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Una valigia di coraggio

di Hilary Basso

autrice di Michelle Steinbeck, Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena, Latina, Tunué, 2019 (da Mein Vater war ein Mann an Land und im Wasser ein Wahlfisch, Basilea, Lenos Verlag, 2016)

Dovevo capirlo già dal titolo (strano, e lungo per giunta, ma geniale) che l’impresa in cui mi stavo imbarcando non mi avrebbe fatto dormire la notte. Da quando, leggendo il romanzo per la prima volta senza armarmi di bisturi del mestiere, il mio orizzonte d’attesa veniva continuamente spostato, abbattuto. Lo stile che parla da sé, le parole pregne di significato che giocano

Una koiné giovane

di Giulio Sanseverino e Marina Di Leo, autori di David Lopez, Il feudo, Palermo, Sellerio, 2019 (da David Lopez, Fief, Seuil, Parigi 2017) |

Accedere al feudo dalle pagine di Il feudo significa ritrovarsi in una piccola città tra periferia e campagna, né adulti né ragazzini, né «fighetti delle case bene, ma neppure feccia dei quartieri bassi», a fumare canne, bere, giocare a carte, prendersi in giro; per la gioia di annoiarsi, senza mai annoiarsi davvero. E soprattutto significa addentrarsi in una lingua ritmica, sfuggente e proteiforme, qual è il parlato giovanile.

Che ti dice la patria? / 2 (segue)

SECONDA PARTE DELLA STORIA

di Gianfranco Petrillo |

Il 20 luglio 1944 Enrico Rocca si suicidò. Goriziano del 1895, e quindi suddito dell’Austria-Ungheria, a quella patria aveva voltato le spalle giovanissimo per slanciarsi verso quella che sentiva la sua vera, l’Italia. Studente a Venezia, a vent’anni, nel 1915, aveva fondato con altri un giornalino significativamente intitolato «Guerra», che abbracciava il credo futurista dell’«igiene del mondo». E c’era andato volontario, in guerra, ed era stato anche gravemente ferito. Poi, nel marzo del 1919, era in piazza San Sepolcro, a Milano, tra i fondatori dei Fasci italiani di combattimento.

Lettere ai miei traduttori

di Claudio Magris |

Cari amici,

come molti di voi sanno, io mi sono sempre preoccupato di fornire, a chi si accinge a tradurre ogni mio libro, tutte le informazioni, spiegazioni e riferimenti possibili, per alleviare almeno la fatica materiale del lavoro, la ricerca di frasi o titoli nell’espressione originale, o di fonti e citazioni e così via. Mi sembra il minimo che io possa fare per aiutare, nei limiti delle mie possibilità, chi dà vita al mio testo in un’altra lingua, facendolo vivere ulteriormente in misura essenziale e divenendone in qualche modo un co-autore. Sapete benissimo l’enorme importanza che, a mio avviso, investe una traduzione;

Rispettare l’altro non significa tradurlo alla lettera

ANZI, NEL CASO DELL’ARABO È IL CONTRARIO. PAROLA DI ELISABETTA BARTULI

di Paola Mazzarelli |

Elisabetta Bartuli ha tradotto libri di Mahmud Darwish, Elias Khuri, Jabbour Douaihy e diversi altri scrittori di lingua araba a e di varia nazionalità. Inoltre ha curato libri che espongono l’attualità del mondo arabo. Insomma, in fatto di lingua, letteratura e cultura araba ne sa non poco. Sono andata a trovarla a casa sua, a Vicenza, e l’’ho assediata di domande alle quali ha risposto volentieri e con passione.

La prima domanda è di prammatica. Come comincia

Je suis l’opoponax. Come tradurre l’enigma del genere?

di Silvia Nugara | 

[L]es pronoms personnels et impersonnels sont le sujet, la matière de tous mes livres. Par ces mêmes mots qui établissent et contrôlent le genre dans le langage, il me semble qu’il est possible de le remettre en question dans son emploi, voire de le rendre caduc. (Wittig 2001, 134-5)

I pronomi personali e impersonali sono l’argomento, la materia di tutti i miei libri. Mi sembra che il genere lo si possa mettere in questione , persino renderlo caduco proprio attraverso queste parole che lo stabiliscono e controllano nel linguaggio.

Così si esprimeva Monique Wittig nel suo saggio La marque du genre, apparso in inglese per la prima volta nel 1985 con il titolo The Mark of Gender prima di essere incluso nella raccolta The Straight Mind and Other Essays

Per una regia della traduzione

APPUNTI SU RITORNO A FASCARAY, DI ANNALENA MCAFEE

di Daniele Petruccioli | Partiamo dall’assunto che tradurre sia un lavoro, e un lavoro creativo. Mi rendo conto che si tratta di una questione controversa, su cui non esiste accordo né da un punto di vista pratico né teorico, né credo che vivrò abbastanza per vederlo. Se ancora dibattiamo sull’opportunità e sulla legittimità di un discorso creativo a proposito della traduzione; se nelle università italiane l’insegnamento della traduzione di testi creativi rientra ancora esclusivamente sotto l’ombrello dell’apprendimento linguistico; se la critica della traduzione, le rare volte in cui si affaccia a fare capolino su riviste e giornali più o meno specializzati, tende nella maggior parte dei casi a risolversi in un elenco che troppo spesso serve non al tentativo di descrivere un’interpretazione bensì a quello di determinare il maggiore o minor grado di errore; se è vero che non siamo d’accordo nemmeno sulla natura semiologica di questa pratica (figuriamoci sui suoi elementi, per dire, musicali…); se tutto questo è vero, non mi pare il caso di mascherarsi dietro un’introduzione fintamente assertiva che si ridurrebbe a una petizione di principio o peggio a una supplica. Vi chiedo di prenderlo come un assioma. Se lo condividete, non ho bisogno di invitarvi a seguirmi. Se non lo condividete, ma vi interessa vedere dove va a parare un ragionamento che parta da queste premesse, coltivo quanto meno la speranza di riuscire a toccare alcuni punti importanti anche per voi sul modo di pensare e praticare la traduzione.

«Chiudi fuori l’inverno»

STELLA SACCHINI TRADUTTRICE DAL GRECO

di Paolo Mazzocchini | Il nome di Stella Sacchini è soprattutto legato a una recente e brillante carriera di traduttrice di classici della letteratura di lingua inglese: basti pensare, tra l’altro, a Jane Eyre di Charlotte Brontë (Feltrinelli, Milano 2014) con cui ha vinto il premio Babel per la traduzione, o a Piccole donne di Louisa May Alcott (Feltrinelli, Milano 2018)Forse è meno noto il fatto che la sua formazione universitaria è avvenuta invece in un settore di studi piuttosto diverso: quello dell’antichistica, delle letterature classiche e della filologia bizantina.

“Something restraining” ovvero, tradurre il cuore di “Cuore di tenebra”

di Simone Barillari | Che cos’è rimasto dell’Uomo dopo la morte di Dio, si chiede Conrad alle soglie del Novecento, e al centro esatto del suo capolavoro incastona una ferrea riflessione sul concetto di restraint – il ritegno, la capacità di trattenersi – come se fosse la chiave per aprire l’intero libro.

Sul battello diretto verso Kurtz e la sua Stazione Interna, il capitano Marlow è insieme al Direttore della Compagnia, a «tre o quattro» agenti e a «venti cannibali» imbarcati per i lavori di fatica. Si rende conto, parlando con il loro capo, che non mangiano quasi niente da oltre un mese: la carne di ippopotamo che avevano con sé è andata a male; e si chiede all’improvviso perché quei cannibali, più numerosi e più robusti dei bianchi, non abbiano assalito e mangiato lui e gli altri per placare il digrignante «demone della fame», per porre fine alle sue «esasperanti torture». And I saw that something restraining, one of those human secrets that baffle probability, had come into play there, «Capii allora che era entrato in gioco qualcosa che li aveva frenati, uno di quei segreti della natura umana che sfidano le leggi della probabilità» (Conrad 2010).

La baldanza

di Eva Allione

autrice di Dambudzo Marechera, La casa della fame, Roma, Racconti edizioni, 2019 (da The House of Hunger, London, Ibadan, Nairobi, Heinemann African Writers Series, 1978) | 

Comincio con cautela, questo testo mi fa paura. Da subito la trama – un giovane prende le sue cose e se ne va di casa dopo uno scontro col fratello; scoprirà di non poter fuggire dalla Casa della fame che è lo Zimbabwe – si sgretola in un maelstrom di immagini, di flashback e di flashback nei flashback. Secondo l’editore l’incipit chiamerebbe un passato prossimo, ma temo che un tempo così concreto e quotidiano non regga lo slancio delle scene più allucinate.