Il correttore

LEONE GINZBURG E LA TRADUZIONE DA LETTERALE A EDITORIALE

di Giorgio Ferri

Leone Ginzburg era traduttore per costituzione. Dovette presto imparare a tradursi e presto tradurre i nuovi segni che via via si disponevano attorno a lui. Era un ebreo nato sul Mar Nero, a Odessa, figlio di russi; ma il padre Fëdor Nikolaevič aveva parenti in Italia. E in Italia, anzi in Toscana, i Ginzburg venivano in vacanza e Leone vi orecchiava la lingua. Poi la studiò, a Viareggio. Fu a Torino per un breve tratto, e ricongiuntosi coi suoi proseguì gli studi a Berlino. Due anni dopo, nel 1924, si stabilì a Torino, dentro l’Italia fascista e con un poderoso vaccino contro la cultura d’accatto, la retorica, le conoscenze linguistiche e letterarie approssimative, la cialtroneria, di quella società – per lasciarvi un segno perpetuo. Conobbe al liceo le idee di Croce e fece in tempo a respirare un’aria ancora satura della lotta politica di Piero Gobetti. Cominciò a tradurre e a cospirare. A farsi letterato avendo in spregio la magniloquenza. A rischiare in prima persona senza perciò denigrare chi non disponeva di una riserva di coraggio e intransigenza altrettanto profonda. Si laureò su Maupassant, e ottenne la libera docenza in slavistica all’università. Presto la rifiutò per non giurare fedeltà al regime. Fu ufficialmente italiano per soli sette anni. Fu effettivamente, per la conoscenza della letteratura e della tradizione, per il contributo che diede a questa cultura, per come le aprì gli occhi sull’altro, per la volontà di capire e sapere immettendovi l’altro, più italiano, e più patriota, di chi gli concesse la cittadinanza nel 1931 per revocargliela nel 1938. Ma queste cose le sanno tutti.

Cominciò dai dettagli. Leone Ginzburg fu un agguerrito drizzatore di accenti, di grafie dei nomi stranieri. Infaticabile, ripristinava leggi fonetiche e congiunture storiche. Un correttore. Fra Dèmoni e Demònî, scriveva sul n. 3 del 1932 di«La Cultura», c’è tutta la differenza che passa fra la tradizione socratica e quella neotestamentaria; e Dostoevskij ha inteso collocare senz’altro la sua opera entro la seconda (Ginzburg 2000, 228). L’edizione Slavia del 1929 di Anna Karenina da lui tradotta pullula, diversamente dalla maggior parte delle altre della collana «Il Genio russo» diretta da Alfredo Polledro, di note: e qui finiscono notizie storiche, chiarimenti sul sistema di misurazione russo e sui patronimici, corrispondenze o meno di proverbi, difese delle scelte traduttive e perfino rettifiche di citazioni fatte da Tolstoj (Ginzburg 1929). Fra l’ottobre e l’aprile del 1931, con una determinazione che sfiora l’impudenza, come spesso accade a chi sa di essere nel giusto, si dava a scovare ed emendare senza pietà gli errori contenuti nella Storia d’Europa del senatore Benedetto Croce; per Ginzburg, un libro contro la morte, la cui «impressione è stata, come sempre, grandissima», scriveva all’autore il 31 ottobre del 1931 (Ginzburg 2004, 279). Quell’autore riusciva «prodigiosamente giovane, anzi nostro coetaneo» (Ginzburg 2004, 282), gli aveva scritto il giorno prima, appena avuto il testo tra le mani. Ma proprio per questo esso doveva essere perfetto. E non di sola ortografia si trattava. Lo zar Nicola I (zar, non czar come aveva scritto Croce calcando sul francese) vi appariva troppo buono. Era invece opportuno ricordare, diceva Ginzburg a Croce, il suo carattere efferato e in taluni casi addirittura «macabro» che, tra l’altro, fu all’origine della «pseudo-fucilazione» del congiurato Dostoevskij (Ginzburg 2004, 279).

L’antifascismo di Gobetti e Ginzburg, pensiero e azione insieme, traduzione e lotta, politica e filologia (soprattutto per il secondo) è tutto teso alla soppressione dei luoghi comuni e al restauro dei nessi storici. E sempre nel 1932, aggiustando il tiro sia di Croce sia di Gobetti, Ginzburg sfata l’idée reçue secondo cui ai russi difetterebbe «l’educazione al pensiero logico, che gli occidentali ebbero dalla Scolastica», opinione che Gobetti assume – troppo acriticamente – da Benedetto Croce. Opinione – scrive Ginzburg sul n. 5, dicembre 1932, dei clandestini «Quaderni di Giustizia e libertà» a proposito di Gobetti e il significato della rivoluzione russa – «un po’ troppo assoluta per essere del tutto vera, e certo metodicamente pericolosa» (Ginzburg 2000, 10). La correzione di Ginzburg è essenziale: perché in Italia un simile pregiudizio sulla cosiddetta “anima slava” era all’origine di ogni fraintendimento della letteratura russa. Pregiudizio, per giunta, di seconda mano; ereditato dai francesi e che minava in partenza ogni possibilità di bene intendere e dunque tradurre i grandi scrittori russi (vedi in proposito Baselica 2018). La prima pietra, però, anche in questo caso l’aveva messa Croce: la confutazione del binomio lombrosiano genio/follia, poiché l’azione creatrice, frutto del genio, è sempre «cosciente» (Croce 1990, 21 e 512), doveva aprire la strada al corretto inquadramento anche di Dostoevskij cui pervennero Gobetti e Ginzburg (facendo sì che nel tradurlo gli italiani non si prendessero più quelle libertà cui la sua presunta follia, e dunque il “disordine”, avrebbero dato adito.)

Conscio del suo magistero, Croce si preoccupava di fornire, ove se ne avvertisse la necessità, la chiave per uscirne. Diede un ritratto dell’«atteggiamento, che è proprio della giovinezza, di accettare con fiducia una parola che non si è intesa a pieno e non si è interiormente rifatta e criticata», mentre nell’accostarsi a un maestro occorre «insieme criticarlo e dissolverlo» (Croce 1989, 57). Qui ognuno è al contempo maestro e discepolo. Gobetti e Ginzburg camminano in un solco, ma nessuno è pedissequo.

In un certo senso, Benedetto Croce non ha mai scritto che tradurre è impossibile, o indesiderabile; ha fatto, ne era maestro… delle distinzioni. Ha raccomandato una traduzione interlineare a scopo didattico; una letterale, «un calco» per la filosofia (Petrillo 2018); una «ricreazione» per la poesia in versi e in prosa, che ritenga per unica guida il gusto.

Dall’autunno del 1918 Gobetti e Ada Prospero hanno cominciato a prendere lezioni di russo da Rachele Gutman Polledro, e queste non hanno tardato a dare frutti eccellenti, con la traduzione in condominio di alcune novelle di Andreev, un contemporaneo. La prima rivista di Gobetti, «Energie Nove», nasce nell’inverno del 1919, e Ada ovviamente vi collabora. Hanno pubblicato qui le loro prime prove.

D’estate Ada tenta quasi dolorosamente di venire a capo dell’Estetica di Croce, specialmente del concetto di intuizione. Un’immagine dalle sue vacanze : «Ho Croce e Andreev sul mio tavolino nel vano della finestra, dinanzi alle mie montagne ardite e grandi» (Gobetti 2017, 108). Capire Croce per capire Andreev, o meglio capire il valore estetico della loro traduzione.

A mezzo lettera, Gobetti prova a schiarirle «l’identità di intuizione ed espressione», che pure non lo convince appieno; in particolare per la conclusione secondo cui «Ogni traduzione, infatti, o sminuisce e guasta, ovvero crea una nuova espressione, rimettendo la prima nel crogiuolo e mescolandola con le impressioni personali di colui che si chiama traduttore» (Croce 1990, 87). Scrive che il risultato del loro lavoro su Andreev non è «essenzialmente originale», altrimenti «potremmo mettere noi il nostro sentimento». È invece «ripensamento e fusione e ricreazione attraverso un oggetto posto e dato dalla storia. Non ci può essere nella traduzione il πάθος del traduttore, ma il σύνπαθος». Occorrerebbe piuttosto «indagare il concetto di lingua», fare uno studio sulla lingua nazionale e sulle differenze strutturali fra le due lingue in gioco (Gobetti 2017, 93, 131). Si è posto un problema di tipologia linguistica, diremmo oggi, che Croce non poteva certo prendere in considerazione essendo per lui intuizione ed espressione, contenuto e forma, estetica e linguistica, fuse assieme: una cosa sola.

Con la sua idea di sympathos Gobetti intende «“l’identità di espressione e intuizione come un identificarsi progressivo: […] momento ultimo di approssimazione del linguaggio al concetto», per cui: «Che si venga a trattare di un testo nuovo e di una nuova identità è soltanto ovvio, ma non per questo dovrà trattarsi di un tradimento del testo originario» (Esposito 2018, 56-57). La vera novità è l’attenzione per il lavoro che il traduttore svolge sulla lingua materna: un lavoro di scavo. Solo così si instaura il rapporto di «simpatia» con l’autore straniero, attraverso una sorta di epochè indotta nel lettore, che in tal modo è quasi costretto a rendersi conto dell’alterità di cui il testo d’arrivo è latore. Parole affini a quelle dell’arcinoto, e quasi coevo, testo di Walter Benjamin sul compito del traduttore, che besteht darin, diejenige Intention auf die Sprache, in die übersetzt wird, zu finden, von der aus in ihr das Echo des Originals erweckt wird (Benjamin 1923: «consiste nel trovare quell’atteggiamento verso la lingua in cui si traduce, che possa ridestare, in essa, l’eco dell’originale» – Solmi R. 1962, 47).

Si tratta di elaborare, muovendo dall’intransigenza appresa da Croce, un approccio alla traduzione cui l’estetica crociana sta stretta in più punti. Nel gergo traduttivo di quegli anni l’esattezza come «dovere morale» (Croce 1951, 487) sembra confluire nel termine letteralità. Per Gobetti e Polledro è un concetto che viene maturando in reazione ai proverbiali tagli delle versioni francesi, alla traduzione infedele tout court. Letteralità non è un procedere parola per parola col dettato originale, bensì una disposizione etica nei confronti dell’opera straniera.

Intransigenza e responsabilità sono parole chiave, le due facce dell’etica di Leone Ginzburg. La seconda compare puntualmente a conclusione di due importanti cicli della sua vita intellettuale. Una prima volta nel 1928, in una lettera a Norberto Bobbio, a conclusione della traduzione di Anna Karenina, il «primo lavoro veramente di responsabilità che mi fosse stato affidato; […] veramente una grande data della mia vita, ma esclusivamente dal punto di vista etico» (Ginzburg 2004, 30). Una seconda dieci anni dopo, il 1° gennaio del 1938, in una lettera a Benedetto Croce, a proposito dell’edizione dei Canti leopardiani per gli «Scrittori d’Italia» di Laterza, «primo lavoro filologico di cui m’assumo intera la responsabilità» (Ginzburg 2004, 331). Nel dicembre del 1932 Ginzburg supera l’esame per la libera docenza in letteratura russa (in commissione c’è Ettore Lo Gatto). Col nuovo anno, durante la prolusione al corso su Puškin, esprime con forza «la volontà, di noi slavisti, che i nostri studi non siano secondi a nessuno, come serietà filologica e sicurezza di metodo» (Ginzburg 2004, 295).

«[…] sempre più mi convinco – scrive a Croce il 7 ottobre 1933 – che alla gente, troppo pronta alle false generalizzazioni sulla Russia e la sua cultura, si debbano dare testi, oltre che saggi critici» (Ginzburg 2004, 303). Affermazione che ne riecheggia un’altra, vergata dal destinatario più di quindici anni prima: «ci vollero anni di esperienze per persuadermi che i commentatori e gli espositori sono per solito di gran lunga più oscuri dell’autore commentato» (Croce 1989, 53).

In materia di traduzione Ginzburg nutre idee differenti rispetto a Croce. E nella pratica, non segue in nulla i suoi dettami. Sebbene la sua idea di traduzione negli anni di Slavia coincida con questo approccio, non parla mai scopertamente di letteralità. Per Croce la traduzione letterale è inestetica, è cioè puro commento dell’originale. Tuttavia la pervicace aderenza al testo che altri, come Polledro, chiama letteralità, è anche per Ginzburg il viatico alla resa etica ed estetica degli autori russi.

Della sua versione di Besy (Küfferle 1931: I demoni), condotta fra 1927 e 1928 per la «Biblioteca romantica» di Giuseppe Antonio Borgese, Rinaldo Küfferle dichiarava: se «conserva asprezze e dissonanze sgradite, è colpa, o merito, di un’intenzione meditata.» È l’esposizione programmatica del metodo letterale per come lo intendeva Alfredo Polledro (che vi si attenne con rigore nella sua versione di Brat´ja Karamazovy: Polledro 1927). Un approccio traduttivo col quale, scrive Ginzburg nell’articolo della «Cultura» già citato, «non si può che andar d’accordo […], e riconoscere la serietà del lavoro compiuto» (Ginzburg 2000, 229). È la corretta impostazione da seguire per «dare testi», come scriveva a Croce; che avrebbe senz’altro giudicato la versione di Küfferle una «brutta fedele».

Come Gobetti prima di lui, Ginzburg vuole reimpostare il problema della traduzione; e deve a sua volta fare i conti con l’Estetica. Posta l’identità di intuizione ed espressione, anche la «rettorica» come distinzione tra proprio e metaforico non ha corso in ciò che ha valore estetico, nell’opera d’arte, perché qui «non si hanno se non parole proprie» (Croce 1990, 92); lo ha bensì come distinzione a servizio della logica e della scienza. Eppure, nell’impostare un modello interpretativo per la letteratura, già nei Nuovi appunti su Anna Karenina pubblicati nel numero 6, 1928, di «Il Baretti», Ginzburg dà una sua personale definizione di stile in cui si risente sia la lezione di Croce sia la necessità di ricavarsi un margine critico indipendente.

dirò come io lo [lo stile] consideri un problema psicologico e non un problema retorico; giacché l’importante, anzi l’essenziale, è d’avere quella data forma mentis e non un’altra; e non di adoperare un tempo del verbo invece d’un altro, e il punto e virgola invece del punto fermo. S’intende che il problema psicologico si studia e si conosce nelle sue estrinsecazioni pratiche, di parole e di periodi, che possono formare oggetto anche d’indagine retorica; ma io credo che non si faccia un lavoro utile alla penetrazione del valore poetico se non risalendo ogni volta dalle parole e dai periodi allo spirito del poeta come s’è palesato nel complesso dell’opera, ovverosia stabilendo continuamente delle relazioni fra il fatto particolare e l’ispirazione generale (Ginzburg 2000, 261-262)

Come porsi di fronte a un testo; per interpretarlo e riconoscerne il valore stilistico, va da sé, ma anche per tradurlo e, di più, recensirne la traduzione.

Dalla polemica con Leonardo Kociemski, traduttore di una serie di racconti čechoviani per la «Romantica», si ricavano convinzioni antitetiche a quelle di Croce. Nella recensione ai Racconti di Čechov tradotti, uscita nel fasc. 6 del 1931 di «La Cultura», Ginzburg smonta punto per punto la validità delle scelte di Kociemski, valendosi di un confronto serrato fra questa nuova versione e quella già uscita da Slavia (Faccioli 1927). Si muove continuamente tra il livello micro e macro-strutturale. Intanto Faccioli «conserva anche la disposizione dei periodi», laddove Kociemski «s’è permesso parecchie interpolazioni»; e oltre a quelle esornative, continua Ginzburg, «ci sono anche le interpolazioni esplicative, le correzioni a Čechov […]». Il traduttore spiega, colma lacune che crede di vedere nel testo (a «Giulietta e Romeo» antepone di suo l’aggettivo «shakespeariano»), vuole abbellire: «cura assidua del signor Kociemski è soprattutto di purgare le opere čechoviane delle molte ripetizioni che le deturpano» (Ginzburg 2000, 316-319).

Addentrandosi nel livello micro-strutturale Ginzburg passa dalla disposizione dei periodi a quella delle singole parole, fino all’interpunzione stessa. A disturbarlo qui è l’abuso dei punti di sospensione, perché «lo stacco che dà un semplice a capo non è sempre sufficiente: una riga di puntolini ogni tanto fa un bellissimo effetto, quando sia insinuata abilmente al momento giusto: quel positivista di Čechov assume subito un’aria misteriosa davvero attraente» (Ginzburg 2000, 318-19). È possibile, sembra dire Ginzburg, che un autore classificato come positivista al netto degli studi storico-filologici indulga poi nella forma delle sue argomentazioni a una tecnica che contrassegna l’incertezza o peggio l’ambiguità?

A livello macro-strutturale, Ginzburg nota che il traduttore ha travisato l’intera psicologia della scena di Duél (Il duello) in cui Laevskij fa una confessione molto intima al burbero Samojlenko. Sempre in obbedienza al gusto dell’interpolazione che lo ha guidato fin lì, Kociemski aggiunge che Samojlenko diventa rosso «dal piacere» (Kociemski 1931, ), quando invece quelle parole devono avere scosso il suo genuino pudore). Questo errore non è tuttavia casuale. Dipende dal fatto che il traduttore ha agito trascurando il modello interpretativo di Ginzburg, ovvero stabilire «continuamente delle relazioni fra il fatto particolare e l’ispirazione generale»; non si è mosso cioè costantemente tra livello micro e macro-strutturale, cosa che gli avrebbe permesso di rilevare la coerenza tematica del testo di partenza.

In Leone Ginzburg filologia e traduzione sono perfettamente fuse assieme. Bisogna attenersi al testo, secondo un’unica norma: l’esattezza. Tutti gli strumenti scientifici a servizio di un’intelligenza attiva in ogni punto devono agire di concerto. Nulla va aggiunto: non sono ammesse interpolazioni (né esornative né tantomeno esplicative), asperità e ripetizioni vanno conservate e trasmesse al lettore; va rispettata l’interpunzione, la disposizione dei periodi e delle parole.

Per il sistema estetico elaborato da Croce, e segnatamente nei cenni sulla traduzione, le disposizioni raccolte sopra sono semplicemente prive di senso. E a differenza di Ginzburg, Croce illustrò la sua teoria, in cui negava tanto quell’approccio traduttivo quanto la pratica delle recensioni che ne conseguiva:

1) È necessario che il traduttore abbia una sua propria personalità, cioè un proprio sentire e un corrispondente stile; 2) nella sua voce si deve udire la risonanza di quella del poeta; 3) la traduzione poetica deve ubbidire alle uniche ragioni dell’arte e muoversi libera rispetto alle parole e alle immagini del testo originale, perfino in taluni casi togliendo e aggiungendo e variando dove l’arte ciò richieda. Le quali esigenze non dettano norma di cosa che non è stata ancora fatta e che aspetti di esser fatta, perché, come ognuno può verificare, sono la pratica stessa effettiva di tutti i buoni traduttori; e soltanto conveniva, come si è cercato, dimostrarle metodicamente affinché si tengano sempre presenti nella critica che si esercita sulle traduzioni. (Croce 1946, 162)

Sebbene involontariamente, Croce abbozzò un ritratto di Piero Gobetti e Leone Ginzburg:

Cotesti censori, che si mettono a confrontare parola per parola una traduzione con l’originale e vi trovano ora più ora meno parole di quelle che sono nell’originale, e di ciò si meravigliano e prendono scandalo, darebbero una prova di molta ingenuità, se non ne dessero una anche maggiore d’irriflessione. […] Che se avessero conoscenza d’arte, saprebbero che in cose come queste unica guida sicura e unico giudice senza appello è il gusto. (Croce 1946, 161).

Colui che fu «il più definitivo eradicatore del classicismo» (Contini 1989, 17) finì col legittimare, nella cultura italiana, quel disinvolto approccio traduttivo che rimonta proprio ai classicisti francesi; e il «gusto», precisamente, stava nella sua Estetica in luogo dell’indagine sui fatti linguistici, che Gobetti e Ginzburg sentivano di dover condurre per dare un apporto significativo al problema del tradurre. Non bandì, come spesso si dice, le traduzioni; fu invece l’autorevolissimo banditore di quel tipo di traduzione che oggi, con un termine piuttosto ridicolo, definiamo addomesticante.

Il 1938 è un anno di svolta anche nel pensiero traduttivo di Leone Ginzburg. Per conto di Einaudi guida l’acquisizione delle traduzioni Slavia, e si fa sentire in lui sempre più forte l’influenza di Santorre Debenedetti. Il filologo Debenedetti fu l’unico maestro riconosciuto (alla laurea di Ginzburg, nel 1931, figurava in commissione; e la sua impostazione nello studio delle fonti fu sempre un poderoso nutrimento per l’allievo). È «una sorta di resistenza all’esclusivismo culturale di Croce, un’esigenza di libertà e varietà di scelte cui tanto la filologia di Debenedetti, quanto le sue stesse idiosincrasie, da Ginzburg spesso condivise, risultavano più congeniali» (Mangoni 2004, XV-XVI). Traduzioni dal russo un tempo degne della sua approvazione ora non valgono più, vanno riviste. E il motivo è proprio l’eccessiva letteralità.

In questo periodo assume maggiore importanza il concetto di stile anche a livello formale. Ginzburg sconsiglia di ripubblicare le versioni pubblicate da Slavia, con particolare riferimento a Resurrezione, la traduzione di Voskresen’e di Tolstoj compiuta da Valentina Dolghin-Badoglio (1928) e a Le memorie di un cacciatore, traduzione da Zapiski ohotnika di Turgenev, di Raissa Olkienizkaia-Naldi (1929); della quale ultima aveva pur dato una recensione elogiativa su «La Cultura». Certo, dopo un decennio può ben darsi il caso che una traduzione fosse divenuta obsoleta; eppure, più che un fatto di lingua in sé, pare che la motivazione del rifiuto sia da addebitarsi allo stile, penalizzato dalla letteralità. In quei dieci anni Ginzburg ha lavorato come traduttore per Slavia, collaborato a riviste come «Il Baretti», «La Cultura», «Pegaso» e cospirato tra l’Italia e la Francia con Giustizia e libertà; finendo in carcere per due anni a Civitavecchia, dove ha lavorato su Ariosto e Manzoni; ha pubblicato nel 1936, una volta scarcerato, i Canti di Leopardi per Laterza e Croce, un lavoro che gli aveva conquistato definitivamente la patente di filologo; e infine si è dedicato alle collane einaudiane «Narratori stranieri tradotti» e «Nuova raccolta di classici italiani annotati» (anche se questa era diretta, occultamente poiché ebreo e quindi colpito dall’interdizione imposta dalle recenti leggi razziali, da Santorre Debenedetti.) Se negli anni venti era stato un valentissimo traduttore con l’impostazione tipica del filologo, la sua idea di stile si confaceva ora a quella di un letterato.

Con l’antico editore ci fu un vero e proprio scambio polemico nei primi anni quaranta.

Il traduttore che avete prescelto [cioè Polledro] è poi singolarmente inadatto a tradurre Čechov, data la sua mania della letteralità che non è compensata da un senso vivo e schietto della lingua parlata (quella di Čechov è tutta lingua parlata), e d’altra parte egli non ha doti letterarie abbastanza spiccate da indurlo a dipartirsi troppo dalla letteralità. Le Memorie del sottosuolo, […] proprio perché sono scritte in linguaggio parlato, hanno dovuto essere rimaneggiate da cima a fondo, per evitare che quella prosa riuscisse incomprensibile e ridicola.

Al che Polledro scriveva alla Einaudi il 16 giugno 1942 per dire di avere mantenuto «anche contro il [suo] gusto personale» la «massima “letteralità” che è sempre stato canone del Dott. Ginzburg»; e, il 21 settembre successivo, di non capire come mai in questo caso se ne era «sensibilmente allontanato» (Ginzburg 2004, 146 e 148).

Ma quell’opinione particolare di Ginzburg era diretta conseguenza di un’evoluzione generale della sua idea di ottima traduzione.

Ettore Lo Gatto aveva tradotto per la Slavia Dnevnik pisately, cioè il Diario di uno scrittore di Dostoevskij e ora (dicembre 1937) la Einaudi lo contattava per discutere di alcune modifiche da apportare alla sua versione, in vista della pubblicazione nella nuova collana «Narratori stranieri tradotti», avviata da Ginzburg, in cui sarebbero state assorbite molte delle opere pubblicate dalla casa editrice di Polledro (Lo Gatto 1943). Pur concordi circa lo «stile sciatto dell’originale», il 7 maggio del 1938 dalla Einaudi si suggeriva all’illustre slavista una revisione per «riprodurre l’impressione suscitata da quel documento letterario, sociale, umano che fu il Diario» (Ginzburg 2004, 53). Se ne sarebbe occupato lo stesso Ginzburg, frattanto confinato a Pizzoli. Negli anni del confino si infittiscono i rimandi a fatti stilistici come competenza imprescindibile del buon traduttore. «Rifiutate senz’altro quella proposta di traduzione di Čechov – scrive – per quell’autore (che va moltissimo) ci vuole una persona assai più esperta di cose letterarie» (Ginzburg 2004, 52). La raccolta di racconti proposta da Bruno Del Re nel maggio del 1941 infatti non si fece; e la stessa sorte toccò nell’agosto 1942 a Renato Vecchione che proponeva di tradurre Stichotvorenija v proze, ossia le Poesie in prosa, di Turgenev: «Meglio se il traduttore fosse stato un esperto stilista, anziché un diligente dilettante» (Ginzburg 2004, 154).

A Ginzburg il metodo letterale degli anni di Slavia sta oramai troppo stretto. Il rispetto per gli originali comporta un livello letterariamente più alto. È significativa in tal senso l’affinità tra le linee guida approntate per i collaboratori delle collane einaudiane «Nuova raccolta di classici italiani annotati» e «Narratori stranieri tradotti» (Mangoni 2000, XXXII). Dalla traduzione letterale a quella editoriale.

Gobetti e Ginzburg furono crociani non tanto nel senso del sistema o «serie di sistemazioni», quanto in quello della serietà negli studi come dovere morale; con il conseguente sprezzo per gli improvvisatori. E nel senso, soprattutto, della storia come pensiero e come azione; come religione della libertà. Da qualunque parte si acceda all’edificio del pensiero crociano si ritroverà la necessità di «rivivere» non solo la poesia (operazione necessaria a tradurre propriamente) ma altresì la storia, la filosofia; perché a ben intendere un filosofo occorre riviverne il «dramma mentale» (Croce 1989, 38), e occorre rivivere la storia, tutta contemporanea laddove sia viva, poiché il suo cadavere si chiama semplicemente cronaca. Noi riviviamo la storia, la rifacciamo in noi, ed ecco che essa, anche la più remota, anche l’antica è subito contemporanea. Le considerazioni sulla traduzione procedono da queste e viceversa. «Quale differenza c’è mai tra l’opera che si dice mia, e ogni altra opera della quale sono mosso a rifare in me e pensare la storia? […] Non appartengono quelle opere a Sofocle, ad Aristotele, ai popoli ellenici, ma a chiunque, ritrovandole in sé, le rivive» (Croce 1941, 154).

Benedetto Croce agì sempre da «correttivo», fu per gli intellettuali antifascisti un «essenziale point de repère, una solida piattaforma dalla quale avremmo ormai saputo anche discostarci, ma senza mai perderla d’occhio» (Solmi S. 1946, 88). L’intransigenza, il «dover essere contrapposto all’essere» (Croce 1989, 24) mise le basi della fisionomia morale comune ai traduttori di cui ci occupiamo qui. È l’autodisciplina di un sé costruito interamente contro l’irrespirabile società fascista, che dal Contributo alla critica di me stesso e attraverso l’ultima pagina di Piero Gobetti, il Commiato pubblicato sul «Baretti» il 16 marzo 1926 (Gobetti 1966, 87-88); o ancora le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, scende fino al cave ginzburghiano degli ultimi giorni di Regina Coeli, di cui diede testimonianza Sandro Pertini: «Guai a noi se domani […] nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco» (Sofri 2001).

Bibliografia

Baselica 2011: Giulia Baselica, Alla scoperta del «genio russo», in «tradurre. pratiche teorie strumenti», n. 15, autunno 2011 (https://rivistatradurre.it/?s=genio+russo); ora in tradurre. Pratiche teorie strumenti. Un’antologia dalla rivista, 2011-2014, a cura di Gianfranco Petrillo, Bologna, Zanichelli, 2017, pp. 175-198

Benjamin 1923: Walter Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, in Charles Baudelaire, Tableaux Parisiens. Deutsche Übertragung mit einem Vorwort über die Aufgabe des Übersetzers, hrsg. von Walter Benjamin, Verlag von Richard Weißbach, Heidelberg (ora in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften. Hg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M., Suhrkamp 1972, Bd. IV, da cui si cita, p. 16)

Contini 1989: Gianfranco Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino, Einaudi

Croce 1941: Benedetto Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bari, Laterza

– 1946: Benedetto Croce, Intorno a un’antologia di traduzioni italiane delle liriche di Goethe, in Goethe, con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, 2 voll., quarta ediz. ampliata, Bari, Laterza(prima edizione, in un solo volume, 1919)

– 1951: Benedetto Croce, La storia come storia della libertà, in Filosofia – Poesia – Storia, pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, Milano-Napoli, Ricciardi (originariamente in La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938)

– 1989: Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi (originariamente in Etica e politica, Laterza, Bari 1931)

– 1990: Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi (prima edizione Laterza, Bari 1902)

Dolghin-Badoglio 1928: Lev Tolstòj, Resurrezione. Romanzo in tre parti, 2 voll., versione integrale e conforme al testo russo con note di Valentina Dolghin-Badoglio, Slavia, Torino 1928 (da Lev Tolstoj, Voskresen’e, 1899)

Esposito 2018: Edoardo Esposito, Con altra voce. La traduzione letteraria tra le due guerre, Roma, Donzelli

Faccioli 1927: Anton Cechov, Il duello. Tre anni. Racconti, prima versione integrale e conforme al testo russo con note di Giovanni Faccioli, Torino, Slavia (da Duel’, 1891, e Tri goda, 1895)

Ginzburg 1929: Lev Tolstòj, Anna Karenina, romanzo in otto parti, prima traduzione integrale dal russo con note di Leone Ginzburg, Torino, Slavia

– 2000: Leone Ginzburg, Scritti, a cura di Domenico Zucàro, Torino, Einaudi (prima edizione 1964)

– 2004: Leone Ginzburg, Lettere dal confino 1940-1943, a cura di Luisa Mangoni, Torino, Einaudi

– 1966: Piero Gobetti, L’editore ideale, a cura di Franco Antonicelli, Milano, Scheiwiller

Gobetti 2017: Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, a cura di Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi (prima edizione 1991).

Kociemski 1931: Anton Cecof, Il duello; Tre anni; La corista; Lo studente; Sul mare, traduzione di Leonardo Kociemski, Milano, Mondadori (da Anton Čechov: Duel’, 1891; Tri goda, 1895; Horistka, 1886; Student, 1894; V more, 1883)

Küfferle 1931: Feodoro Dostoievski, I demoni, 2 voll., traduzione di Rinaldo Küfferle, Milano, Mondadori (da Fëdor Dostoevskij, Besy, 1871)

Lo Gatto 1943: Fjodor Dostojevskij, Diario di uno scrittore: 1873, traduzione dal russo di Ettore Lo Gatto, Torino, Einaudi (da Fëdor Dostoevskij, Dnevnik pisately, 1876)

Mangoni 2000: Luisa Mangoni, Prefazione a Ginzburg 2000

– 2004: Luisa Mangoni, Introduzione a Ginzburg 2004

Olkienizkaia-Naldi 1929: Ivan Turghenjev, Le memorie di un cacciatore. Racconti, 2 voll., prima traduzione dal testo russo con note di Raissa Olkienizkaia-Naldi, Torino, Slavia (da Ivan Turgenev, Zapiski ohotnika, 1852)

Petrillo 2018: Gianfranco Petrillo, Benedetto Croce, ancora lui!, in «tradurre. pratiche teorie strumenti», n. 15 (autunno 2018) (https://rivistatradurre.it/2018/05/benedetto-croce-ancora-lui/)

Polledro 1927: Fiodor Dostojevskij, I fratelli Karamazov. Romanzo in quattro parti e un epilogo, 4 voll., unica versione integrale e conforme al testo russo con note di Alfredo Polledro, Torino, Slavia (da Brat´ja Karamazovy, 1878-1880)

Sofri 2001: Gianni Sofri, Ginzburg, Leone, in Dizionario biografico degli italiani, vol. LV

Solmi R. 1962: Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Torino, Einaudi (da Benjamin 1923)

Solmi S. 1998: Sergio Solmi, Scrittori, critici e pensatori del Novecento, in La letteratura italiana contemporanea (tomo secondo), a cura di Giovanni Pacchiano, Milano, Adelphi