NUMERO MONOGRAFICO SULLA FORMAZIONE DEI TRADUTTORI EDITORIALI IN ITALIA
a cura di Giulia Baselica, Aurelia Martelli e Paola Mazzarelli
Oggi non esiste quasi università italiana che non offra agli studenti percorsi di studio (corsi singoli, corsi di laurea, lauree triennali e magistrali) in cui compare la parola traduzione. Si tratta di percorsi molto seguiti, anche perché di solito vengono pubblicizzati come possibili aperture al mondo del lavoro, tant’è vero che sono centinaia i giovani che ogni anno prendono una laurea, vuoi triennale vuoi magistrale, con tesi che in qualche misura hanno a che vedere con la “traduzione”. Accanto all’offerta accademica esiste poi una variegata offerta privata di corsi, scuole, laboratori, seminari di vario genere – più o meno consistenti, più o meno articolati, più o meno costosi – dedicati a giovani traduttori e/o aspiranti traduttori. Infine, esiste ed è in costante aumento, una vastissima bibliografia dedicata specificamente alla traduzione e all’insegnamento della traduzione. Come si vedrà, un’offerta tanto vasta e articolata è cosa relativamente recente. Poco si parlava di traduzione e per nulla la si insegnava prima degli anni novanta del secolo scorso. Con una crescita esponenziale soprattutto a partire dagli anni duemila, oggi se ne parla e la si insegna ovunque.
Fermo restando che è impossibile rendere conto di tutte le esperienze e le proposte disponibili, abbiamo cercato di offrire una panoramica sufficientemente vasta da mettere in luce gli aspetti più interessanti della questione e di porre sul tavolo i problemi fondamentali, nella speranza di offrire spunti di riflessione e di aprire un dibattito di cui oggi si sente forte necessità.
A fronte di un’offerta così ampia, viene subito da chiedersi in che misura tutti questi traduttori così variamente formati diventino effettivamente traduttori attivi. Non esistono dati attendibili al riguardo, anche se si ha l’impressione che il passaggio dai luoghi della formazione all’universo operativo sia tutt’altro che scontato. L’interrogativo però ci pare debba essere spostato a monte. Non è tanto questione di sapere quanti traduttori laureati, diplomati o altrimenti formati trovino effettivamente lavoro, quanto piuttosto di chiedersi se la formazione che ricevono li prepari effettivamente alle esigenze di un mercato che certo non è né in espansione né particolarmente disponibile nei confronti delle nuove leve. E a questo proposito vale la pena notare che il Premio Babel per la traduzione (oggi Babel-Laboratorio Formentini), partito qualche anno fa con l’intento di premiare ogni anno un giovane traduttore sotto i 35 anni, si è trovato costretto ad alzare l’età minima a 40 anni, per mancanza spesso non già di materia prima, ma di materia prima di valore. Segno piccolo, ma indicativo, di una effettiva carenza di giovani traduttori di qualità. Che sia, questa, la spia di una situazione reale ben diversa da quella che a prima vista parrebbe configurarsi a fronte di un’offerta formativa tanto vasta?
Sempre a questo proposito, salta all’occhio l’evidente contrasto tra le “discipline” di studio dei percorsi accademici e non accademici dedicati alla traduzione e l’itinerario culturale dei traduttori oggi attivi nel mondo editoriale che per età anagrafica o per altri motivi non hanno seguito nessun corso di formazione specifico e però traducono regolarmente i libri che leggiamo. Alcune riflessioni e testimonianze sono qui pubblicate, altre si leggono nelle interviste (Maurizia Balmelli, Claudio Groff, Ada Vigliani, Claudia Zonghetti, tanto per citarne alcune) pubblicate nei numeri precedenti della rivista. Non c’è traduttore che, interpellato in proposito, non faccia riferimento alla propria passione per la lettura e spesso per la scrittura, e alla propria costante frequentazione della letteratura. Si vedrà, scorrendo i contributi a questo numero, che di solito non sono questi gli aspetti su cui insistono i programmi dei percorsi formativi “ufficiali”, che manifestano una evidente propensione per gli aspetti teorici e/o squisitamente tecnici, linguistici, con una attenzione minima, o addirittura inesistente, per gli aspetti più propriamente letterari, storici e filosofici: umanistici. Si ha l’impressione di uno scollamento – forse non sempre ignorato, ma certo spesso taciuto – tra ciò che viene offerto e ciò che servirebbe realmente. Il che è forse legittimo, ma curiosamente riporta l’oggi – a dispetto di tanta varietà dell’offerta formativa – allo ieri, quando nessuno si preoccupava della formazione dei traduttori eppure i traduttori esistevano.
Questo numero riprende un discorso iniziato fin dal numero zero (primavera 2011) con l’articolo Insegnare a tradurre: Esperienze di didattica all’Università di Torino e una «modesta proposta» di Paola Brusasco, Maria Cristina Caimotto e Aurelia Martelli. In quel caso si segnalavano una serie di criticità relative alla didattica della traduzione in università: l’elevato numero degli studenti in aula e il non-obbligo di frequenza, che spesso costringono a una modalità di didattica frontale; una bassa conoscenza della lingua di partenza e la scarsa padronanza di quella di arrivo, ovvero la fragile consapevolezza delle risorse morfologiche, sintattiche e stilistiche offerte dall’italiano; una politica di reclutamento dei docenti non adeguata, che finisce per attribuire la didattica della traduzione (in tutte le sue forme, teorica, storica, pratica, da e verso qualsiasi lingua) a docenti con formazione linguistica in una specifica lingua straniera ma non necessariamente con esperienza o formazione nel campo della traduzione.
Negli otto anni che separano quel numero 0 di «tradurre» da questo numero monografico, l’offerta di corsi e percorsi formativi per aspiranti traduttori è aumentata in ambito accademico e forse anche non accademico. Il “forse” è d’obbligo perché l’offerta privata, a parte alcune realtà consolidate di cui cerchiamo qui di dare conto (Tradurre la letteratura, Langue&Parole, Oblique, TuttoEuropa, Grió), è estremamente fluida e difficilmente quantificabile, nonché spesso soggetta a dinamiche di improvvisazione, quando non di esclusivo tornaconto economico. Per quanto riguarda l’università si parte con una riflessione sugli effetti che la riforma Berlinguer (il cosiddetto 3+2) ha avuto sulla didattica della traduzione, per poi presentare alcune sedi particolarmente solide. Va sottolineato tra l’altro che a livello istituzionale, anche se non a livello individuale dei singoli docenti, esiste in ambito accademico una permanente confusione fra traduzione editoriale e traduzione specialistica, due attività che vengono distinte e separate in ambito legislativo, normativo e fiscale, essendo di fatto attività diverse, che richiedono competenze e strumenti diversi e hanno committenze diverse, ma che nei percorsi accademici appaiono quasi sempre unificate sotto la voce generica “traduzione”. Confusione che certo non giova alla formazione dei traduttori, né dell’una né dell’altra specie. La distinzione tra le due attività di traduzione, editoriale e specialistica – che corrispondono di fatto a mestieri diversi (anche se nulla impedisce, naturalmente, a una persona di svolgerli entrambi) – pare invece chiara negli ambiti della formazione non accademica, dove i docenti, come si vedrà, sono spesso tratti dalle file dei traduttori editoriali. Va notato, però che, sia in ambito accademico, sia spesso anche in ambito non accademico, per traduzione editoriale pare intendersi di fatto traduzione letteraria (cioè traduzione di narrativa, e per lo più di narrativa alta). Viene spesso tralasciata (o dimenticata?) tutta la vasta parte dell’editoria che, a seconda delle case editrici, va sotto il termine generico di saggistica o varia, e che spazia in tutti gli ambiti che non sono propriamente narrativa: un tipo di traduzione che richiede sempre una salda formazione culturale e la reale capacità di fare ricerca e di orientarsi nella giungla delle informazioni disponibili, due fondamentali competenze del traduttore editoriale che i vari percorsi formativi sembrano dare per scontata.
A una rassegna, certo non esaustiva, ma almeno nelle intenzioni esemplare, dell’offerta formativa accademica e non accademica (privata o semiprivata, come nel caso dell’agenzia formativa TuttoEuropa di Torino, finanziata con fondi pubblici dell’Unione europea), si affiancano i contributi di vari protagonisti dello scenario didattico: alcuni docenti raccontano come insegnano, le difficoltà che incontrano, i diversi contesti didattici che devono affrontare, spesso diversissimi tra loro (per numero e provenienza degli studenti, per quantità di ore, per condizioni di lavoro che variano dalla didattica frontale a gruppi di centinaia di studenti a piccole classi dove si lavora in modo laboratoriale); alcuni studenti raccontano la loro esperienza “sui banchi”: che cosa funziona (secondo loro) in un’aula dove si insegna traduzione, come hanno percepito l’organizzazione (o la disorganizzazione), che cosa si aspettavano e che cosa ritengono di aver ricevuto.
Il numero presenta inoltre due articoli che restituiscono due esperienze pioneristiche in ambito traduttivo: i laboratori di traduzione tenuti da Barbara Lanati negli anni ottanta e novanta presso l’Università di Torino, e l’esperienza, all’epoca unica, della Setl – Scuola europea di traduzione letteraria – fondata e diretta da Magda Olivetti, dalla quale uscirono molti dei traduttori più accreditati oggi attivi in Italia.
Abbiamo inoltre ritenuto utile uno sguardo sui manuali di traduzione disponibili e spesso utilizzati nei corsi, per lo più universitari. Ne è emersa una rassegna molto significativa, a cui si accompagna la recensione del recente volume Teaching Translation. Programs, courses, pedagogies curato da Lawrence Venuti. Infine, abbiamo curiosato al di là delle frontiere: davanti alla difficoltà di costruire panorami attendibili per ciascuno dei maggiori paesi europei e americani, si è puntata l’attenzione sulla formazione dei traduttori in un paese come la Russia, avvertito ancora come periferico rispetto all’Europa, ma con una solida tradizione teorica e una lunga storia di traduzioni dalle lingue europee.
Nel leggere i contributi delle varie realtà didattiche, le testimonianze dei singoli docenti e le molte riflessioni che li attraversano, si possono individuare alcuni temi e aspetti ricorrenti. Innanzitutto l’importanza della dimensione artigianale/laboratoriale: l’insegnamento della traduzione non può prescindere da un meticoloso e capillare lavorio sul testo sia nella fase ermeneutica (sapere leggere in profondità il testo di partenza, coglierne peculiarità stilistiche/grammaticali/ culturali), sia nella fase traduttiva vera e propria (far produrre agli allievi una propria proposta di traduzione, discuterla in classe, sostenere e argomentare le proprie scelte sulla base di criteri che non si limitino al «mi suona bene così», saper recepire critiche e suggerimenti). Vi è poi una questione altrettanto rilevante, ossia il focus sulla lingua di arrivo: imparare a sfruttare (e conoscere/riconoscere) tutte le potenzialità espressive della lingua italiana, i diversi modi di “grammaticalizzare” effetti stilistici (l’enfasi, la variazione di registro, la caratterizzazione dei personaggi ecc.). Ulteriore elemento comune è costituito dalla rilevanza nella scelta dei docenti, ma solo per quanto riguarda le realtà non accademiche: il cavallo di battaglia di molte scuole è infatti la presenza di insegnanti che sono, in primis, traduttori esperti, e che portano nello spazio didattico il racconto (più o meno strutturato, più o meno sistematizzato, più o meno aneddotico) del loro sapere traduttivo, delle insidie del loro mestiere. Infine – ma ogni lettore troverà ulteriori aspetti che si intrecciano e dialogano – l’abbandono pressoché totale (ferme restando le differenze nello “stile” dei docenti) di un approccio normativo e prescrittivo. Un ultimo elemento che sembra sottendere i diversi contributi, accademici e non accademici, è il richiamo alla traduzione come attività professionale, e dunque in rapporto con un presupposto mondo del lavoro. Tuttavia, la conoscenza della cosiddetta “filiera del libro” all’interno della quale andrebbe a collocarsi l’opera del traduttore così inteso non sembra avere in ambito accademico effettiva rilevanza, mentre l’ha, più o meno forte, nei corsi non accademici.
In buona sostanza, benché ci sia accordo diffuso e condiviso sull’imprescindibilità di questi aspetti (e sul danno che un loro mancato opportuno trattamento può comportare all’interno di un percorso didattico), non sempre le realtà che per loro natura dovrebbero essere i luoghi deputati a rispondere a una domanda didattica così complessa riescono a offrire percorsi formativi adeguati. È innegabile che le università, soprattutto in seguito alle riforme Berlinguer (che ha introdotto un’idea di “professionalizzazione” dei percorsi formativi contribuendo a snaturare fortemente l’idea di apprendimento e quindi di insegnamento) e Gelmini (che ha avuto ripercussioni penalizzanti soprattutto sul reclutamento docenti), non sono, al momento, in grado di fornire un’offerta didattica e percorsi di formazione dei traduttori che tengano conto dei fattori elencati sopra. All’interno delle università, i docenti titolari di corsi nei settori di «Lingua e traduzione» non sono quasi mai traduttori, bensì specialisti di linguistica, didattica delle lingue, o di una qualche lingua straniera; le aule affollate non permettono una dimensione laboratoriale ma costringono alla tradizionale lezione frontale; i vari insegnamenti, a partire dalla propria denominazione (per esempio «Lingua inglese: Lingua e traduzione») mettono al centro la riflessione sulla lingua di partenza (e non sulla lingua di arrivo) fino a situazioni paradossali come i corsi di traduzione verso l’italiano tenuti nella lingua straniera (quindi per esempio, in un corso di traduzione dall’inglese all’italiano il docente terrà lezione in inglese…).
Pare dunque che il vero nodo problematico che emerge dai vari contributi sia legato alle complessità che comporta il carattere necessariamente esperienziale dell’insegnamento della traduzione. Perché, come afferma Franco Nasi nell’articolo Corsi, ricorsi e percorsi, «come in qualunque altro mestiere, anche a tradurre evidentemente si impara traducendo». E dunque, come si può insegnare a fare un’esperienza?