un Kurdistan che scriveva in caratteri cirillici. C’è un concetto politico-culturale chiamato kurdayeti (curdità), che idealmente riunisce in un’unica famiglia i curdi da Afrin a Sanandaj, da Doğubeyazit fino a Kirkuk, irradiandosi fino ai milioni di curdi in diaspora in Europa, Nord America e Australia; ma ci sono anche profonde differenze e frammentazioni politiche, linguistiche e culturali che fanno sì che questo concetto non si traduca in una forza unitaria capace di creare un Kurdistan unito o di generare un movimento per i diritti coeso. Ne consegue che la letteratura curda è innanzitutto un fenomeno che va declinato al plurale. Occorre dunque parlare di letterature curde e le ragioni, come proverò brevemente a illustrare, sono molteplici.

Almeno a partire dalla battaglia di Cialdiran nel 1514, le sorti delle popolazioni curde furono divise da un confine, quello fra impero safavide e impero ottomano. Le tradizioni letterarie classiche curde si svilupparono nell’ambito di emirati locali spesso in conflitto fra loro che potevano trovarsi a est o a ovest di quel confine. Ciascun emirato puntava a dare nobiltà e prestigio letterario al proprio dialetto locale, spesso molto diverso dagli altri. Fra questi emirati dobbiamo citarne almeno tre: quello del Botan, con sede nell’odierna Cizre, diede origine alla grande tradizione del curdo kurmanji (di cui parleremo fra poco); quello degli Ardalan, con sede a Sanandaj, diede vita alla tradizione letteraria in curdo gorani (oggi praticamente esaurita); e infine, un emirato più tardo come quello dei Baban, situato a Sulaymaniya, diede i natali alla letteratura in un dialetto curdo che oggi gode di particolare benessere: il sorani.

Le cose si complicarono ulteriormente all’inizio del Novecento, in particolare dopo la prima guerra mondiale, il crollo dell’impero ottomano e la guerra d’indipendenza turca. Il quadro politico-amministrativo che emerse da questi fenomeni storici e che perdura tutt’oggi è di estrema frammentazione per le terre curde: i confini di quattro stati nazionali (Turchia, Iraq, Siria e Iran) divisero comunità e territori, consegnandoli a quattro traiettorie politiche, culturali e linguistiche diverse e per molti aspetti divergenti. Contestualmente, una considerevole popolazione curda si ritrovò a vivere nell’Armenia sovietica. Dopo il Kurdistan “dimezzato” fra i due imperi, fu la volta del Kurdistan frazionato in quattro da stati nazionali che durante il Novecento portarono avanti ciascuno il proprio percorso di nation-building, escludendo radicalmente la componente curda dall’immaginario nazionale (o caratterizzandola a volte come il nemico interno contro cui compattarsi). I curdi si trovarono dunque a rispondere e a resistere a quattro centri di potere: i curdi “orientali” lotteranno contro Teheran, quelli “meridionali” contro Baghdad, quelli “occidentali” contro Damasco e quelli “settentrionali” contro Ankara, trovando inoltre il tempo per lotte intestine e guerre fratricide. La forma delle esperienze curde, non solo politiche ma anche culturali e letterarie, scaturisce soprattutto in relazione – e in reazione – alla forma delle esperienze politiche e culturali che hanno luogo in ciascuno di questi stati. Si vengono così a creare quattro percorsi letterari, spesso non comunicanti fra loro, o comunicanti a fasi alterne e discontinue; percorsi che risentono in maniera sostanziale dei diversi climi culturali in ciascuno dei paesi. Ciò fa sì, per esempio, che grandi scrittori di origini curde che dedicano gran parte delle loro opere a scenari sociali curdi come Yaşar Kemal, Salim Barakat o Ibrahim Yunesi, conducano la loro carriera letteraria non in curdo ma rispettivamente in turco, arabo e persiano, essendo nati ad Osmaniye, Qamishli e Baneh (luoghi relativamente vicini fra loro, ma collocati su lati diversi rispetto alle linee di confine). Non da ultimo, la divisione in stati diversi implica che gli scrittori curdi (sia che usino la loro lingua madre, sia che usino la lingua appresa a scuola) si muovano e ragionino dentro quattro mercati editoriali, e quadri giuridici, diversi. Il campo letterario di uno scrittore curdo che scrive, poniamo, da Diyarbakır gravita intorno al sistema di produzione editoriale turco che ha il suo baricentro a Istanbul; per affermarsi in questo mercato, questo scrittore avrà bisogno di essere tradotto in turco, accedendo a una platea di lettori più vasta. Per fare un esempio concreto, alcuni libri di Mehmed Uzun (uno dei principali romanzieri curdi moderni, di cui avremo modo di parlare più avanti) raggiungono la ventiduesima ristampa nella loro traduzione turca, mentre nell’originale difficilmente superano la terza o la quarta. Questo meccanismo implica che alcuni scrittori curdi adeguino, coscientemente o meno, il loro stile e le loro tematiche a ciò che vende nel mercato editoriale entro cui si muovono: uno scrittore curdo di Erbil guarderà a ciò che succede a Baghdad, uno di Mahabad subirà la forte influenza della letteratura persiana, uno di Kobane – almeno fino a prima dello scoppio della guerra civile siriana – sarà attento alle correnti letterarie in voga a Damasco; infine, uno scrittore curdo che scrive da Van non potrà facilmente liberarsi dall’ombra di grandi autori turchi come Orhan Pamuk, Nazım Hikmet, Ahmet Hamdi Tanpınar, Elif Şafak e molti altri che riscuotono successo in patria e sul mercato internazionale. Dinamiche, queste, che creano una vera e propria gerarchia etnico-culturale e una problematica autonomizzazione del campo letterario curdo (Scalbert-Yücel 2012 e 2015). Inoltre, ogni paese ha una sua soglia di tolleranza per quel che riguarda la questione curda: la censura e l’autocensura degli scrittori stessi giocano un ruolo decisivo (Temo Ergül 2015). Ciò che uno scrittore osa dire del suo popolo, delle sue rivendicazioni, aspirazioni, sofferenze, ciò che di esse omette, trasla o allegorizza è deciso anche in base al variabile grado di apertura politica e culturale degli stati dominanti. In Turchia, ad esempio, per parlare liberamente del loro contesto sociale molti giovani scrittori ricorrono a geografie immaginarie e allegoriche, trasformano la toponomastica in maniera allusiva, riscrivono la cartografia. Non pochi ricorrono agli strumenti del realismo magico, strategia narrativa che in molti contesti coloniali ha consentito la sottile espressione di rivendicazioni anticoloniali (Ahmadzadeh 2011).

Sul piano linguistico, il curdo può essere definito un continuum linguistico dialettale iranico che va dall’Anatolia centrale all’alta Mesopotamia, dalla catena dei monti Tauro fino agli Zagros. Ma a livello letterario i dialetti/lingue più usati oggigiorno sono sostanzialmente due: il sorani (o curdo meridionale) e il kurmanji (o curdo settentrionale). Lingue separate? Due dialetti di una stessa lingua? Il dibattito è aperto (Haig, Öpengin 2014). Il sorani è scritto in caratteri arabo-persiani, è parlato e insegnato nelle scuole del Kurdistan iracheno e solamente parlato (a volte insegnato clandestinamente) nel Kurdistan iraniano. Il kurmanji, invece, è parlato in quasi tutto il Kurdistan turco; parlato e insegnato a scuola dal 2012 nel Kurdistan siriano e parlato e insegnato nella provincia di Duhok del Kurdistan iracheno, dove viene scritto in caratteri arabo-persiani, mentre in Siria e in Turchia viene scritto in caratteri latini. Parliamo dunque di faglie che corrono sia sul piano puramente linguistico, sia su quello del sistema alfabetico ed educativo. Nonostante importanti e stimati linguisti suggeriscano scelte lessicali volte a rendere reciprocamente comprensibili i due dialetti, o le due lingue che dir si voglia (Chyet 2019), la realtà sul campo è molto lontana da un disegno unitario e coerente. Il kurmanji e il sorani si scrivono in alfabeti diversi e hanno strutture morfo-sintattiche molto spesso diverse. Possiamo dunque parlare di due letterature curde, una in kurmanji e una in sorani, legate ma distinte. Spesso i lettori kurmanji leggono gli autori sorani in traduzione e viceversa.

Va ricordato inoltre che ciascuno dei quattro stati nazionali di cui sopra ha storicamente messo in atto pratiche di “linguicidio” del curdo e di assimilazione linguistica nei confronti dei curdi in maniere che sarebbe lungo qui analizzare nel dettaglio (Haig 2003; Hassanpour, Sheyholislami, Skutnabb-Kangas 2012). Queste politiche hanno avuto intensità ed esiti diversi nei quattro stati. Infatti, se nel Kurdistan iracheno e in quello siriano oggi c’è un buon livello di alfabetizzazione e di padronanza del curdo da parte dei curdi, in Iran e specialmente in Turchia il livello di conoscenza è spesso elementare, se non addirittura assente: molti lasciano il curdo all’età di sei anni, quando entrano nel sistema scolastico dominato dal turco; alcune famiglie nascondono, per così dire, il curdo ai loro figli, cercando di tenerli lontani da eventuali problemi politici in futuro (Coşkun, Derince, Uçarlar 2011). Per queste ragioni, in Turchia, la platea di lettori capaci di leggere e comprendere un testo complesso in curdo è limitata, sicché molti si vedono costretti a leggere i libri di autori connazionali nella traduzione turca.

Per lo scopo di questo articolo, ci limiteremo a indagare il panorama della letteratura kurmanji (dunque per lo più Turchia, Siria e diaspora – più o meno 25 milioni di parlanti e potenziali lettori), che è poi quello sul quale chi scrive si è formato e sul quale si cimenta come traduttore. Per quel che riguarda lo scenario letterario del sorani fruibile in italiano, ci limiteremo a segnalare qui le importanti traduzioni di poesia compiute da Laura Schrader già nel 1993 con Canti d’amore e di libertà del popolo Kurdo (Schrader 2019, prima Newton Compton 1993) e poi con il volume curato per Istituto Kurdo Sherko Bekas. Scintille di mille canzoni (Schrader 2017). Nonché la traduzione (purtroppo attraverso una lingua ponte) di un titolo del maggiore romanziere curdo-sorani oggi vivente: L’ultimo melograno di Bachtyar Ali (Ali 2018). Con la speranza che altri simili passi vengano compiuti in futuro.

La letteratura kurmanji

In quanto a pedigree letterario, il kurmanji è sicuramente la lingua curda con la maggiore tradizione. Il grande classico, riconosciuto da tutti i curdi come il loro capolavoro nazionale, Mem û Zîn di Ehmedê Xanî (1650-1707), è scritto in kurmanji, così come i diwan poetici di Feqîyê Teyran (1590-1660) o di Melaye Jizîrî (1570-1640), uno dei campioni della letteratura sufi che nulla ha da invidiare ai modelli maggiori prodotti in persiano o in arabo. Questa tradizione classica fu rivitalizzata agli inizi del Novecento da un gruppo di intellettuali modernisti di lingua kurmanji (fra i quali spicca Celadet Ali Bedirxan) che si muovevano all’interno delle élites culturali ottomane e che, dopo il crollo dell’impero e la nascita della repubblica di Turchia improntata a un nazionalismo turco oltranzista, furono costretti a muoversi in esilio – prima nella Siria e nel Libano sotto mandato francese e poi in Europa. Le attività di questi intellettuali si coagulano attorno alla rivista «Hawar» (1932-1945), fondata e diretta da Celadet Ali Bedirxan e pubblicata a Damasco. Per rendere l’idea dell’importanza di questa rivista, basti dire che il giorno d’uscita del suo primo numero (15 maggio) è oggi celebrato come “giornata nazionale della lingua curda”. In «Hawar», Bedirxan e i suoi collaboratori per la prima volta usano l’alfabeto in caratteri latini per ripubblicare brani dei grandi classici sopra citati, per diffondere ricerche sul folklore curdo e per provare a cimentarsi con le forme “moderne”, vale a dire europee, della letteratura. Fra l’altro in questo contesto, la pratica della traduzione giocherà un ruolo cruciale: le traduzioni di letteratura straniera in curdo (per lo più dal francese) forniranno ai giovani scrittori curdi esempi letterari nuovi, moderni, prestigiosi; mentre le traduzioni di autori classici curdi in francese rafforzeranno il prestigio del popolo curdo agli occhi dell’autorità mandataria francese e del mondo internazionale in generale (Çelik 2019). È da questo connubio franco-kurmanji che, dopo la metà del secolo, nascerà a Parigi la curdologia moderna, grazie al lavoro del fratello di Celadet, Kamuran Ali Bedirxan.

Nonostante la grande tradizione classica, la lingua kurmanji è quella che durante il Novecento viene a trovarsi nel contesto politico di maggiore e più feroce repressione: appunto, la Turchia fondata nel 1923 da Mustafa Kemal Atatürk (Zeydanlıoğlu 2012). Con la repubblica inizia il processo di “turchizzazione” dello spazio, reale e immaginario (Aktar 2009). Già dal 1924 il curdo fu vietato negli spazi pubblici, la toponomastica delle regioni curde fu completamente riscritta rimuovendo ogni possibile traccia di elementi curdi o armeni (Öktem 2008 e 2004). Le rivolte curde (1925, 1928-30, 1938) furono tutte brutalmente represse nel sangue e per lunghi decenni si affermò la dottrina secondo la quale i curdi non erano altro che “turchi di montagna”, incivili e barbari che andavano educati e modernizzati con la forza sì, ma anche attraverso l’educazione scolastica e l’assimilazione linguistica al turco. Questo scopo veniva perseguito anche attraverso la aperta negazione dell’esistenza della lingua curda e il divieto di parlarla. Negli anni sessanta e settanta le rivendicazioni curde trovarono parziale spazio all’interno dei movimenti di sinistra turchi, ma colpi di stato militari a cadenza decennale (1960, 1971, 1980) resettavano violentemente i progressi fatti in precedenza: le pratiche repressive della giunta militare salita al potere con il colpo di stato del 1980 passeranno alla storia fra le più cruente ed efferate, specie nei confronti dei curdi (Zeydanlıoğlu 2009). Fino al 1991 l’uso della lingua curda rimase vietato. Dalla metà degli anni novanta si possono stampare libri e riviste in curdo, anche se spesso le riviste vengono chiuse, le case editrici prese di mira, gli scrittori processati, i libri messi al bando. Nel frattempo la letteratura curda kurmanji rinasce in esilio: la Svezia si impone come il luogo in cui i molti esuli curdi trovano le condizioni per produrre le prime vere prove di letteratura contemporanea in kurmanji, cimentandosi soprattutto con il romanzo e la poesia in verso libero (Scalbert-Yücel 2006). I libri di Mehmed Uzun, Firat Cewerî, Rojen Barnas, Hesenê Metê, Mahmud Baksî, scritti e pubblicati in Svezia, circoleranno clandestinamente in Turchia negli anni ottanta e novanta, ponendo le basi della rinascita della letteratura kurmanji contemporanea. Il percorso di avvicinamento della Turchia all’Unione Europea e la cosiddetta “apertura curda” del 2008 del governo di Erdoğan (che si è poi bruscamente e violentemente interrotta nel 2015) hanno contribuito ad aprire spazi di espressione e negoziazione della propria identità per i curdi prima d’allora inimmaginabili.

Il ventennio 2000-2020 può essere salutato come un vero e proprio rinascimento culturale, con grande fermento nei campi della letteratura, così come in quello del cinema, della musica, dell’arte e della ricerca storiografica. Sganciandosi progressivamente da una fase “testimoniale” e tutta incentrata sul trauma storico e socio-politico del proprio popolo, la nuova generazione di scrittori emersa a partire dai primi anni 2000 si confronta con le forme e i temi della letteratura mondiale, sperimenta strategie narrative che possano rielaborare il trauma rifiutando la piatta rappresentazione realista e spingendosi verso territori più sperimentali. Pensiamo qui ad autori come Helîm Yûsiv, Şener Özmen, Ciwanmerd Kulek, Suzan Samancı, Dilawer Zeraq, Kawa Nemir, Mehmet Dicle, Jan Dost, Fawaz Husên e certamente ne lasciamo fuori molti. In questo salto di qualità, un ruolo cruciale è giocato anche dalla pratica della traduzione: questa nuova generazione infatti, per motivi di studio e di lavoro sempre più globalizzata, traduce in curdo per la prima volta molti capolavori della letteratura mondiale, opere che in precedenza i curdi erano costretti a leggere nella lingua dei loro dominatori. Di fatto la letteratura sta diventando per i curdi un vero territorio di libertà, una geografia immaginaria che connette i quattro diversi curdi e la diaspora, abitabile senza i tormenti, le problematiche e le restrizioni della quotidianità. Un luogo in cui la propria identità si esprime e si articola in maniera libera. Kurdistan e letteratura diventano spazi “altri” che si fondono in una foucaultiana eterotopia con regole diverse e un diverso ordine di realtà (Cavaillès 2016).

La letteratura kurmanji in italiano

Purtroppo ancora niente è stato tradotto in italiano di questa fase più nuova e fresca della letteratura kurmanji; molto poco comunque in generale. Eppure l’Italia può vantare di aver dato i natali a due studiosi annoverati fra i precursori della curdologia europea moderna: il missionario apostolico Maurizio Garzoni pubblicò a Roma nel 1787 una Grammatica e Vocabolario della lingua curda, dove descrive «la favella Kurda, all’Europa fin’ora ignota, linguaggio non ingrato all’orecchio». Poi, nel 1818, l’ex-domenicano Giuseppe Campanile gli fece seguito con la Storia delle Regioni del Kurdistan, pubblicata a Napoli. Qualche anno più tardi, nel 1858, Cristina Trivulzio di Belgiojoso, in esilio volontario nell’impero ottomano, si interessa della società e dei costumi curdi e ne scrive in francese nel suo Un prince Kurde (Belgiojoso 1858). Più recentemente, una traduttrice sui generis come Joyce Lussu, spinta da Nazım Hikmet, arriva alla questione curda e, senza sapere la lingua, si avventura nella traduzione di poeti sia dal kurmanji che dal sorani (Lussu 2013, 203-211). Negli ultimi anni sono state tradotte storie e leggende dal vasto repertorio orale, ma non sempre direttamente dal curdo. Ricordiamo qui almeno De Chiara-Guizzo, Fiabe e racconti popolari del Kurdistan (De Chiara, Guizzo 2015); Sivazliyan, Storie e leggende del popolo curdo (2015); Çetin, Siediti e ascolta. Racconti brevi della tradizione orale curda (2015). Attraversando lingue e alfabeti, un’epopea popolare messa per iscritto in kurmanji in caratteri cirillici da Ereb Šamilov, curdo vissuto nell’Armenia sovietica, arriva in italiano attraverso la traduzione ponte in sorani, grazie al lavoro di Shorsh Surme: Ereb Šamilov, Il Castello di DimDim (1999). A fronte di questo, possiamo dire che la prima traduzione diretta dal kurmanji all’italiano di letteratura contemporanea, in questo caso un romanzo, è stata compiuta da chi scrive e pubblicata da ISMEO e Istituto Kurdo nel 2019. Si tratta del romanzo Tu di Mehmed Uzun (Uzun 2005a; Marilungo 2019); il romanzo d’esordio di questo autore e di fatto il primo romanzo kurmanji contemporaneo. A questo farà seguito, a breve, la pubblicazione di un altro romanzo sempre di Mehmed Uzun intitolato Il pozzo del destino (Uzun 2005b; Marilungo 2021). Nelle altre lingue europee, soprattutto nei paesi in cui la diaspora curda è presente da molti anni, si traduce già un po’ di più: basti ricordare che il grande classico della letteratura curda sopra citato, Mem û Zîn (travagliata storia d’amore alla Romeo and Juliet, nella quale i critici leggono un’allegoria dell’impossibile unità del Kurdistan) si può leggere in inglese nelle traduzioni di Alan Ward e Salah Sadallah, rispettivamente del 1969 e 2008, in francese (Sandrine Alexie e Akif Hasan, 2001), in tedesco nella traduzione di Cemal Nabez del 1969, in arabo nella traduzione di Jan Dost del 2008 e in molte – e molto controverse (Glastonboury 2015) – traduzioni turche. Ma non in italiano.

Negli ultimi anni sono arrivate in italiano molte opere di autori curdi la cui lingua di scrittura, però, è altra dal curdo. Per Giovanni Tranchida Editore sono usciti molti titoli di autori curdi che scrivono, o scrivevano, in turco come Yaşar Kemal, nelle traduzioni di Roberta Denaro, Antonella Passaro e Claudia Zonghetti (Kemal è stato più recentemente ripubblicato da Garzanti, nella traduzione di Giuseppe Cittone, e da Rizzoli, nelle traduzioni di Antonella Passaro, Simone Abramo e Pınar Gökpar), e Suzan Samancı, tradotta da Claudia Zonghetti; o in tedesco come Yusuf Yeşilöz (traduzioni di Claudia Zonghetti). Un autore di letteratura turca di origini curde come Burhan Sönmez è presente sugli scaffali delle nostre librerie con tre titoli: Gli Innocenti (2014), Istanbul Istanbul (2016) e Labirinto (2019). I racconti dal carcere scritti in turco dal politico Selahattin Demirtaş, leader del partito pro-curdo HDP (Halkların Demokratik Partisi – Partito Democratico dei popoli), in carcere da ormai quattro anni, sono stati tradotti per Feltrinelli (Demirtaş 2018). Di Jan Dost, autore originario di Kobane che pubblica sia in arabo che in kurmanji, è stata tradotta solo un’opera dall’arabo: Le campane di Roma (Dost 2017). È stato tradotto Sherko Fatah, curdo che scrive in tedesco: Sul Confine (Fatah 2012). È stata tradotta la poesia di Choman Hardi, che oltre a scrivere nel suo nativo sorani, scrive anche in inglese: La crudeltà ci colse di sorpresa (Hardi 2017). Dall’inglese è stata tradotta anche la fortissima testimonianza di Behrouz Boochani, curdo iraniano, profugo confinato sull’isola di Manus: Nessun amico se non le montagne (Boochani 2019). Auspichiamo la traduzione del recente romanzo Daughters of Smoke and Fire di Ava Homa (2020), autrice curdo-iraniana stabilitasi in Canada che scrive in inglese. Un autore prolifico come Salim Barakat, che scrive in arabo ed è molto tradotto in francese, spagnolo e tedesco, attende ancora la sua prima traduzione italiana.

Come si vede, qualcosa dal mondo curdo arriva in italiano, ma quasi mai direttamente dal curdo. Gli autori che vengono tradotti spesso hanno scelto altre lingue di scrittura, provengono da percorsi di migrazione verso l’Europa o il Nord America e possono pubblicare in lingue più diffuse, più appetibili per il mercato e quindi più traducibili. Gli scrittori curdi che scelgono invece di proteggere la propria lingua madre dalle politiche di “linguicidio” e di assimilazione linguistica, protagonisti di una vera età dell’oro della resistenza creativa e letteraria nella loro patria, non riescono a far breccia e ad avere accesso al mercato editoriale. Alle difficoltà che già vivono in patria si aggiunge dunque il disinteresse del mondo editoriale internazionale.

Cosa non arriva: in cerca di editori che raccolgano la sfida

Ci sono impedimenti di varia natura alla nascita di una tradizione traduttiva dal kurmanji all’italiano. La curiosità dei missionari italiani della fine del Settecento fu ben presto sovrastata dall’interesse archeologico e diplomatico di tanti viaggiatori inglesi, francesi e tedeschi: tre nazioni che in varia maniera nutrivano mire coloniali sui territori abitati dai curdi; e in effetti l’impero britannico e la Francia, in quanto autorità mandatarie rispettivamente di Iraq e Siria, ebbero occasione di costruire un notevole bagaglio di conoscenza della lingua, della cultura e delle tradizioni curde. Cosa che non avvenne in Italia, specie in seguito all’esaurirsi dell’interesse del Vaticano per quei territori. I collegamenti tra Francia, Inghilterra e Germania e la società curda furono fra i fattori che spinsero la diaspora curda a scegliere quei paesi come destinazione dei loro percorsi migratori durante il secondo Novecento. In conseguenza di queste due ragioni, Francia, Germania, Inghilterra e Svezia non hanno tardato a costruire un campo di sapere accademico (the field of Kurdish Studies) che sta crescendo esponenzialmente negli ultimi anni e che in Italia ancora stenta ad affermarsi, nonostante esempi di ricercatrici italiane di calibro internazionale come Mirella Galletti. Al di là di sporadici e meritori esempi (per esempio i Corsi liberi di lingua e cultura curda tenuti all’Università Roma Tre, sotto la supervisione del prof. Giuliano Lancioni), non esiste un vero e proprio dipartimento di curdologia in Italia: chi si occupa di materie curde lo fa spesso all’interno dei dipartimenti di turcologia, di iranistica o, con approccio per lo più legato alla geopolitica, nei dipartimenti di relazioni internazionali. Anche sul fronte dell’informazione c’è un forte disequilibrio fra l’interesse dedicato ai curdi per le loro – importantissime, si badi bene – vicende politiche e geopolitiche, rispetto a quello che è dedicato alla loro specificità culturale (su questo, Bocheńska 2018). Sono molto rare in Italia tesi di laurea o di dottorato incentrate sulla letteratura o sulla cultura curda in generale. Ciò fa sì che non esista una “squadra” di traduttori, critici, ricercatori italiani che concentrino le proprie energie sulla lingua e la letteratura, o meglio, le lingue e le letterature curde, cosa che avviene invece per il persiano, l’arabo, il turco. Manca dunque un quadro storico-critico che sia in grado di suscitare interesse e stimolare il mercato editoriale a proporre titoli da queste letterature. Su questo pesano certamente anche le strette relazioni che il nostro paese ha con la Turchia dal punto di vista storico, economico, militare e culturale. Mancando uno stato curdo, manca un quadro istituzionale in grado di proporre, sostenere e finanziare lo studio della propria cultura all’estero, creando ad esempio centri di ricerca o sovvenzionando traduzioni di libri, sul modello di quanto fa la Turchia con il programma TEDA. Mancano infine agenzie letterarie che propongano agli editori stranieri le opere migliori della letteratura kurmanji pubblicata ogni anno. Sta al traduttore-ricercatore fare il lavoro di scouting e costruire delle proposte di traduzione per gli editori italiani. L’unica grande vetrina di questa letteratura è la fiera del libro di Diyarbakır, che registra ingressi sul livello del Salone del Libro di Torino – a testimonianza dell’interesse che questo nuovo fermento letterario suscita in patria –, ma purtroppo non riesce ad essere organizzata con continuità ogni anno a causa dei gravi problemi militari e politici che funestano la città almeno dal 2015: i sindaci curdi, principali sostenitori dell’iniziativa, sono in arresto dal 2016 e Diyarbakır è amministrata da un commissario governativo, con politiche culturali di tutt’altro segno…

E dunque, per questi motivi, molto di quanto viene scritto e pubblicato non arriva da noi. Non ci arriva nulla della sottile ironia dei romanzi di Şener Özmen (di lui per fortuna arriva qualcosa della sua produzione irridente nel campo dell’arte contemporanea: vedi In-between Worlds. Kurdish Contemporary Artists 2017). Non ci arriva il realismo magico di Helîm Yûsiv (qualche anno fa tradotto in inglese); non arriva la sottile critica sociale di Firat Cewerî o di Hesenê Metê; non arrivano le rielaborazioni dei traumi subiti in carcere di Selahattin Bulut; non arrivano i lavori freschi di Dilawer Zeraq, di Ciwanmerd Kulek o di Fawaz Husên. Non arrivano i racconti cesellati di Mehmet Dicle, né quelli di Suzan Samancı, che dopo un ottimo avvio di carriera in turco ha deciso di “ricominciare” il suo percorso letterario passando alla sua lingua madre. Non arriva la poesia di Arjen Arî, Berken Bereh, di Fatma Savcı, di Gulîzer o di Kawa Nemir (che fra l’altro recentemente ha scritto il libretto di una Tosca in kurmanji andata in scena ad Amsterdam); non arriva la fantascienza di Mîran Janbar o il giornalismo letterario di un giovane come Murat Bayram. Di Jan Dost, nonostante il suo ruolo importante per la letteratura kurmanji contemporanea, arriva solo quanto scritto in arabo. Sono solo alcuni nomi di autori la cui produzione si colloca fra i primi anni novanta e i giorni nostri, e sostanzia la rinascita creativa di cui abbiamo parlato. Dalle loro opere emergono una varietà di tematiche e una continua ricerca di mezzi estetici ed espressivi. Certamente, la questione socio-politica, la repressione culturale, il senso di vittimismo dell’identità curda sono molto presenti, e possono essere resi con strategie che vanno dal realismo, al realismo magico, all’allegoria, al racconto di fantasia. Ma la tendenza è quella di “liberarsi” dal peso opprimente del passato e dal dato preciso del presente per esprimere visioni più universali. È una letteratura che sembra percorsa dal tentativo di ricomporre per via immaginativa la frammentata geografia imposta dalla realtà; c’è, forte, lo sforzo di immaginare un Kurdistan esistente, seppure solo nel momento di sospensione del reale offerto dalla letteratura (Galip 2015). C’è anche un sofferto modo di fare i conti con il dolore e la scomparsa di un altro popolo vittima che fino al 1915 ha storicamente abitato quelle terre insieme ai curdi, ovvero il popolo armeno. Già alcuni dei saggi sul multiculturalismo scritti da Mehmed Uzun negli anni novanta affrontavano questa questione (Uzun 2006), ma dopo il 2000 assistiamo a una sorta di esplosione narrativa della questione armena nella letteratura curda con almeno tredici romanzi in dieci anni incentrati su questa tematica, fra i quali segnaliamo qui solamente Yaqob Tilermenî con Bavfileh (2009); Pêşengeha Sûretan di Îrfan Amîda (2011); Varjabed di Amed Çeko Jiyan (2010) (vedi Çelik, Öpengin 2016).

A fronte del grande interesse suscitato dalla vicenda curda negli ultimi anni, soprattutto in relazione alla resistenza armata al cosiddetto Stato Islamico, non c’è un equivalente attenzione alla produzione culturale di questo popolo, così variegato e diversificato al suo interno e in una fase molto vivace della sua storia. Le arti figurative si giovano probabilmente di una maggiore immediatezza: come denota il grande successo della pittrice curda Zehra Doğan (in mostra a Brescia al Museo Santa Giulia nel 2019 e alla Prometeogallery di Milano nel 2020), il pubblico italiano è estremamente curioso del popolo curdo, un popolo che sentiamo per molti aspetti vicino, ma di cui conosciamo poco. Conoscere la letteratura di un popolo straniero, lo sappiamo, implica il tempo lungo e faticoso della traduzione, ma forse niente come la letteratura sa condurre lo straniero così a fondo, così vicino al cuore di una specificità culturale.

Tentativi e problemi del tradurre dal kurmanji all’italiano: esempi da Tu e da Il pozzo del destino di Mehmed Uzun

Tutto quanto detto sopra implica che il traduttore italiano che voglia far conoscere la pur vivace letteratura kurmanji in Italia si trovi davanti a numerosi ostacoli. Mancano innanzitutto dei precedenti e dunque l’impresa ha un carattere pressoché pionieristico. Non ci sono molti altri traduttori da cui prendere esempio e da cui imparare. Mancano gli attrezzi del mestiere: non esiste un vocabolario kurmanji-italiano (quello del Garzoni sopracitato ha quasi trecento anni) e, dopo la consultazione del monolingue, si deve quindi far spesso riferimento a dizionari con altre combinazioni: kurmanji-inglese; kurmanji-francese; kurmanji-turco. Inoltre il kurmanji ha già di per sé una storia travagliata, come prima si accennava. È solo negli ultimi due decenni che scrittori, accademici, giornalisti e ricercatori curdi hanno potuto lavorare con continuità e sistematicità al processo di standardizzazione della lingua, un processo ancora ben lungi dall’essere completo. È in atto un esteso dibattito, con echi ovviamente anche di natura politica, sulla stesura di una grammatica unitaria del kurmanji e un consenso è ancora molto lontano dall’essere raggiunto. Poiché la varianza regionale e dialettale interna al kurmanji è ancora un fattore determinante, è spesso utile al traduttore far parte, per esempio, di gruppi spontanei sui social network nei quali i parlanti kurmanji provenienti da diverse regioni si confrontano sulle varianti regionali e dialettali di alcune parole. Alla base di questi problemi sta ovviamente l’assenza di un percorso educativo in kurmanji. In qualche maniera, è il sistema mediatico a sopperire in parte alle funzioni che spetterebbero al comparto scolastico, ma ciascun organo di stampa, radiofonico o televisivo, può mettere in atto scelte linguistiche differenti. Per cui il traduttore deve fare i conti con una lingua ancora poco strutturata e che può cambiare sensibilmente da scrittore a scrittore, non solo per ragioni di stile o di provenienza geografica, ma anche per precise scelte ortografiche. Inoltre, manca in Italia un percorso formativo accademico che porti ad avere una conoscenza approfondita della lingua curda, per cui bisogna abbandonare il nostro paese e formarsi nei centri di ricerca presenti in Inghilterra, Francia, Olanda o Germania. Per di più, la ricerca sul campo è spesso e volentieri problematica: non sempre è possibile frequentare liberamente le regioni curde, specialmente in Turchia, Siria e Iran, a causa della delicata situazione politica e militare. Infine, per quel che riguarda la letteratura kurmanji scritta in Turchia, la conoscenza del turco è di fatto un requisito alle volte imprescindibile. In molti casi gli scrittori curdi vogliono dare il senso della diglossia in cui vivono e mettono in bocca ai personaggi parole o frasi in turco, anche per far sentire il peso opprimente che questa lingua ha sulla loro lingua madre; molti autori lasciano il turco nel testo senza traduzione in nota, consapevoli del bilinguismo dei propri lettori. Attraverso il turco inoltre si ha accesso a molti canali di informazione e alla letteratura accademica che riguarda la cultura curda.

Consapevoli di queste lacune e di queste grandi difficoltà, l’Istituto Kurdo di Roma e ISMEO hanno deciso di fare da apripista e di tradurre dal kurmanji due romanzi di colui che è quasi unanimemente considerato il padre del romanzo contemporaneo in quella lingua: Mehmed Uzun (1953-2007), autore seminale e fondativo per la scena letteraria e culturale curda contemporanea. Il suo lavoro, che va dai primi anni ottanta al 2007, ha di fatto posto le basi della pratica letteraria curda contemporanea. È grazie al suo esempio che molti dopo di lui hanno potuto immaginarsi scrittori con respiro internazionale e contemporaneo. Il suo lascito maggiore sta nell’aver proposto, per la prima volta in kurmanji, forme moderne di romanzo, tecniche narrative postmoderne, strutture elaborate. Contemporaneamente, il suo è stato un lavoro linguistico: adattare una lingua non standardizzata e con un bagaglio lessicale ricco, ma per lo più limitato all’oralità, alle strutture sintattiche necessarie alle forme romanzesche è stato un onere che gli è toccato durante tutta la vita, come testimonia nella raccolta di saggi scritti in turco Bir dil yaratmak (Creare una lingua, Uzun 2010). Uzun ha dimostrato che con il curdo (lingua apertamente denigrata in Turchia e della quale veniva pubblicamente negata l’esistenza) era possibile scrivere romanzi, attingendo alle forme della letteratura mondiale. Per quanto lo si possa considerare perfettibile e lacunoso per certi aspetti, il suo lavoro va considerato nel contesto d’origine, fortemente limitante, e comunque ha senz’altro indicato la via agli scrittori delle generazioni successive, avviando una tradizione sino ad allora inesistente. Si può dire che, con i suoi romanzi e soprattutto le traduzioni in turco dei suoi romanzi, le sue numerose interviste, i suoi saggi, i processi ad alcuni dei suoi libri, Uzun abbia di fatto creato la scena letteraria curda contemporanea in Turchia.

Nelle scelte di traduzione compiute con Istituto Kurdo, si è scelto di dar conto di due diverse fasi della scrittura di Uzun. Dopo l’esordio autobiografico e testimoniale, incentrato sull’esperienza carceraria vissuta dall’autore e comune a molti suoi colleghi, Uzun prenderà via via la strada del romanzo storico, concentrandosi su figure chiave della storia curda, cercando di ricostruire e proteggere la memoria del suo popolo. Nel primo romanzo, che è anche il primo ad essere tradotto in italiano, Tu (Uzun 2005a; Marilungo 2019), si sente il corpo a corpo che l’autore compie con la lingua, lo sforzo di costruzione di una prosa letteraria. Il libro alterna passaggi nel chiuso del carcere, dove la lingua materna è sovrastata e aggredita dal turco dei carcerieri, a passaggi immaginativi nei quali il protagonista si muove negli spazi aperti del suo Kurdistan: le montagne, le valli, i fiumi, le pianure sconfinate. Lì la lingua ritrova ritmo, melodia, respiro. Lunghi elenchi di nomi di fiori, frutti, erbe, animali, sembrano voler testimoniare non tanto dell’esistenza di quegli elementi, ma delle parole che li designano. A difesa di una ricchezza lessicale che in Turchia al curdo veniva pubblicamente negata. Uzun sembra dire ai suoi connazionali: “eccole, ascoltatele, abbiamo le parole per tutto. Non credete agli insegnanti, ai giudici, ai politici turchi che vi dicono che la nostra lingua non esiste ed è povera. Credete invece ai vostri nonni, che quelle parole custodiscono”. Per esempio, quando dal chiuso della cella d’isolamento, il protagonista ricorda le gite compiute al villaggio, richiama alla memoria i momenti in cui il nonno gli insegnava i nomi delle erbe in curdo, saldando così in un solo gesto natura e lingua, paesaggio identitario e lingua d’espressione dei propri sentimenti:

“Occhi miei neri, guarda bene queste qua. Tutte queste sono erbe mangerecce, commestibili per gli esseri umani. Impara a conoscerle e non esserne spaventato. Questa qui si chiama ibisco, questo è il cardo, questa qui è la genziana, mentre questo qui è il crescione, questo l’aglio selvatico, e questa l’acetosa, questa la menta poleggio e questa la senna…” E così me le mostrava una ad una e mi diceva i loro nomi. (Marilungo 2019, 158)

“Çavreşê min, baş li van binêre. Ev hemû giyayên xwarbar in. Yanê tên xwarinê, yên meriv dikare bixwe. Van binase, ji van metirse, nave vê tolik e, ev giyayê kerengê ye, ev tûzmazk e, ev soryaz, ev sîrmak, ev sîrik, ev tirşok, ev pûng…’’ Wisan yek bi yek wî ew nîşanî min didan û nave wan digotin. (Uzun 2005a, 168)

Per una lingua negata, l’elenco, l’atto stesso del nominare le cose, indicandole e quasi toccandole con il suono della parola, diviene ontologicamente necessario. Quando avrà creato la sua lingua romanzesca, Uzun si dedicherà al romanzo storico con cui probabilmente raggiunge il suo miglior risultato, Il pozzo del destino (Uzun 2005b; Marilungo 2021), romanzo incentrato sulla biografia del grande attivista e intellettuale curdo degli anni trenta e quaranta Celadet Ali Bedirxan, padre della sopracitata rivista «Hawar» e dell’alfabeto curdo in caratteri latini. Il racconto della vita di Bedirxan e della sua famiglia ha anche il pregio di mostrare un passaggio storico fondamentale per il destino del popolo curdo, ovvero quella fase che va dalla caduta dell’impero ottomano alla nascita dei moderni stati nazionali in Medio Oriente: è il momento dell’“occasione mancata” per i curdi di avere un loro stato nazionale. Celadet Bedirxan attraversa due guerre mondiali e tocca geografie diverse come Istanbul, Monaco, Il Cairo, il Kurdistan, la Siria e il Libano. Discendente da una famiglia di emiri curdi proveniente da Cizre (città del grande vate Ehmedê Xanî) esiliata a Istanbul, cresce in un contesto multiculturale, riceve un’educazione “occidentale” e parla correntemente turco, curdo, francese, tedesco nonché rudimenti di greco e italiano. Raccontando la sua storia, Mehmed Uzun vuole mostrare il dinamismo e la pluralità del mondo ottomano, poi cancellata e sostituita dal monocolore nazionalista della repubblica di Turchia. Durante la sua breve vita, Celadet lotterà attivamente per la costruzione di uno stato curdo, fallendo; organizzerà la ribellione contro la Turchia kemalista venendo sconfitto; quando le vie politiche saranno esaurite, si dedicherà a una sorta di resistenza culturale fondando la rivista per proteggere e diffondere la letteratura curda, cercando così di cementare e raccogliere un popolo che proprio in quegli anni veniva diviso da confini e aggredito da politiche che ne negavano l’esistenza. Raccontando in un romanzo storico la vita di Bedirxan negli anni novanta, Uzun ne canonizza la figura presso l’immaginario collettivo curdo ed eleva la cura e la protezione della lingua e della letteratura a compito nazionale dei curdi, popolo senza stato cui non rimane che abitare il proprio idioma. Il concetto di memoria e di preservazione della memoria attraverso la lingua è centrale in tutto il romanzo già a partire dal titolo, Bîra Qederê, che presenta una parola con una stratificazione di significati impossibile da rendere in italiano: bîr, infatti, può voler dire “memoria”, in tutte le sue accezioni, ma vuol dire anche “pozzo”. A una prima occhiata, i due concetti sembrano distanti, ma non più quando si ragioni sulla memoria come “serbatoio” dell’identità di un individuo e di un popolo; la memoria come “luogo” che custodisce il liquido vitale. C’è un pozzo (bîr) in ogni capitolo del libro, e sempre attorno a un pozzo avvengono le scene madre del romanzo. Il pozzo nasconde, inghiotte, risucchia nell’oblio, ma allo stesso tempo dal pozzo si può tirar su dell’acqua, elemento vitale che ridà vigore alla natura. Così anche la memoria (bîr), di un individuo o di un popolo, può scomparire e essere inghiottita nell’oblio; può essere cancellata, può essere chiusa e sigillata; o al contrario, la memoria può essere il deposito da cui nuovamente attingere risorse (nomi, luoghi, parole…) da dare al presente.

C’è una singolare coincidenza fra il lavoro di Uzun e quello del suo traduttore italiano. Uzun infatti si trovò, come egli stesso ebbe a dire, non tanto a continuare una tradizione letteraria bensì a crearne una ex-novo, dovendo dotarsi di tutti gli strumenti necessari, primo fra i quali una lingua letteraria. Così il traduttore italiano dei suoi romanzi si avvia lungo un sentiero mai battuto prima, cercando di aprirsi la strada fra una serie di difficoltà. Per alcuni passaggi più oscuri si è fatto riferimento alle traduzioni turca dei due romanzi (Tu tradotto da Selim Temo, Bîra Qederê tradotto da Muhsin Kızılkaya). Va detto che la lingua di Uzun è semplice, paratattica, predilige la ripetizione, l’accumulo e l’elenco, quasi a voler produrre lemmari da far conoscere ai propri lettori. La frase è spesso nominale, di breve respiro, il più possibile limpida. Si sente la volontà di creare il lettore, di istruirlo ed educarlo a un’esperienza – quella della lettura in prosa in kurmanji – cui non è abituato. Sullo sfondo c’è sempre il rapporto con altre lingue e specialmente con il turco: asfissiante in Tu, dove la gerarchia e la predominanza della lingua ufficiale messa in bocca ai militari, ai giudici, ai carcerieri, e l’illegalità del curdo parlato in famiglia dal protagonista è ragione stessa delle sue sofferenze. In quel romanzo d’esordio Uzun vuole dare il senso plastico della gerarchia linguistica imposta in Turchia attraverso la criminalizzazione del curdo e l’imposizione violenta del turco sulla popolazione curda. In Bîra Qederê, invece, la sconfitta storica del popolo curdo è riscattata solo in ragione della fede in una lingua e di una letteratura che si fa custode unica della propria identità.

Conclusione

L’opera di Uzun ha una rilevanza ineludibile per lo scrittore curdo contemporaneo: sia che ne prenda ispirazione, sia che ne prenda le distanze, non può ignorarlo. Ma la letteratura curda non si è fermata a Mehmed Uzun, tutt’altro. Lo sperimentalismo delle forme e delle strategie narrative, la negoziazione di uno spazio di autonomia estetica svincolato dall’ordine del giorno politico, il confronto con i classici mondiali che a buon ritmo vengono tradotti in kurmanji per la prima volta nella storia, il lavoro cruciale di case editrici professionali (per brevità, citiamo solamente Avesta e Lîs), l’apertura – sofferta e continuamente messa in discussione dallo stato – di spazi pubblici di dibattito/presentazioni di libri nelle città curde del sud-est della Turchia, la nascita di spazi di ricerca accademica in alcune università (Mardin, Diyarbakır, Muş) e di riviste letterarie («Nûbihar», «Wêje û Rexne», «Zarema»), nonché le prime traduzioni di opere curde in lingue occidentali, sono tutti elementi che contraddistinguono il mondo letterario curdo nei primi due decenni del nuovo millennio. Se per certi aspetti è inevitabilmente una letteratura di resistenza (Scalbert-Yücel 2013), uno strumento di lotta anticoloniale contro la repressione e l’assimilazione linguistica, la letteratura curda ormai cerca di essere anche letteratura tout court, strumento espressivo di ogni sfumatura umana – quindi politica, sociale, psicologica, emotiva, speculativa…– di chi si identifichi in una lingua e in una comunità di parlanti e scriventi.

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